Giovanni, il discepolo prediletto
D’Artagnan o il quarto escluso è un saggio che gode di illimitato prestigio presso una cerchia molto ristretta di estimatori. Apparso in Germania nel 1991, in Italia arrivò nel 1998, nella bella edizione curata da Daniela Falcioni per Feltrinelli. L’autore era Reinhard Brandt, un filosofo tedesco dotato di un invidiabile talento per la visione d’insieme. In quelle pagine Brandt prendeva in esame un «principio d’ordine» ricorrente nella cultura europea, sempre propensa ad argomentare sulla base del numero tre e fatalmente attratta dal bilanciamento offerto dal numero quattro. L’esempio più clamoroso è proprio quello di D’Artagnan, protagonista di un romanzo che si intitola I tre moschettieri senza che lui sia, per l’appunto, compreso nel conteggio. Lo schema 1,2,3 / 4 ricorre nei contesti più disparati, dalla Repubblica di Platone fino alla dottrina medica degli umori (qui il sangue è il «quarto escluso» rispetto a flemma, bile gialla, bile nera), e non manca di implicazioni teologiche. In particolare, Brandt si sofferma sulla funzione della quarta ipostasi – spesso di natura femminile – che in diverse tradizioni cristiane si pone in relazione con la Trinità composta da Padre, Figlio e Spirito Santo.
Curiosamente, però, Brandt non prende in esame il ruolo che il Vangelo di Giovanni ricopre all’interno del canone neotestamentario. Magari lo ha fatto in qualche intervento successivo che io colpevolmente ignoro (nato nel 1937, il pensatore è ancora in attività) e che invece è ben noto a Giulio Busi, l’ebraista italiano che dal 1999 è professore ordinario alla Freie Universität di Berlino. Tra i massimi esperti delle correnti mistiche e cabalistiche, anche e specialmente nelle loro implicazioni con arte e filosofia dell’età umanistica e rinascimentale, negli ultimi anni Busi ha intrapreso un singolare percorso di autobiografia saggistica. Si potrebbe chiamarla la compagnia degli «amici difficili», definizione che nel 2023 veniva riservata a Gesù, il re ribelle e che adesso si estende a Giovanni. Il discepolo che Gesù amava, edito come il precedente da Mondadori (pagine 142, euro 20). Non che in questi libri Busi dica o racconti di sé, se non lasciando affiorare il punto di vista specifico di un intellettuale che, cresciuto nel cattolicesimo, ha avvertito molto presto la necessità di confrontarsi con l’ebraismo. Per motivi di ricerca, certo, ma anche in risposta a un’inquietudine spirituale che non manca di lasciare traccia nel volume su Giovanni. Con tutta la delicatezza del caso, mi azzarderei a dire che Busi ci offre la testimonianza di un aspirante credente, qualifica da intendersi in senso niente affatto limitativo, considerato che in materia di fede ciascuno di noi rimane sempre, per l’intera esistenza, l’«estremo principiante» cantato dal novantenne Mario Luzi nel suo memorabile congedo poetico datato 2004.
Per Busi quella di Giovanni è, in continuità con quella di Gesù, «una storia ebraica», e cioè una vicenda che diventa tanto più comprensibile quanto più viene ricondotta al contesto d’origine. Nella fattispecie, l’elemento da appurare in via prioritaria riguarda l’identità dell’autore del quarto Vangelo, l’ultimo a essere redatto e il solo che si discosti dalla fonte comune alla quale attingono i Sinottici. Il fatto che Giovanni presenti una disposizione degli avvenimenti sensibilmente diversa rispetto a quella riportata in Marco, Matteo e Luca ha alimentato nei secoli il pregiudizio di un Vangelo fortemente o addirittura esclusivamente connotato in termini teologici e simbolici (su questa premessa si basa, tra l’altro, la lettura iniziatica di Giovanni tentata dal fondatore dell’antroposofia, Rudolf Steiner). Se questa caratteristica fosse vera, sarebbe abbastanza facile giustificare la condizione di «quarto escluso» toccata al Vangelo di Giovanni. Che però, nella storia del canone neotestamentario, è piuttosto un «quarto incluso»: una voce senza dubbio divergente, ma che integra le altre e non le contraddice. In fondo, è una conferma del principio ermeneutico fissato in forma indelebile da quel verso del Salterio che recita «Una parola ha detto Dio, due ne ho udite» (Sal 62,12). Nel confronto con la Scrittura, l’interpretazione non può essere se non infinita, non perché la Scrittura non annunci la verità, ma perché la verità annunciata dalla Scrittura è inesauribile.
Chi è il Giovanni del Vangelo e delle tre lettere “cattoliche” (destinate all’universalità dei cristiani, non a una singola comunità) che vanno sotto lo stesso nome? Secondo Busi, più che al Giovanni figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo, occorre guardare a un’altra figura, quella di Giovanni l’Anziano, o il Presbitero, la cui presenza è attestata a Efeso nella seconda metà del I secolo. Alla prova del testo, infatti, risulta improbabile che lo stesso apostolo additato negli Atti viene come «persona semplice e senza istruzione» (At 4,13) abbia potuto dettare il maestoso prologo in cui si postula il primato del Logos. Tutti gli indizi – meticolosamente raccolti e commentati da Busi sulla scorta di una consolidata letteratura scientifica – portano in un’altra direzione, la stessa indicata attorno al 190 proprio dal vescovo di Efeso, Policrate, laddove rievoca la morte di «Giovanni, che si reclinò sul petto del Signore, il quale fu sacerdote, ha portato la lamina e fu testimone e maestro». Dal mare di Galilea, la scena si trasferisce dunque nel Tempio di Gerusalemme, che Giovanni l’Anziano frequenta per stirpe e per educazione, e con un rango così alto da avergli consentito di indossare almeno una volta la lamina del sommo sacerdote (una sorta di supplenza, osserva Busi, determinata da una temporanea impurità del sommo sacerdote stesso).
