Presente Indicativo 2024: scritture, attori, prodigi

Dare voce al passato: Saigon e The Confessions (Maddalena Giovannelli)

Un festival ben riuscito, alla sua conclusione, lascia almeno due doni a chi lo ha attraversato: il nome di un artista che non si conosceva e di cui ci si scopre innamorati; un’occasione per interpretare le tendenze dell’oggi. La seconda edizione di Presente Indicativo, che ha animato le sale del Piccolo Teatro di Milano dal 4 al 19 maggio 2024, non ha mancato nessuno dei due obiettivi. Del taccuino raccolto dopo la prima annualità, nel 2022, abbiamo lasciato traccia su queste pagine; oggi tra i miei appunti del festival spiccano le parole “scritture” e “attore”, accanto al nome di Łukasz Twarkowski scritto a caratteri cubitali, come il vistoso font del suo Rohtko (si legga Alessandro Iachino, infra). 

Il programma di quest’anno è apparso, nel complesso, meno bulimico e più compatto sul piano curatoriale: ai venticinque titoli di allora se ne sono sostituiti sedici, ma più evidentemente collegati sul piano tematico e stilistico. Il direttore Claudio Longhi ha scelto di accostare a nuovissime produzioni anche creazioni già in repertorio (Saigon di Caroline Guiela Nguyen è del 2018; Entrelinhas di Tiago Rodrigues del 2013), pienamente coerenti alle linee indagate nonostante la distanza cronologica. Il primo dato da riscontrare – ben consapevoli che il frutto di una selezione non è necessariamente rappresentativo della varietà del panorama – è un visibile ritorno alle grandi narrazioni e al teatro d’attore. Come se dopo tanto decostruire, frammentare e sottrarre, fosse tornata fame di storie e di persone che sappiano raccontarle.

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Saigon, foto di Jean-Louis Fernandez.

Indicativi di questa tendenza mi sembrano in particolare due titoli: il già citato Saigon, e The Confessions di Alexander Zeldin. Entrambe le drammaturgie, corpose e di ampio respiro, accolgono le vicende di tre generazioni, intrecciando singolarità biografiche e grandi cambiamenti storico-politici; entrambe le regie prevedono una macchina scenica complessa, e la presenza di una numerosa squadra di attori; entrambi gli spettacoli potrebbero essere agilmente programmati (magari!) all’interno di una grande stagione di prosa. È il segno di un rappel à l’ordre? È forse il retrocedere delle punte più avanzate della ricerca davanti alle esigenze del mercato e del grande pubblico? Niente del genere: si tratta piuttosto di una felice sintesi, cioè della possibilità di tornare alla tradizione e di reinterpretarla alla luce delle innovazioni. Già dal breve sommario delle trame non sfuggirà, per esempio, la postura politica che anima gli autori nell’elaborazione drammaturgica. Guiela Nguyen attraversa i turbolenti processi di colonizzazione e decolonizzazione del Vietnam tra il 1956 e il 1996, guardandoli dalla finestra di un ristorante vietnamita; Zeldin accompagna invece i ricordi di una donna australiana tra gli anni ’50 e oggi, disegnando il suo percorso di affermazione in una galassia di ostacoli e abusi messi in atto dal mondo maschile. Sia Gliela Nguyen che Zeldin mostrano cioè di aver pienamente assorbito nella propria bottega le istanze di intellettuali, scrittrici e sociologi francesi (da Didier Eribon a Annie Ernaux fino al più giovane Édouard Louis): entrambi partono dal personale e dal biografico – si tratta, in ambo i casi, di storie famigliari – per approdare all’universale e al politico. Laure Cappelle, nella sua recensione a The Confessions pubblicata sul New York Times, mette bene in luce come Zeldin attui de facto, con il suo spettacolo, l’insegnamento del femminismo intersezionale: il primo passo per poter cambiare il sistema di potere cui poggiano le relazioni umane è mettersi in ascolto di chi non ha potuto prendere parola. Dare voce agli abusi del passato è, in definitiva, uno snodo necessario per costruire un presente diverso.

Vale la pena appuntare un’ultima riflessione, a proposito di come il teatro oggi possa affrontare a testa alta la sfida del dialogo con gli altri media. Nei cast di Saigon (undici attori e attrici, alcuni dei quali non professionisti), e di The Confessions (nove superlativi interpreti) si recita felicemente senza enfasi e con realismo, in modo non troppo distante da come ci hanno abituati le serie tv di qualità o il cinema. Le scenografie – ambienti da interno con piatti e bicchieri, gli attori non di rado seduti intorno a un tavolo – possono a tratti ricordare un set cinematografico, e sembrano perseguire una certa concretezza minimalista che non lascia molto all’immaginazione e alla metafora. Ci si potrebbe chiedere se il teatro non sia piuttosto il luogo dell’astrazione e del simbolo, e se a forza di inseguire la realtà e gli stili del piccolo e grande schermo non si finisca per smarrire le specificità della scena. Ci sono due momenti indimenticabili, rispettivamente in The Confessions e in Saigon, dove il tempo pare sospendersi e che offrono una silenziosa risposta a questa domanda. 

