Francesco, il papa della speranza
Pare che si chiamasse Massimo, ma è un’informazione labile, indiziaria. L’unico dato sicuro rimane la fotografia che lo ritrae inginocchiato sotto la pioggia davanti alla basilica di San Pietro, nei giorni che nel marzo del 2013 precedettero l’elezione di papa Francesco. Il pellegrino – così fu subito definito – era scalzo, indossava il saio, aveva con sé solamente una bisaccia e un bastone, al quale si appoggiava durante la preghiera. Giovane non era, ma la barba lunga e i capelli incolti rendevano difficile attribuirgli un’età precisa. Figure come la sua si incontrano abbastanza spesso a Roma, a Santiago di Compostela, a Lourdes, in tanti altri santuari e luoghi di devozione. Sono creature innocue e bizzarre, che si muovono lungo il confine sottile tra il misticismo e l’autosuggestione e che tuttavia, per un qualche motivo recondito, non mancano mai di suscitare dubbi: e se avessero ragione loro?, ci si domanda. Se davvero fosse arrivato il tempo della penitenza e della spogliazione? Se questi pellegrini arrivati da chissà dove fossero in realtà i profeti del mondo a venire?
Degli altri non si può sapere, ma Massimo, o chiunque fosse, alla profezia andò molto vicino, e non soltanto perché a posteriori il suo aspetto poteva far presagire che il nuovo papa avrebbe scelto per sé – primo nella storia – il nome del Poverello di Assisi. Presentandosi in veste di viandante medievale, il pellegrino di piazza San Pietro rendeva testimonianza dei due elementi contrastanti dai quali la vita della Chiesa era caratterizzata dopo la rinuncia di Benedetto XVI all’esercizio del ministero petrino: la tempesta e la speranza.
La tempesta era iniziata all’indomani della celebrazione del Giubileo dell’anno 2000. Lo scandalo degli abusi sessuali commessi da sacerdoti cattolici era partito dagli Stati Uniti e da lì era dilagato un po’ ovunque, dall’Australia fino alla Germania. Teologo sopraffino, papa Ratzinger era consapevole della drammaticità di una situazione peraltro da lui denunciata, ma anche del fatto che, ingravescente aetate (aveva, all’epoca, 85 anni), non avrebbe avuto le energie per far fronte a questa e alle altre emergenze che interessavano la Chiesa. Molto si è scritto sulla portata di quel gesto, al quale lo psicologo Giancarlo Ricci aveva subito dedicato un saggio, L’atto la storia, che personalmente considero il più illuminante tra i contributi sul tema. Rimettendo il mandato di pontefice, Benedetto XVI non scendeva dalla croce, come ingiustamente gli veniva rimproverato, ma affidava alla provvidenza i destini del popolo santo di Dio. Per utilizzare il linguaggio del suo successore (e Il successore si intitola il libro-intervista in cui Francesco ha ricostruito il proprio rapporto con papa Ratzinger), mediante la rinuncia Benedetto XVI sceglieva di avviare processi, anziché occupare spazi.
Questa formula, insieme con altre immagini eloquenti del pontificato di Francesco a proposito della «Chiesa in uscita», conduce nella seconda dimensione alla quale alludevo e cioè la dimensione della speranza. Non si può non restare colpiti dal fatto che la morte di Bergoglio sia avvenuta nel corso di un Giubileo posto sotto il segno della speranza. Non si può restare colpiti, aggiungo, dal fatto che sia avvenuta nel Lunedì dell’Angelo, il giorno che celebra la necessità e lo scandalo della speranza più incredibile: la risurrezione della carne, il trionfo del corpo di gloria, la vita eterna come evento concreto e non come tensione immateriale (su questo, e su molto altro, ha passaggi illuminanti il recentissimo reportage letterario di Javier Cercas, Il folle di Dio alla fine del mondo).

