Arbasino dall'America agli Zombi
Sembrava impossibile costringere nello spazio di un lemmario AZ, per quanto di aspirazioni enciclopediche, la verve espressiva e il cabaret citazionistico di uno scrittore della tempra di Alberto Arbasino. Ciò nonostante l’impresa sembra essere riuscita all’infaticabile Andrea Cortellessa, che nella bella serie AZ pubblicata da Electa ha riunito alcuni studiosi e specialisti dell’autore, per allestire un volume che potesse aspirare a una qualche organicità; senza rinunciare però a quelle linee trasversali che si intrecciano in un incessante andirivieni di rimandi e che di fatto rappresentano una caratteristica evidentissima della scrittura arbasiniana.
Il volume, dalla A di America fino alla Z di Zombi, ripercorre per strade tematiche note ai lettori l’intera vicenda dell’opera di Arbasino, dai lontani esordi con Le piccole vacanze e L’Anonimo lombardo, rispettivamente nel ’57 e nel ’59, attraverso l’incessante lavoro di scrittura e riscrittura, fino ai titoli più recenti, che soprattutto a partire dagli anni Ottanta virano decisamente verso un saggismo brillante e la ricostruzione, tra cronaca e ritrattistica, di ambienti intellettuali e personaggi frequentati e osservati da vicino. Ciò che emerge con evidenza, a conferma del carattere più internazionale e cosmopolita che abbia rappresentato la letteratura italiana del secondo Novecento, è la continua altalena fra sponde culturali distanti, che ha consentito un focus unico, nonché una capacità di analisi davvero panottica, sui fatti di casa nostra, con volumi come Fantasmi italiani, In questo stato, Un paese senza (le cui date si collocano sintomaticamente a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta), fino a Paesaggi italiani con zombi che chiude invece il decennio dei Novanta.
Non era semplice tematizzare un autore la cui dimensione euristica appare così ampia e variegata, ricca di riferimenti che vanno a disporsi su una linea decisamente highbrow, tesa a sfidare in una partita infinita le competenze del lettore; ma proprio allora si comprende, già a partire dalla prima voce a firma del curatore – il quale ci avverte che «l’America è la quintessenza dell’indecidibilità» e dunque il suo modello allegorico non può che essere Lolita di Nabokov – quanto Arbasino si sia mosso alla conquista di un patrimonio spendibile espressivamente, marcando geografie lontanissime, esattamente come l’esule aveva allegorizzato nell’inquieta adolescente l’oggetto autentico della propria sfida, ovvero l’american english (vi allude anche Julian Barnes, nel Pappagallo di Flaubert, quando sostiene non senza sorpresa, discutendo degli errori degli scrittori, che Nabokov si sarebbe sbagliato sulla fonetica del nome Lolita).
Quello che emerge dal volume dedicatogli è un ritratto di Arbasino necessariamente scomposto, allestito per decostruzioni e assemblaggi che, nel loro insieme, tendono forse a restituire qualcosa in più rispetto all’originale; ma questo è inevitabile e in qualche modo indotto dalla natura stessa del soggetto, che già dai tardi anni Cinquanta arriva a porsi come l’instancabile dandy dedito a provocare, con le sue attenzioni plurime, lo stantio, endogeno panorama neorealista delle nostre lettere.
A volte si ha l’impressione che una certa vivacità di scrittura abbia eccessivamente contagiato gli estensori delle voci, e che un certo timbro à la Arbasino aleggi sull’intero volume; poi però si giunge alla splendida nota Screening di Anna Ottani Cavina e lo spazio si apre improvvisamente alla testimonianza diretta, dunque alla memoria. La memoria: quel vettore, cioè, che di fatto è assente dal diorama arbasiniano, nella fattispecie della rievocazione di un passato remoto, di un’infanzia o di una gioventù. Arbasino stesso interviene in più punti del libro a far sentire la propria opinione su questo aspetto, opportunamente escluso dal lemmario: «Tutto quello che viene prima dei miei venticinque anni non mi interessa.
Non sono mai stato un ragazzo», dichiara lo scrittore in una citazione ripresa dal curatore nella voce Elefante. Curioso, per un autore che ha tra i suoi modelli evidenti lo stesso Proust: ma come ci illumina Silvia De Laude (Guermantes), quello di Arbasino non è certo il proustismo «di maniera», italico e sentimentale, votato a patetiche rievocazioni. Piuttosto è quello di una devozione al modello «per la qualità della scrittura, la natura di testo-Enciclopedia» e soprattutto «per una specie di adesione consanguinea» a materiali narrativi che non risultano certo estranei agli atteggiamenti e alla biografia dello stesso Arbasino.