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The Confessions, foto di Christophe Raynaud De Lage.

Zeldin mette in atto una magistrale lezione di teatro intorno allo stupro della protagonista Alice da parte di un arrogante “professorino” di storia dell’arte; la drammaturgia ci mostra quello che accade dopo, cioè nell’incontro tra i due all’indomani dell’episodio di violenza. Alice convoca il suo aguzzino in una vasca da bagno, proprio come Clitemnestra con Agamennone: ma qui – invece di rispondere con violenza alla violenza, come lo spettatore forse si augura – gli impone soltanto una sorprendente coesistenza non sessualizzata dei due corpi nudi, nella loro dimensione di assoluta fragilità. A interpretare la protagonista in questo lungo e straniante bagno di giustizia riparativa non è l’attrice che la impersona da giovane (Eryn Jean Norvill), ma la Alice anziana (Amelda Brown), che espone orgogliosamente sulla propria carne il passaggio del tempo. Guiela Nguyen lascia invece apparire sul palco, mentre si avvicina il finale, tutti i personaggi che hanno animato il ristorante vietnamita nelle quasi quattro ore di spettacolo: coesistono nello stesso tempo e nello stesso spazio giovani e vecchi, morti e vivi, gli innamorati separati dalla storia e le famiglie spezzate. È solo un attimo, vertiginoso e commovente, poi la storia continua a fare il suo corso, inesorabile. Continuerà a essere questo il teatro – ci suggerisce Presente Indicativo: un luogo dove passato e presente convivono, le porte chiuse possono per un momento riaprirsi, le occasioni mancate manifestarsi di nuovo. Così, semplicemente, senza bisogno di effetti speciali.

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Saigon, foto di Jean-Louis Fernandez.

Un Rohtko di prodigi e meraviglia (Alessandro Iachino)

“Le falsificazioni di opere d’arte presentano un fastidioso problema pratico per il collezionista, il sovrintendente e lo storico dell’arte (…). Ma anche più sottile è il problema teorico che esse sollevano. L’ostinata domanda – perché debba esserci qualche differenza estetica tra una falsificazione capace di trarre in inganno e un’opera originale – sfida una premessa fondamentale, da cui discendono le funzioni medesime del collezionista, del museo, dello storico dell’arte”. Quando Nelson Goodman pubblica I linguaggi dell’arte, la parabola umana e artistica di Han van Meegeren si era conclusa da più di vent’anni, e della sua mirabolante, pericolosa esistenza – intessuta da alcolismo, tossicodipendenza, e da un’ambigua relazione con le alte sfere del Partito nazista – restavano come unica traccia sei suoi dipinti, a lungo attribuiti a Vermeer perfino dai più stimati studiosi, e finiti addirittura nelle collezioni private di Himmler e Göring. È alla vicenda di quei quadri che Goodman fa riferimento nel 1968, in un saggio che, tra i suoi molti obiettivi, si proponeva di indagare la “significanza estetica dell’autenticità”; nel tentativo di sciogliere “un enigma alquanto sorprendente” – come fosse stata possibile una tale frode, scoperta solo in seguito alla confessione del suo stesso ideatore – il filosofo giunge a una soluzione che sembrava tuttavia contrastare con il senso comune. Le proprietà estetiche di un quadro, afferma Goodman, includerebbero infatti “non solo quelle che percepiamo guardandolo, ma anche quelle che determinano come esso deve essere guardato”. 

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Rohtko, foto di Arturs Pavlovs.

Come per Nelson Goodman, anche per Łukasz Twarkowski un piccolo, grande scandalo che coinvolge l’esclusivo mondo dell’arte contemporanea è l’occasione per un’esplorazione dei confini, sempre meno netti, tra originale e copia; come I linguaggi dell’arte, anche Rohtko si interroga, e interroga spettatrici e spettatori, su cosa abbia potuto indurre una stimata gallerista di New York e un noto collezionista italiano in un errore da più di otto milioni di dollari: eppure, è soprattutto la domanda intorno ai paradigmi della visione, alle modalità possibili con cui osservare quest’opera monumentale, a sorgere al termine delle quattro ore di spettacolo. La platea del Teatro Strehler, nei tre giorni di programmazione, ha infatti reagito in maniera pressoché inedita: alle canoniche, consuete reazioni scaturite da una creazione destinata a restare nella memoria del pubblico – il trascinante ritmo di un lungo applauso, o i commenti entusiasti scambiati in foyer – si è aggiunta un’energia fisica palpabile, un’elettricità trasmessa dai corpi di centinaia di persone, in piedi ad abbracciarsi commosse e a tributare un’interminabile ovazione al cast artistico e tecnico. Come durante un concerto rock, o un estenuante rave crepuscolare, Rohtko ha saputo offrire un’esperienza di condivisione erotica, di trasmissione di una passione incendiaria e incontenibile. Così, tentare di attraversare questo lavoro impone di fare proprie prospettive critiche altre, che non prescindano dalla consapevolezza delle specificità di un’opera grandiosa, tanto per le sue dimensioni e l’afflato che la innerva, quanto per la capacità di risultare totalizzante, di tradursi in un processo analogo a molte proposte di quell’immersive theater tipico della scena anglosassone.

