Grande grande Caravaggio
Tra le varie formule che Italo Calvino ha attribuito ai classici, una per tutte potrebbe ben rispecchiare la lunga gittata che l’ombra di Caravaggio proietta fin nel cuore del Novecento e oltre, facendo di quest’artista un punto di riferimento immancabile, un modello, finanche un’icona di cui si sono appropriati, nel tempo, altri linguaggi. Scrive Calvino: «I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale».
A partire dagli studi di Longhi e poi di Calvesi e Mina Gregori, fino ai contributi più recenti (ricordo il bel volume di Alessandro Zuccari, Cantiere Caravaggio, edito da De Luca nel 2022), la figura di Merisi si è venuta sempre più «imponendo» nel corso del Novecento, assestandosi tra i vertici della storia della pittura da un lato, dall’altro dando origine a una bibliografia ormai amplissima, anche in virtù delle nuove scoperte e attribuzioni, che non poco hanno contribuito a una problematizzazione filologica, con questioni che restano tuttora sul tavolo degli esperti. Caravaggio è talmente consustanziale alla nostra contemporaneità da essere, con le parole di Calvino, un classico ormai sedimentato nel nostro inconscio e nel nostro immaginario. Per questo ogni evento che lo riguardi riscuote quell’attenzione e quel riscontro riservati solo ai grandi protagonisti di una scena artistica, che non si esaurisce certo con la sua vicenda biografica o espressiva: i suoi dipinti, per tornare a Calvino, non finiscono mai di dire quel che hanno da dire, e sembrano davvero scrollarsi di dosso il denso «pulviscolo di discorsi critici su di sé».
Non si sottrae a quest’onda di successo, considerato il numero altissimo di prenotazioni, anche la mostra appena inaugurata a Roma a Palazzo Barberini, Caravaggio 2025, esito di una partnership davvero straordinaria che ha coinvolto istituzioni museali, sponsor di altissima caratura, privati. Si è costituita una squadra di studiosi, composta anzitutto dai tre curatori, Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi, Thomas Clement Salomon (le prime due responsabili anche del catalogo pubblicato da Marsilio Arte), squadra che ha dato vita a un’esposizione invero unica sia per la ricchezza sia per la rarità di alcune tele, accanto ad altre ben note anche al grande pubblico.

È notevole che siano presentate per la prima volta, tutte insieme, ben ventiquattro opere e che la mostra attuale possa rendere conto di un ampio tracciato, che spazia dal Bacchino fino al Martirio di Sant’Orsola, dipinto un mese prima della scomparsa di Caravaggio. L’osservatore ha a disposizione una rappresentanza pressoché unica, con la possibilità di confronti, dal vivo, che può completarsi con la visita nelle chiese romane, dov’era più corretto lasciare le tele nel contesto originario voluto, specie nell’anno giubilare; sola eccezione recuperata dal patrimonio ecclesiastico è la Flagellazione di Cristo, in cui la figura martoriata del protagonista si mostra in un’inedita leggerezza, quasi danzante come il passo della Madonna dei Pellegrini conservata nella chiesa di Sant’Agostino. Caravaggio 2025, in questa prospettiva, riassume e stimola quanto della filologia si è finora speso su temi ancora dibattuti a proposito di datazioni e attribuzioni, ma questo è un percorso obbligato per tutti gli studiosi di questo maestro. Quanto al visitatore, potrebbe risultare più coinvolgente una visione più contemporanea, multimediale o meglio transmediale di Caravaggio, soprattutto alla luce dei restauri più recenti. Intendo che tra le iniziative collaterali, che non potranno mancare in un investimento di tale importanza, ci si augura che possano aprirsi spazi di riflessione e di discussione sulla più autentica portata odierna di Merisi, che va ben oltre il “caravaggismo”, fecondamente sviluppatosi nei suoi immediati