Giovan Battista Marino tra pittura e poesia
Scriveva W.H. Auden – per Josif Brodskij la più grande mente del XX secolo – introducendo il lettore alla poesia di Robert Frost, che se avesse chiesto a chiunque chi fosse l’autore del celebre motto «Bellezza è Verità, Verità è Bellezza», tutti avrebbero facilmente risposto il nome di John Keats. In realtà, chiosava Auden, Keats non ha mai detto niente di simile. A suggerire quel pensiero è piuttosto l’Urna greca, a cui il poeta romantico dedica una delle sue odi maggiori. Ed è ancora quel manufatto a suggerire un’altra immagine: Keats, che a meglio vedere non dedica l’ode all’Urna ma ne scrive a proposito (non to ma on a Grecian Urn), agendo così un rapporto descrittivo che è insieme suggestione, rapina, interpretazione, si sofferma sull’istante in cui un giovane amante è quasi sul punto di baciare l’amata e quella loro rappresentazione, fissa ed eterna, raccoglie il senso di infinito che è nella potenza e non nell’atto («sebbene ci sei quasi – non spiacerti: lei non sfiorisce, e se non ti rallegra, / per sempre la vorrai nella bellezza!»).
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Non credo che Keats avesse mai potuto osservare il quadro di Francesco Furini, risalente a due secoli prima, oggi esposto alla Galleria Borghese nell’ambito della mostra Poesia e pittura nel Seicento: Giovan Battista Marino e la «meravigliosa» passione (a cura di Emilio Russo, Patrizia Tosini, Andrea Zezzi, Beatrice Tomei, catalogo Officina Libraria). Il dipinto, risalente al 1626, rappresenta le due arti sorelle, Pittura e Poesia, proprio mentre stanno per baciarsi; l’intimità del gesto, apparentemente rafforzata dalla prossimità e dall’abbraccio tra le due figure femminili, è subito corrosa dal movimento degli sguardi, dalla solennità della rappresentazione, dall’intento allegorico svelato dal cartiglio in basso a destra, su cui è riportato «Concordi lumine maior», che potremmo tradurre come «Maggiore in una luce concorde» e leggere come «più grandi (e dunque più intense) se permeate di una sola luce condivisa», ma c’è uno scarto di numero, singolare e non plurale; inoltre, mentre la Pittura è rivolta verso la Poesia per baciarla (lasciando intendere che l’intento sia più suo), questa volge gli occhi fuori dal quadro, verso l’osservatore. La posizione del cartiglio, accanto a lei, farebbe sembrare che sia quest’arte a farsi grande quando l’altra condivide la luce; e la Pittura, che non può avere alcuna iscrizione essendo pura immagine, regge tra le mani, oltre ai suoi consueti strumenti (pennelli e tavolozza), una maschera. È dunque una traduzione fedele del motto oraziano, ut pictura poësis, alla lettera «come la pittura la poesia», che molta fortuna ebbe in ambito rinascimentale e poi nell’età del barocco, lasciando intendere (del resto il codice è quello pittorico) che sia la Poesia a muoversi verso la Pittura quando questa le concede il suo bacio. E si tratta, come in Keats, di un bacio in potenza, calato nell’ambizione all’eterno («Exegi monumentum», aveva scritto di sé Orazio) che entrambe condividono.
Che siano allegorie, a cui l’umano presta solo il sembiante, è confermato non solo dal titolo, ma anche dal fatto che le due giovani sono ritratte al di fuori di ogni riferimento contestuale che non sia implicito alla loro identificazione; non c’è un paesaggio a fare da sfondo, nulla che possa orientare (o depistare, a seconda del punto di vista) chi guarda. Le due figure non poggiano i piedi per terra, a riprova della loro natura non umana; la maschera della Pittura, emblema delle sue facoltà mimetiche, imitative, sembra anch’essa rivolgere le orbite vuote verso l’esterno del quadro, mentre la Poesia, con uno stilo nella destra, scrive qualcosa sulla spalla della Pittura, come fosse un foglio dove vergare parole o schizzi. A questo punto la compenetrazione è assoluta e il quadro è uno specchio, altrettanto assoluto, di una poetica trionfalmente condivisa dal maggior autore del periodo, al quale è dedicata la mostra: Giovan Battista Marino, colui che ci ha lasciato non solo il capolavoro di quegli anni, l’Adone, ma anche (e forse soprattutto, ai fini di questo discorso) La Galeria.
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Ma a cosa è dovuta, infine, questa “sorellanza”, se non alla concordia di una luce che risponde squisitamente a un processo ekphrastico? La poesia cresce scrivendo della pittura, o nella pittura: quest’ultima, a sua volta, si rispecchia nella celebrazione dei versi, trascende le sue immagini nella musicalità suasiva della «maraviglia» barocca. Non è tanto la sostanza intima di un comune esprimersi, che di fatto sarà in parte smentita dal Lessing del Laocoonte, quanto la celebrazione di un intento mimetico che la Poesia, nel suo speciale linguaggio ancor più amplificato dalla retorica barocca, attua in un rispecchiamento però non sempre puntuale.
