Abracadabra. Amore e magia in scena
Se non fosse stato per Lady Gaga e per quel martellante ritornello del suo più recente singolo, la parola abracadabra sarebbe ormai l’appannaggio esclusivo di un qualche gioco d’infanzia, oppure di un lipogramma enigmistico, di una sciarada sulla quale concentrarsi a lungo. Forse è ancora più raro sentirla ripetere su un palco, ora che l’urgenza della politica, l’emergenza di drammi pubblici e collettivi, hanno relegato sempre più ai margini della scena i sortilegi e le illusioni. Eppure risalire alla sua origine, percorrerne l’incerto itinerario etimologico, svela quanto di questo vocabolo abbia a che fare con una performatività squisitamente teatrale: secondo alcuni, l’aramaico avrah ka dabra significherebbe “io creerò con la parola”, trasformerò la mia voce in fatto concreto, riuscirò a modificare la realtà affidandomi soltanto a una manciata di lettere pronunciate in un soffio. Basta un abracadabra, sosterrebbe forse John Austin, per fare cose con le parole. Sarà anche per questa ragione che nel dicembre 2022, alla cerimonia di consegna dei Premi Ubu, Riccardo Fazi e Claudia Sorace di Muta Imago rispondono all’invito del comitato organizzativo scegliendo “abracadabra” come parola per il futuro: forse c’era già bisogno di un amuleto verbale, di un talismano da recitare, per affrontare il tempo a venire. Oggi sono Enrico Castellani e Valeria Raimondi a ricorrere all’incantesimo: quei Babilonia Teatri che intorno al potere del linguaggio — soprattutto se declinato nella forma dell’invettiva — hanno costruito il proprio prestigioso percorso, e che proprio insieme ai Muta Imago, a Sotterraneo e Santasangre sono ricordati come gli artefici di un imprescindibile rinnovamento dell’arte teatrale agli inizi del nuovo millennio. Una mera coincidenza, un caso fortuito: eppure si vorrebbe vedere in questa consonanza un ulteriore legame di senso tra le estetiche di quei gruppi e la temperie di un’epoca e di un teatro, sempre volto a eccedere la realtà più che a restituirla, a mostrarne il surreale e l’invisibile più che il noto e il conoscibile. Ecco che le parole del teatro dei Babilonia — parole politiche e politicizzate, mitragliate in faccia agli spettatori come strali; elementi di un incedere testuale rabbioso e aggressivo, di drammaturgie che si sovrappongono e confondono con il manifesto — riscoprono adesso una funzione straordinariamente lirica, connotativa più che denotativa, rituale come una preghiera e perciò magica. Che sia proprio la morte questa realtà da fronteggiare, finanche correggere, grazie alla parola (o al teatro?), costituisce tuttavia per i Babilonia un ritorno a un nucleo identitario: da David è morto a The End, la rimozione della fine nella società contemporanea, la censura alla quale sono sottoposte la morte e le operazioni a essa connesse, hanno rappresentato a lungo per il gruppo un fulcro intorno al quale costruire coraggiosi dispositivi scenici.

Al suo debutto in prima nazionale al Metastasio di Prato, Abracadabra è altresì un ulteriore impegno produttivo dello stabile toscano dedicato all’esperienza della morte, in una costellazione di itinerari volti a tracciare una geografia di significati e orizzonti: il progetto Da vivi, ideato da Elisa Sirianni e sviluppato insieme a Mario Biagini e all’Accademia dell’Incompiuto, ha animato la stagione 2023/2024 con conferenze, laboratori e assemblee, incontri e dialoghi, che della finitezza umana hanno raccontato i risvolti filosofici ed estetici, politici ed etici. Ma anche le creazioni di Rimini Protokoll, di Alessandro Benvenuti, dei canadesi The Old Trout Puppet, tutte presentate sui palcoscenici pratesi, hanno raccontato il limite e i suoi tabù, in equilibrio tra recupero della memoria e ironica dissacrazione. E la risultante di questa sommatoria di estetiche e approcci divergenti sembra testimoniare un diffuso, plurale bisogno di confronto e condivisione, come se le consuetudini dell’addio fossero ormai diventate stanche, e le parole che associamo al lutto insufficienti e vane, inani brandelli di un discorso che non sappiamo più dire. Francesco Scimemi, prestigiatore e illusionista di fama, di parole inutili ne ha sentite fin troppe: sono quelle legate agli studi di Elizabeth Kübler Ross e al suo modello di elaborazione del lutto; sono le liriche e romantiche proposte di Massimo Recalcati su come immaginare la persistenza dei propri cari una volta scomparsi; sono “parole che le orecchie non possono più ascoltare”, ora che la sua compagna — “l’altra metà della mela” — non c’è più. Per Scimemi, la morte, questa morte, è l’unico trucco sul quale la sua magia non ha alcun potere. Ci accoglie in sala insieme a Castellani e Raimondi: i tre si muovono fra le poltrone, salutano gli spettatori, e consegnano a ognuno quattro carte da gioco, un florilegio di combinazioni di picche e cuori e fanti e regine, un’antologia di ipotesi di una partita o di un destino. Nei suoi passi, in quella tuta d’acetato che indossa, o nel suo sguardo rassicurante e stanco, magnetico eppure velato di malinconia, c’è già tutta la dolcezza e l’ironia con la quale abiterà poco dopo il palco, e tutto quel dolore che ne piega l’anima e lo rende quasi scomposto, vitale e imperfetto, trascinante quanto indeciso.