dintorni ma anche nell’ambito della pittura novecentesca e post-novecentesca. Al di là degli influssi, dei richiami più o meno palesi, Caravaggio si è offerto anche come personaggio, agendo un’intertestualità che, se da un lato supera i confini dell’imitazione e dell’emulazione per farsi omaggio, ripresa, reinvenzione, dall’altro finisce per comprendere dimensioni espressive che non possono essere trascurate o marginalizzate, ai fini di una più efficace ricostruzione dei processi di ricezione intorno a un momento capitale della nostra pittura. Non starò a richiamare come Caravaggio agisca sulla letteratura, sulla poesia, sul teatro (mi limito a ricordare il titolo di un libro del poeta Cesare Viviani, Merisi), ma anche sul cinema e sulla fotografia, proprio con il pensiero alla sua ultima opera. Da Jarman a Placido, per restare tra le pellicole di maggiore impatto, la settima arte non si è certo lasciata sfuggire l’occasione di ricreare una vicenda esistenziale e creativa già romanzesca di suo; quanto alla narrativa o alle biografie romanzate, si guardi alla trilogia di Alex Connor, o, in casa nostra, a romanzi come La luce e il lutto di Giuseppe Conte o Il colore del sole, dove Andrea Camilleri immagina un diario segreto del pittore, scritto durante il soggiorno a Malta.
Per ciò che concerne la fotografia, il discorso si fa più complesso e intrigante. Proprio dall’osservatorio di quest’arte il confronto diviene più interessante anche per illuminare poetica e tecnica (e quindi l’interpretazione) di Caravaggio. Il dipinto che conclude la mostra e la cronologia delle opere, il Martirio di Sant’Orsola, conservato a Napoli presso le Gallerie di Intesa San Paolo, è stato oggetto di un recente e accuratissimo restauro che ha coinvolto anche nuove tecnologie, grazie alle quali è stato possibile ottenere, nelle parole della restauratrice Laura Cibrario, «una pulitura chirurgica mirata». Sono così riapparsi dettagli che rendono la rappresentazione ben più affollata e movimentata, «come il frame di una scena in movimento». Insomma, è un fermo immagine, una vera e propria fotografia dell’istante in cui la martire osserva sorpresa quanto le sta accadendo, e il suo carnefice Attila si mostra «quasi inebetito». A far partire lo scatto è proprio l’osservatore Caravaggio, che pare aver colto l’istante cruciale di una scena a cui si trova ad assistere casualmente, come un reporter che si aggiri per le strade in attesa di poter fissare un evento.
Il Martirio di Sant’Orsola, così come possiamo ammirarlo in questa esposizione, non è il solo dipinto che, a seguito del restauro, offre visioni e prospettive inedite. Altra opera d’interesse, di recente attribuzione, è senza dubbio l’Ecce Homo, che rappresenta forse la vera sorpresa di Caravaggio 2025. Apparso nel 2021 in asta in Spagna con un riferimento, quanto mai generico, alla cerchia di Jusepe de Ribera, l’opera ha avviato fin da subito un dibattito sulla sua effettiva paternità, riconosciuta in quella di Merisi. Il successivo restauro del 2023, accompagnato da una serie di analisi scientifiche, ha confermato l’autografia caravaggesca soprattutto grazie agli interventi di una delle curatrici, Maria Cristina Terzaghi. Collocabile, al principio, nella collezione del viceré di Napoli, Garcia Avellaneda y Haro, che lo portò con sé al suo ritorno in patria, il dipinto figura in effetti nell’inventario dei beni dei conti Castrillo, descritto in modo inequivocabile, sebbene i problemi di datazione e di collocazione nel percorso di Caravaggio siano tuttora discussi. Notevole è l’approccio psicologico al personaggio di Pilato, che davvero espone alla folla esterna il Cristo martoriato alzandone i lembi del mantello, come a farlo riconoscere nella sua spoglia, umana nudità e verità, rispondendo così al noto quesito evangelico.

