Radio: nudi al microfono
Troneggia la radio al centro dell’«inutile salotto», come titolava un libro di Mariuccia Salvati dedicato alla trasformazione della casa piccolo borghese tra le due guerre. Nelle foto d’epoca l’intera famiglia si riunisce attorno a questo magnifico apparecchio: i bambini si portano dietro giocattoli e pupazzetti, la nonna è intenta a fare la maglia, il babbo o la mamma sfoglia il «Radiocorriere». L’indice puntato del più piccolo fa intendere che da quella scatola, in modo un po’ magico, stanno uscendo voci, musica, rumori. Cento anni dopo, cambiando immagine, ci troviamo ancora in casa: tra i libri del salotto è custodita un’antica radio a galena, come oggetto d’antiquariato; in cucina, sul frigo, se ne ritrova un’altra, dal design accattivante. Nello studio, sul tavolo, la radio è costruita con il lego, non parla, ma fa compagnia. In bagno, sul pomello del mobiletto, è appesa una vecchia radio anni Settanta, di quelle che si tenevano attaccate all’orecchio per sentire la radiocronaca di Sandro Ciotti. E infine in camera la radio è invisibile, perché contenuta nell’immateriale app del telefonino, ottimo sedativo per scivolare nel sonno. Così comincia Le mie cose preferite di Susanna Tartaro (Marsilio, 2024), nota autrice e conduttrice di Fahrenheit, il programma di Rai Radio 3 dedicato ai libri e alle idee. Ogni stanza ha la sua radio, una radio sempre di epoca diversa, come ad abbracciarne il centenario. Perché il 2024 è ricorso il centenario della radio ed è stato un anno molto radiofonico: sono usciti studi approfonditi, raccolte di testi di antiche trasmissioni, volumi celebrativi. E poi mostre, convegni, podcast… La radio ha fatto capolino anche in luoghi inaspettati, non solo nelle sedi istituzionali della Rai, perché alla radio si vuole bene, come a un’amica. Questo aspetto affettivo e sentimentale emerge anche nel libro di Tartaro che non è un saggio e neppure un diario, ma flirta con entrambi i generi. Lo spunto iniziale è tutto autobiografico e parla di un brutto incidente, un investimento in motorino, centrata da un Suv che passa col rosso. Degenza, convalescenza, riabilitazione sono descritti tramite brevi episodi e inframezzati da ricordi e pensieri radiofonici. Questa associazione, radio e malattia, radio e immobilità, ci porta indietro nel tempo, a un aspetto spesso sottovalutato: la funzione di conforto che può avere la radio. In Italia alla fine degli anni Trenta Silvio Gigli dava vita a Radio Igea, un programma pensato per i malati, gli invalidi e coloro che per motivi di salute erano costretti a letto. Nel dopoguerra si trasformerà in Sorella Radio, programma pomeridiano, in onda dal 1951 al 1977, dagli ospedali, dalle case di cura e poi anche dalle carceri e dai santuari. Musica, scenette divertenti, meditazioni religiose, interviste sono gli ingredienti pensati per far compagnia e dare sollievo. A Londra, pochi anni dopo l’inizio delle trasmissioni della BBC, il grande giornale «Daily News» promuoveva una sottoscrizione su larga scala per attrezzare i 25.000 letti di ospedale con singoli ricevitori.

Nel libro di Tartaro non si rintracciano precedenti di questo tipo, ma se ne trovano altri, personali, che rimandano a esperienze di vita vissuta. L’autobiografia è il lago da cui pescare, gli haiku e la poesia sono gli orizzonti a cui guardare. Perciò il volume procede per sintetici capitoletti, a volte di una sola pagina, dove si parla molto di poesia e di poeti, ma la radio spunta quasi sempre, come compagna di vita, attività lavorativa o passione intensa… In un’espressione: My favorite things, per dirla con il titolo della canzone composta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein II per il musical The sound of Music, e scelta, nelle sue innumerevoli versioni, come sigla di Fahrenheit.

La radio è anche un tornare indietro all’epoca analogica quando i tecnici tagliavano i nastri e poi si dannavano a incollare i pezzi rimanenti, facendo attenzione che il montaggio filasse in modo naturale. Così dal cestino veniva recuperato qualche sospiro precedentemente scartato e inserito dopo “un perché?”, in modo da rendere fluida l’intonazione. Un lavoro certosino di taglia e cuci, impensabile oggi con le moderne tecnologie digitali, e invece ancora comune alla fine degli anni Ottanta, quando il tecnico, indossando un camice bianco da laboratorio scientifico, procedeva all’operazione di montaggio, tra l’artigianato e il magico. I ricordi di radio si intrecciano alle pratiche contemporanee, a sintetiche riflessioni su «una professione mercuriale», quella del conduttore, che entra in uno studio, si siede indossando le cuffie e si tuffa nell’etere diventando voce ed entrando nelle case, nelle auto, nei negozi come puro suono. Il bravo conduttore, soprattutto all’inizio, è bene che si riascolti, con calma e concentrazione, per capire gli errori, le ripetizioni, i tic, gli inciampi. Consiglio fondamentale, ma che la stessa Tartaro dice di seguire e non seguire, perché la prima sensazione del ri-ascoltarsi è sempre un senso di straniamento. La nostra voce, rispetto a come noi la sentiamo quando parliamo, è diversa da come esce dalle casse di una radio. È una questione fisiologica, percettiva, a cui sembra impossibile abituarsi, un piccolo mistero che rimane irrisolvibile.

In radio si va al punto, alla verità «e chi parla al microfono è nudo, metaforicamente ve lo assicuro, ma nudo». Partendo da questa considerazione Tartaro ricorda la ricerca che aveva fatto qualche anno prima (poi confluita in Ascoltatori. Le vite di chi ama la radio, Add, 2019) di rintracciare gli ascoltatori più fedeli di Rai Radio 3, andandoli a trovare a casa, non più sola voce, ma in carne e ossa, con la scoperta di compiere «una rimpatriata, fra sconosciuti, ma che si riconoscono». La radio trasmette a distanza, ma proprio quella distanza vuole vincere, creando prossimità.