Torniamo a Screening. Dell’autore, scrive la storica dell’arte, «seduceva la leggerezza, la mancanza d’impronta accademica, quel modo inusuale ed eccentrico di fissare dei punti senza disegnare un perimetro, senza definire un’impalcatura teorica». In una parola, seduceva di Arbasino la grande libertà di sguardo, sempre atteggiata secondo una visuale anticonformistica e densa, insieme, di autonomia di giudizio e di profondità analitica, sotto la superficie mondana. Con ogni probabilità, anzi, proprio l’aver esarcebato fino al paradosso il birignao di un intero milieu intellettuale ha finito per rendere la patina cronachistica e lo smalto di lucentezza sociale un potente brainframe, attraverso cui gestire il racconto critico di un mondo pericolosamente esteso tra gli anni Cinquanta e i primi decenni del nuovo millennio. Dunque ha ragione Ottani Cavina a rincarare la dose, quando afferma che «Colpiva la pervasività delle immagini, che nella scrittura di Arbasino sono il filtro attraverso cui tutto transita e si comprende».
Insomma, a essere attraversate sono antropologie diverse, modelli in continua trasformazione sotto la pressione della tecnica e dell’economia. Sensibile, come sempre, anche a questo dato, Arbasino sottopone la sua scrittura a un incessante lavorìo di upgrading, o come spiega Raffaele Manica nell’indispensabile voce Up to date, di aggiornamento che risponde a «un vero e proprio atteggiamento mentale». Assoggettato a questo mai sconfessato proposito di revisione, lo stile non è più semplicemente una questione di lessico, di tono e di registro espressivi, ma viene vissuto «come concetto, come pensiero e come atteggiamento nel guardare e nello storicizzare le cose». Coerentemente la voce dedicata allo Stile, redatta da Luigi Matt, ci offre tale «atteggiamento» nella duplice accezione di piglio personale e di stile letterario, quest’ultimo declinato all’insegna del citazionismo e della mimesi del «sound del linguaggio parlato». Per un interprete d’eccezione come Italo Calvino, questo porterebbe a una sorta di «monologo esteriore», che estenua il lettore per la fluvialità, prendendo vita in un infinito e inestricabile accumulo di dati, dietro (sotto) i quali riesce arduo riconoscere la sinopia di una qualsivoglia progettualità.
L’accumulazione è per Arbasino una risorsa mimetica inesauribile, ma non alla stregua degli elenchi fenomenici di autori come Borges o dello stesso Calvino; è piuttosto la strategia di una funzione, come avrebbe detto Foucault, ovvero di «una possibilità indefinita del discorso», potenzialmente aperta come la forma del pensiero che la evoca. A spiegarla ulteriormente, ci vengono incontro voci come Congegno e Congerie, stese da Cortellessa, e ancor più Only connect di Giuseppe Carrara, espressione che risponde a un vero e proprio blasone forsteriano (altro modello esemplare per Arbasino). Quello dell’only-connect è un metodo critico riconosciuto in uno scritto su Roland Barthes, contenuto già in Sessanta posizioni: qui lo scrittore individua un fulcro significativo , poiché ciò che si presenta come «critica di connessioni» trasmessa a una «critica di significato» e infine a una «critica meta-linguaggio», «col compito non di fare (volgarmente) ‘delle scoperte’ ma di verificare se un organismo ‘funziona’ (o no)», si offre come base per la creazione di un metodo poietico, proprio sul piano compositivo. «Only connect» scrive Carrara «significa dunque, in prima istanza, una tecnica (da inserire e contestualizzare all’interno delle ricerche di riforma del romanzo di area neoavanguardista): un tentativo di connettere insieme frammenti diversi per creare un tutto, una totalità in cui nell’eterogeneità totale dei materiali “tout se tient». Una perfetta fotografia del disordinato, suadente sistema arbasiniano.
In questa enciclopedia, che rispecchia molti dei variegati aspetti del cosmo biografico ed espressivo dell’autore, non potevano mancare voci apparentemente più a latere; ma in realtà non è possibile distinguere un centro e una periferia nell’eclettico diorama di Arbasino e soprattutto nel modo in cui ha scelto di consegnarlo ai suoi lettori. A partire dal particolare orientalismo che si è manifestato in viaggi e opere quali Mekong e Passeggiando tra i draghi addormentati – dove sembra ripercorrere alcune delle tracce che già Calvino aveva lasciato tra Oriente e Mesoamerica in Collezione di sabbia –, fino a quanto raccolto in voci come Haute couture, in cui Tommaso Mozzati ci riconsegna un curioso ritratto di Irene Brin, o ancora in Match di Chiara Portesine, che ricostruisce l’avventura televisiva di Arbasino, e di nuovo fino a quelle più direttamente connesse alla personalità dello scrittore, come Baffi, Narciso, Ossigenarsi, questo AZ disegna un autentico mosaico, o caleidoscopio, in cui lo scrittore, sornionamente divertito, torna ad affacciarsi sulla vasta platea, ora Camp, ora Kitsch ora Pop del suo mondo e su quello di noi lettori.