È questo il problema: come e fino a che punto la poesia del secolo, così anamorfica, così stratificata nelle sue invenzioni, riesce a restituire il racconto di un’immagine dipinta? Se accostiamo testi e tele, come è nel progetto di questa mostra, spesso i conti non tornano, né, del resto, potrebbero tornare. Non è solo una questione di profondità temporale del testo poetico rispetto alla superficie dipinta, come avrebbe rilevato Lessing, quanto di una felicità creativa che è, in tutto e per tutto, ri–scoperta. L’ekphrasis barocca delude chiunque vi cerchi, con rigore filologico, riscontri all’insegna della precisione. Non è solo un fatto di difficoltà nel rintracciare le pennellate che sottostanno ai versi di Marino, spesso disperse o mai rinvenute, come nel caso di Caravaggio, ma di una felicità espressiva che non resiste a trascendere la fedeltà all’immagine, per farsi, da un lato, interpretazione oltre il semplice livello della descrizione; dall’altro pura e magnifica riscrittura a effetto, in virtù della quale il racconto si complica, si arricchisce di particolari inediti, di nuove e inattese rifrazioni. «Licenze poetiche», leggiamo tra le didascalie, ma sembra un eufemismo: la riscrittura, la variazione sono l’immediato riflesso di una predilezione che Marino condivise con l’altro grande collezionista del periodo, il padrone di casa Scipione Borghese; il cui nome non sorprende, a questo punto, ritrovare tra quelli di coloro che puntarono il dito contro il poeta, reduce dai trionfi in terra di Francia, accusandolo di eresia e costringendolo all’abiura. Non sarebbe rimasto ancora molto da vivere all’autore dell’Adone. Senza entrare nel vivo di una vicenda invero triste, non si può escludere che l’avversità del potentissimo cardinale fosse dovuta anche a una rivalità collezionistica che investiva la diversità di ruolo e status sociale tra i due; ma comunque si siano svolti i fatti, e quali fossero le ragioni autentiche della presa di posizione, giunge fino a noi intatta la natura di una passione che segna la personalità del poeta nella sua interezza e ne condiziona felicemente le scritture. Come nel quadro di Furini, che celebra l’apoteosi di una dottrina e che ben riassume lo spirito di quegli anni, e dell’intera mostra, Marino ha cercato incessantemente la pittura, come la pittura si è riversata nei suoi versi.
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Non è solo un dato costante, nella vicenda biografica e letteraria di quest’autore, ma anche un crescendo. Dopo essersi rapportato, perlopiù in maniera diretta e felice, con la maggior arte del suo tempo, a Marino spettava ancora un estremo riconoscimento: la relazione tra Poesia e Pittura si glorifica nel suo incontro con Poussin. Al pittore è giustamente riservato ampio spazio e rilievo nell’itinerario della mostra, che si svolge anche sul piano tematico (per esempio con particolare attenzione verso l’episodio biblico della strage degli innocenti, a cui Russo dedica un capitolo in catalogo, o alle figure di Venere e Adone). Proprio nel binomio Marino-Poussin le ragioni di questa esposizione ritrovano le motivazioni più profonde, che non si limitano a riflettere le suggestioni del motto oraziano e la sua reinterpretazione nel quadro di Furini; come giustamente ribadisce Mickaël Szanto, è all’interno di questo sodalizio che si «determinò la coloritura poetica» dell’arte poussiniana. Vale a dire che tale amicizia sviluppò in sé una dimensione compenetrativa destinata a esprimersi ancora oltre il livello ekhphrastico, che Marino aveva ben corroborato con le immagini della Galeria, di fatto ponendosi al centro esatto di mode, tendenze, correnti pittoriche; aveva cioè dimostrato di stare nella pittura e con la pittura, rivolgendo occhi e penna verso coloro che si sarebbero imposti tra i maggiori autori del periodo, o di quello precedente, da Correggio a Tiziano a Tintoretto. Ciascuno di quei nomi è un capitolo importante della storia dell’arte; per restare negli immediati dintorni, accanto a Poussin è notevole in mostra la presenza del Cavalier d’Arpino, accanto a quelle di Rubens, dei due Carracci, di Palma il Giovane, fermandoci ai più noti.
Poussin rappresenta quindi il punto di arrivo di un percorso variegato, agito da un occhio insaziabile, in cui pienamente si era ravvivato il paragone del poeta latino. Alla corte di Maria de’ Medici Marino entrò in contatto ormai in anni tardi, a partire dal 1622, con colui che in un quel breve arco di tempo rimasto (il poeta morì nel ’25) ne sarebbe divenuto il maggior reciproco. A partire da modelli e riferimenti comuni, come Raffaello e il suo allievo Giulio Romano, la strada intrapresa dai due doveva necessariamente incrociarsi; per Bellori, tra i primi biografi di Poussin, non fu difficile comprendere come i «colori poetici» di Marino avrebbero adornato i pennelli del più giovane, confacendosi «del tutto con li colori della pittura». È grazie alle immagini di Marino, così originali e piene di genio inventivo, che Poussin poté sviluppare appieno il proprio genio espressivo. Sbaglierebbe, però, chi limitasse quest’azione a un mero prestito di immagini, che pure avvenne: la relazione non si esaurì in una cessione di soggetti e motivi, ma dette vita a una vera e propria poetica al cui centro si posero i temi amorosi, con uno sguardo, questa volta, rivolto più a Ovidio che a Orazio. Il tema orfico dell’incantamento delle parole, della «lingua innamorata» fu probabilmente, sul piano simbolico, il correlativo di una potenza della rappresentazione, che tra verso e segno pittorico s’innalzava su un secolo difficile, guardando ai miti del passato e alle storie sacre, di cui solo l’età dei romantici avrebbe in parte còlto l’eredità.
Poesia e pittura nel Seicento: Giovan Battista Marino e la «meravigliosa» passione (a cura di Emilio Russo, Patrizia Tosini, Andrea Zezzi, Beatrice Tomei, catalogo Officina Libraria). Galleria Borghese, Roma.
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