Le soluzioni spaziali offrono non solo la giusta prospettiva d’osservazione, ma suggeriscono anche confronti e percorsi più trasversali, tra scene profane e scene sacre, ritrattistica e gestualità (proprio ai ritratti è dedicato il saggio in catalogo di Gianni Papi, che insieme agli altri contributi fa di questo volume qualcosa che trascende uno strumento di accompagnamento alla mostra, di fatto comprendendo una folta e aggiornata bibliografia e sintetizzando studi passati, ma aprendo anche a nuove esplorazioni sullo status quaestionis). Penso per esempio alla Buona Ventura, di cui, nelle sale dello stesso Palazzo Barberini, si conserva la versione di Simon Vouet risalente al 1617, dunque successiva a quella di Caravaggio, dipinta invece tra il 1596 e il 1597 per il suo grande sostenitore, il cardinal Del Monte e di cui esiste una variante, oggi al Louvre. Quella in mostra, proveniente dalla Pinacoteca Capitolina, raffigura una zingara nell’atto della chiromanzia e dell’inganno (sta sfilando l’anello dalla mano del giovane), ciò che rende il titolo antifrastico e beffardo. Il dipinto dà origine a tutta un filone “zingaresco” ben attestato, nella sua impostazione scenica decisamente teatrale ma essenziale: gesti e significati si contengono nello spazio occupato dai due personaggi, laddove Vouet amplia la scena a una terza figura. Così, in quest’ultima opera, il tema centrale dell’ingenuità si stempera in quello della distrazione (è la terza figura, di spalle al giovane, che gli sottrae denari) e il sorriso sapiente e sornione della zingara, che in Caravaggio provoca timore e perplessità, si tramuta in una maschera impassibile, delegando alla nuova figura il sorriso come di complicità rivolto all’osservatore esterno. Così l’aver movimentato la scena dà vita in Vouet a un teatrino fin troppo esplicito, ben lontano dal più sottile scavo psicologico di Caravaggio, che poggia proprio sull’ingenuità della gioventù, mentre Vouet fa del derubato un uomo adulto, tutt’altro che elegante.
Quanto alla ritrattistica, sebbene in questo caso indiretta e ispirata al sacro, la mostra dà la possibilità, in una stessa sala, di evidenziare la presenza di un’unica modella (solitamente identificata nella cortigiana Fillide Melandroni anche se il saggio in catalogo di Francesca Curti mina tale ipotesi) nelle tele che rappresentano Santa Caterina d’Alessandria, Marta e Maddalena, Giuditta e Oloferne. La prima, in particolare, segna il momento in cui la modulazione della luce diviene un fattore essenziale del tratto caravaggesco, contribuendo alla determinazione di spazi e volumi. Questo punto di svolta pare testimoniato anche nella consapevolezza che traspare dal volto della santa, il cui sguardo traverso allude al martirio, rappresentato dalla ruota a cui si appoggia e dalla spada insanguinata, ma nello stesso tempo asseconda l’andamento della luce, che lascia in risalto sia la spada che l’ha decollata, in posizione centrale, sia la ruota con cui invano si è tentata la tortura fatale. La regalità della figura si riconosce anche nelle altre due tele, dove Maddalena regge uno specchio convesso, strumento attestato nella pratica pittorica di Caravaggio. Il contrasto con il volto austero di Marta evidenzia qui il momento drammatico della conversione; gli emblemi della vanità risultano corrosi dall’illuminarsi di una nuova e diversa bellezza, alla cui dolcezza si oppone con decisione il piglio, l’esattezza del gesto di Giuditta mentre decapita Oloferne.
Sono solo alcune delle molteplici suggestioni che Caravaggio 2025 induce nel visitatore, che ne esce confermato nella sua ammirazione e nello stesso tempo provocato dalle novità inesauribili di un maestro, che davvero non finisce di dire quel che ha da dire.
In copertina, Caravaggio, I bari, Kimbell Art Museum, Fort Worth, Texas.