Fin dai primissimi giorni del pontificato, contraddistinti dalla condivisione del sogno di «una Chiesa povera e per i poveri», Francesco aveva alimentato l’aspettativa di un cambiamento che oggi, a dodici anni di distanza, possiamo considerare realizzato solo in parte. Ma l’obiettivo del Papa non è mai stato quello di ottenere risultati immediati. Era stato lui stesso a ricordare che ci vuole mezzo secolo perché le delibere di un Concilio ecumenico trovino attuazione. A conti fatti, era l’intervallo che separava la sua elezione (13 marzo 2013) dalla chiusura dei lavori del Vaticano II (8 dicembre 1965), al cui spirito, e anche alla lettera, il suo magistero si è sempre ispirato. Da questo punto di vista, è sufficiente richiamare l’assonanza che unisce fra loro uno dei documenti fondamentali del Concilio, la costituzione pastorale Gaudium et spes (1965), e l’esortazione apostolica Evangelii gaudium (2013), che del pontificato di Bergoglio è a buon diritto considerata il programma ispiratore. In entrambi i titoli ricorre la parola gaudium, “gioia”, e almeno implicito è il rimando alla speranza, spes.
La “nota teologica” degli insegnamenti di Francesco è stata spesso oggetto di discussione. Con i documenti ufficiali, grande rilevanza è stata assegnata a interventi di natura più informale, dalle numerose interviste anche televisive e alle raccolte di conversazioni (attivissimo, su questo fronte, il confratello gesuita padre Antonio Spadaro, al quale si deve la redazione di un testo largamente chiarificatore quale La mia porta è sempre aperta) fino al racconto autobiografico consegnato prima alle pagine di Life. La mia storia nella Storia e poi a quelle di Spera. Questa esuberanza mediatica è stata un tratto caratteristico di Bergoglio e, non a caso, si è espressa in maniera particolarmente felice nel dialogo con i giovani e nel ricorso al peculiare castigliano di Buenos Aires, il porteño, dal quale deriva per esempio l’espressione idiomatica primerear, adoperata dal papa per alludere alla sollecitudine originaria di Dio nei confronti dell’essere umano. L’appello a hacer ruido (“fare chiasso”) e l’intenzionale ripetizione di quel todos, todos, todos con cui, durante la Giornata mondiale della gioventù svoltasi a Lisbona nel 2023, aveva voluto ribadire la portata universale della vocazione alla salvezza sono soltanto gli episodi più commentati di una strategia comunicativa molto più meditata di quanto si sia voluto credere.
Prendendo il nome semplicissimo di Francesco, il gesuita Jorge Mario Bergoglio non aveva infatti rinunciato alla complessità della tradizione ignaziana. Al contrario, era riuscito a proporre una sintesi convincente e per certi aspetti irripetibile, della quale ho cercato di dare conto in un mio piccolo libro. In quella sede mi sono sforzato, tra l’altro, di dimostrare come una delle locuzioni tipiche del papa, con la Chiesa assimilata a «un ospedale da campo», traesse origine puntuale da una meditazione degli Esercizi spirituali, per la precisione quella sulle «due bandiere» (136 ss.), nella quale il fondatore della Compagnia di Gesù descrive il dilemma interiore nei termini di una campagna militare.
Ricondurre il pontificato di Bergoglio alla sua matrice spirituale può sembrare un’operazione controintuitiva o addirittura riduttiva rispetto alle interpretazioni correnti, metodicamente incentrate sul profilo sociale e politico, se non anche rivoluzionario, del magistero di Francesco (un meme piuttosto diffuso lo raffigurava con le fattezze di un redivivo Che Guevara). Ora, è indubbio che le encicliche Laudato si’ nel 2015 e Fratelli tutti nel 2020 abbiano goduto di vasta risonanza per il modo in cui affrontavano rispettivamente l’emergenza climatico-ambientale e la necessità di un nuovo equilibrio internazionale improntato a criteri di collaborazione e rispetto. Allo stesso modo, l’iniziativa di The Economy of Francescoha dato un impulso decisivo per il ripensamento delle logiche economiche e finanziare, mentre la proposta di Global Compact on Education ha richiamato con forza all’urgenza di investire sull’istruzione come strumento di democrazia e progresso.