Collocati in questa prospettiva, i dettagli di cui il quarto Vangelo è fonte esclusiva si ricompongono in modo illuminante e coerente. Giovanni l’Anziano è veramente «il discepolo che Gesù amava» secondo la peculiare espressione che ritroviamo sulla copertina del libro, e il fatto di non rientrare nel gruppo dei Dodici non costituisce affatto un ostacolo alla più ampia condizione di mathetés (un utile riepilogo sulla graduazione discepoli-Dodici-apostoli si trova in Contro il clericalismo, ritorno al Vangelo di Yves-Marie Blanchard, uscito di recente da Qiqajon). L’Anziano è, con ogni probabilità, il proprietario della “camera alta” in cui si svolge la Cena pasquale, come trapela dalla posizione che il discepolo benamato occupa durante il banchetto: avendo ceduto il posto d’onore a Gesù, il padrone di casa siede sul giaciglio alla sua destra, in ossequio alla consuetudine ebraica, e per questo il suo capo sporge verso il Maestro. Ancora, l’Anziano è il discepolo «conosciuto dal sommo sacerdote» (Gv 18,15) al quale si accoda Pietro quando Gesù, dopo l’arresto, viene condotto al Tempio. Nel quarto Vangelo il dibattimento processuale è descritto con una meticolosità assente nei Sinottici, ulteriore indizio di una conoscenza di prima mano, i cui esiti sono particolarmente apprezzabili nello scambio di battute con Pilato.
L’insistenza sull’affidabilità documentale del racconto di Giovanni non comporta, però, una sottovalutazione della consistenza teologica del quarto Vangelo. Al contrario, la sedimentata sapienza del giovane sacerdote di Gerusalemme, che ritroviamo vegliardo a Efeso, apre squarci inattesi, come quello sull’attività di battezzatore intrapresa da Gesù contemporaneamente, e forse in alternativa, al cugino Giovanni, figlio di Zaccaria e di Elisabetta (Gv 1,4). Solitamente percepito come il Vangelo della luce, nell’esposizione che ne suggerisce Busi questo è piuttosto il Vangelo dell’acqua: battesimale nel Giordano, trasformata in vino alle nozze di Cana, attinta al pozzo di Giacobbe dalla Samaritana, mescolata al sangue nella ferita inferta al crocifisso. Nel contempo, la storicità del resoconto di Giovanni suscita un’altra serie di interrogativi. Il quarto Vangelo, com’è risaputo, è il solo a narrare della risurrezione di Lazzaro (Gv 11,1-44), un “segno” che molti esegeti hanno preferito e preferiscono ritenere allusivo fino all’allegoria. Non meno impegnativo, per quanto concerne la riflessione di Busi, è l’episodio della cacciata dei mercanti dal Tempio, del quale il quarto Vangelo rende conto (Gv 2,13-25) al pari dei Sinottici. Se in Gesù, il re ribelle la severità dimostrata in questa occasione dal Maestro era giudicata incompatibile con la sua consueta mitezza, in Giovanni la valutazione si fa più sfumata e complessa, con l’accento che viene a cadere sulla profezia della Passione e Risurrezione.
Abitato dalla presenza del femminile (il noli me tangere rivolto a Maria di Màgdala si legge solamente in Gv 20,17), il quarto Vangelo rivela a più riprese la contiguità dell’autore con la mentalità e le consuetudini dei sacerdoti di Israele. Nondimeno, lascia intendere lo sviluppo progressivo di una visione teologica che si sedimenta nel tempo, culminando nella solenne tessitura del prologo in cui, come finemente sintetizza Busi, la saggezza rabbinica si fonde con la sapienza pagana: «Da una parte il Logos, il più greco dei concetti, che in sé racchiude l’ordine della ragione, la forza del discorso, la progressione del numero e delle leggi di natura. Dall’altra, l’ebraismo di Giovanni, così profondo e onnipresente. La Legge è stata data attraverso Mosè. Una Legge che rimane valida, divina, indiscussa, e che Gesù incarna in se stesso. La Legge è diventata corpo, e il corpo, Legge» (p. 64). È il punto di massima vicinanza, e quindi di massimo attrito, fra il Primo e il Secondo Testamento. Ed è, per questo, lo spazio in cui ci si fa incontro la difficile amicizia di cui sono portatori Gesù di Nazareth e l’Anziano di Efeso. Ci sarebbe anche un terzo escluso (terzo, per una volta, e non quarto), ossia l’altro Giovanni, il veggente di Patmos, al quale si deve il grandioso affresco dell’Apocalisse. Sarà un’impressione, ma non sarebbe strano se anche su questo argomento Busi avesse da dire qualcosa di importante.
In copertina, Saint John the Evangelist on Patmos circle of Carlo Maratta, c. 1680 - c. 1720.