Con l’esperienza dell’uomo di spettacolo di lungo corso — ne intuiamo, dall’attitudine con cui guida la platea a seguirlo nella sequela di gesti da compiere con quelle poche carte, l’intera vita condotta tra palcoscenici prestigiosi o sale secondarie, tra grandi città e provincia, tra set televisivi e piazze di paese — Scimemi attraversa la drammaturgia di Abracadabra e con essa ripercorre le tappe dell’addio alla donna amata, in una successione di numeri di magia e monologhi, di grandi illusioni e racconti di una realtà immutabile e riconoscibile. È anche qui, nelle finissime suture con cui i Babilonia hanno cucito gli affondi testuali alle sequenze di prestidigitazione — ordinarie come quelle di un qualsiasi varietà: la donna segata di fronte ai nostri occhi, o sospesa a un metro d’altezza; un foglio strappato in mille pezzi e poi ricomposto — che Abracadabra si rivela un piccolo miracolo di scrittura, nel quale le parole esondano nella magia e la magia anticipa la narrazione. Un vecchio incanto banale e casalingo, quello stupore bambinesco con il quale osserviamo, ancora una volta, trucchi dei quali immaginiamo di conoscere il segreto, sono così i metri sui quali Scimemi dimostra il proprio talento e al contempo misura, con commovente generosità, il proprio strazio. Certo, la donna (Emanuela Villagrossi) che è coraggiosamente entrata nel parallelepipedo e ha stoicamente resistito alle lame che l’hanno sezionata, è poi riapparsa alla vista integra e intatta: ma è in piena luce che si allontana dietro le quinte, senza voltarsi indietro o celare la verità con il buio, mentre Scimemi piange e si lascia travolgere dallo sconforto di una scomparsa che, per una volta, non è un gioco di prestigio. È stato un cancro a separarli: Castellani e Raimondi cadenzano la diagnosi, l’orrenda litania dei referti e delle terapie, di una prognosi della quale l’asettico linguaggio medico non riesce a lenire il dolore. Ed è su questa parola, “cancro”, che Abracadabra regala a Scimemi un monologo vibrante di disperazione e dignità, durante il quale la voce del mago trema, e io tremo di imbarazzo e di vergogna nel riconoscermi tra quanti di quelle sei lettere hanno fatto un uso metaforico, illanguidendo in un generico fastidio, in una sciocca metafora — essere un “cancro della società” — la verità di un dramma che non conosco.

Ma Abracadabra dona parole anche alla donna, e l’esito è un’altissima poesia di amore e morte: rigida, seduta su quella poltrona che l’ha nascosta e poi rivelata, inglobata nel suo ventre segreto e infine mostrata nello splendore della magia, Emanuela Villagrossi interpreta tutta la devozione di un amore di pelle e sangue — “abito il tuo ventre, abito la tua testa, abito le tue mani, le tue orecchie, la tua lingua, i tuoi piedi” — e la caparbietà di una separazione da percorrere come in un complesso rituale. “Smembrami, dammi in pasto ai cani, (…) lavami, avvolgimi in un lenzuolo bianco, in un drappo di seta, seppelliscimi con le tue mani”, recita Villagrossi, quasi che solo in quest’appropriazione e in questo contatto con il corpo, con la matericità fragile e impermanente della carne, si potesse trovare una terapia al dolore. Medicamenta e altri medicamenta era, non casualmente, il titolo della silloge di Patrizia Valduga in cui la passionalità e il lutto trovavano un connubio nella ritmicità della lirica, negli imperativi che si succedono in rima, e la cui cifra stilistica sembra riconoscersi a tratti al di sotto delle parole scritte da Castellani e Raimondi, quando l’eros sembra al punto di travolgere l’ordine delle cose, la rabbia annegare il reale, il dolore sommergere il palcoscenico.
Eppure svicola, Abracadabra, concede e si concede una comicità struggente e innocente, e le lacrime che Scimemi e Villagrossi, Castellani e Raimondi piangono sul palco sono scenografici flutti clowneschi, schizzi innocenti con i quali bagnare il pubblico: la sequenza è tuttavia anche una gioiosa liturgia dell’acqua, soltanto una delle tappe di una cerimonia d’addio intrisa di una religiosità laica e sorprendente. Ecco il fuoco: armeggia intorno a una piccola cucina, Scimemi, ma a emergere dalla fiamma è un abito rosso. Ecco invece la liturgia della luce, quella delle lucciole che nel buio il mago fa apparire con un rapido gesto, e che altrettanto velocemente raccoglie in un sacchetto. Sono fasi di un cerimoniale intimo e collettivo, di un rituale che solo in teatro — là dove possiamo attendere “il miracoloso ritorno di quelli spariti senza traccia”, scrive Szymborska — può realizzarsi. Là dove una carta strappata può ricomporsi, e dove possiamo sentire — tra i granelli di polvere che ci appannano la vista, o è il nostro pianto? — che chi abbiamo perso è venuto a trovarci, anche solo per i pochi minuti della nostra canzone.
Le fotografie sono di Eleonora Cavallo.