Sarebbe scorretto, però, minimizzare il significato delle altre due encicliche di Francesco, la prima delle quali, Lumen fidei del 2013, era basata sui materiali preparatori allestiti da Benedetto XVI. L’altra, datata all’ottobre del 2024, è Dilexit nos ed è forse la più compiuta dichiarazione teologico-dottrinale dell’intero pontificato. Concentrandosi sull’«amore umano e divino del cuore di Gesù Cristo», Francesco faceva sì appello a una consolidata tradizione di pietà popolare, relativa appunto alle devozione per il Sacro Cuore, ma contemporaneamente la riportava alla logica complessiva dell’Incarnazione e, per estensione, dell’antropologia cristiana: «Il nucleo di ogni essere umano, il suo centro più intimo – si legge al n. 21 –, non è il nucleo dell’anima ma dell’intera persona nella sua identità unica, che è di anima e corpo. Tutto è unificato nel cuore, che può essere la sede dell’amore con tutte le sue componenti spirituali, psichiche e anche fisiche. In definitiva, se in esso regna l’amore, la persona raggiunge la propria identità in modo pieno e luminoso, perché ogni essere umano è stato creato anzitutto per l’amore, è fatto nelle sue fibre più profonde per amare ed essere amato».
Com’è noto, le questioni attenenti alla morale sessuale – tra cui spiccano l’ammissione delle persone divorziate e risposate alla pratica dell’Eucaristia, il celibato dei sacerdoti e l’ingresso di candidati omosessuali nei seminari – hanno occupato ampio spazio nel dibattito pubblico. Dal Sinodo per l’Amazzonia del 2019 e dal Sinodo sulla sinodalità del quadriennio 2021-2024 si attendevano decisioni e innovazioni che invece non si sono avute. Nondimeno, sono emerse con evidenza indicazioni di indirizzo che assumono valore pressoché vincolante nella prospettiva dell’«avviare processi». A qualcuno potrebbe parere non sufficiente, ma per un giudizio più circostanziato è bene riprendere le due categorie evocate all’inizio. Francesco, papa della speranza, ha guidato la Chiesa nella tempesta del «cambiamento d’epoca», fronteggiando sfide impensabili, comprese quelle costituite dal riesplodere di conflitti latenti e dal dramma delle migrazioni, con la conseguente denuncia della «globalizzazione dell’indifferenza» e della «cultura dello scarto» come cause principali di ogni sopraffazione e diseguaglianza.
«La prima verità della Chiesa è l’amore di Cristo – scriveva nel 2015 Francesco nella bolla di indizione del Giubileo della misericordia – . Di questo amore, che giunge fino al perdono e al dono di sé, la Chiesa si fa serva e mediatrice presso gli uomini. Pertanto, dove la Chiesa è presente, là deve essere evidente la misericordia del Padre». Cultore appassionato dei Promessi sposi e amico di Jorge Luis Borges, il primo papa originario delle Americhe è stato un narratore formidabile, capace di affascinare con le sue parole e con i suoi gesti un mondo ormai disabituato alla grandiosità dell’epopea. Anche quando parlava di letteratura, come nella lettera divulgata nell’estate del 2024, Francesco non rinunciava a insistere sul legame sorgivo tra amare e sapere, tra cultura e politica, tra umanità e fede. «Il lettore – sottolineava – non è il destinatario di un messaggio edificante, ma è una persona che viene attivamente sollecitata ad inoltrarsi su un terreno poco stabile dove i confini tra salvezza e perdizione non sono a priori definiti e separati. L’atto della lettura è, allora, come un atto di “discernimento”, grazie al quale il lettore è implicato in prima persona come “soggetto” di lettura e, nello stesso tempo, come “oggetto” di ciò che legge». Inutile aggiungere che “discernimento” è parola ignaziana per eccellenza. E che Francesco d’Assisi è stato un grande poeta.
Leggi anche:
Oliviero Ponte di Pino | Papa Francesco, Maggiani e i lavoratori della cultura
Michela Dall'Aglio | Da homo sapiens a homo frater
Francesco Bellusci | Ingozzati di connessioni, vuoti di fraternità
Marco Belpoliti | Nagasaki, Papa Francesco, Yamahata
Gianfranco Marrone | Il racconto di Papa Francesco
Michela Dall'Aglio | Papa Francesco a la biblioteca di Esther