Che sia anche alla cerimonia del rave – tanto alle sue caratteristiche estetiche, quanto soprattutto alle sue sedimentazioni sociali e politiche – che Łukasz Twarkowski guardi come matrice di nuovi rituali teatrali, è esplicitato dallo stesso regista: classe 1983, nazionalità polacca, artista associato a Onassis Stegi ad Atene, è autore di complesse macchine performative che ibridano i dj-set con l’installazione, il dancefloor con il cinema, oggetti meticci che si propongono di originare momenti, o addirittura spazi, di eccezionalità. Respublika, una delle più recenti operazioni di Twarkowski l’evento è in programma a metà giugno ad Atene si propone come un utopico esperimento di coabitazione tra performer e fruitori, in un paesaggio che accosta saune, bar, aree lounge, palcoscenici e megaschermi, e che prevede, alla conclusione delle sei ore di fruizione, un dj-set notturno. Di questa tensione verso il rave, Rohtko mantiene l’impressionante apparato scenotecnico: un tappeto sonoro martellante, un impianto luci colossale, una piattaforma girevole, infine tre schermi, due dei quali posti ai lati del palco e uno, mobile, a sovrastare tutta la scena. È su questi schermi che sono proiettate le riprese live di quanto accade sul palco: quattro cameramen seguono con acribia le azioni e i volti di uno straordinario gruppo di interpreti, e al contempo restituiscono i dettagli – le stoviglie, il vapore che si solleva dalle pietanze calde, le ombre delle vetrofanie sui tavoli di formica – dell’iperrealistico interno di un ristorante cinese a New York, osservato ora negli anni Sessanta del trionfo dell’espressionismo astratto, ora nei primi decenni di un nuovo millennio ipercapitalista. Eseguito in diretta, il montaggio delle varie sequenze costruisce un film enigmatico, in cui piani temporali differenti si accostano tra loro; al contempo, sul palcoscenico è un teatro antico e sempre nuovo a realizzarsi, secondo le proprie regole di prossemica e movimento, di recitazione e gesto, di macchineria e artigianato. “Il trucco si può anche vedere, e forse è bene che lo si veda, ma nello stesso tempo l’illusione dev’essere proprio stupefacente”, annotava Tony Kushner negli appunti per la messinscena di Angels in America, e l’arte di Twarkowski mostra ogni proprio inganno, rivela ogni singolo dispositivo umano e tecnico necessario a realizzare un’opera-mondo di fronte alla quale si prova un genuino senso di incanto bambinesco.

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Rohtko, foto di Arturs Pavlovs.

Sono proprio alcune illusioni, d’altra parte, a costituire il fil rouge teso a collegare le tante storie che Rohtko (con un significativo errore ortografico) dipana, in uno strepitoso collage drammaturgico e plurilinguistico – firmato da Anka Herbut, con cui Twarkowski realizzò nel 2011 il suo primo spettacolo, Farinelli – che spazia tra le epoche e costringe l’ensemble attorale a un chirurgico concertato di voci. La truffa che nel 2011 portò alla chiusura della celebre galleria d’arte Knoedler di New York, e che coinvolse l’imprenditore Domenico De Sole, incauto acquirente di una falsa tela di Mark Rothko, costituisce così l’innesco di un’esplosione di intrecci e personaggi, il basso continuo di una melodia che inanella squarci lirici e affondi psicologici, affastellando per rapidi accenni una messe di suggestioni. Alla biografia del pittore – che Herbut e Twarkowski raccontano, in un primo momento, quando scelse di non consegnare più le tele commissionategli dal Four Seasons di New York, e poi al tramonto del proprio matrimonio con l’illustratrice Mary Alice Beistle – si susseguono così le interviste a De Sole e ad Ann Freedman, direttrice della Knoedler & Co, oppure i commossi dialoghi tra due aspiranti attori che nella New York del presente tentano di entrare a far parte del cast di un film dedicato all’artista americano. Sono isole narrative di un arcipelago sterminato, in cui ciascun avventore del ristorante “Mr. Chow” è a sua volta latore di nuove istanze politiche ed etiche, di snodi esistenziali drammatici o entusiasmanti, offerti in un’immediatezza che non sembra mai porre a oggetto un unico tema. È, quello di Twarkowski, un teatro di superficie: di una superficie à la Deleuze, di vaste dimensioni che sopravanzano per grandezza qualsiasi pretesa di profondità, e capace per questa stessa ragione di abbracciare il reale come sistema complesso, orizzontale, multifocale. Il valore dell'autenticità e il senso del re-enactment, il sessismo e le narrazioni patriarcali, il trionfo capitalista all’interno della produzione artistica, l’infodemia, lo statuto degli artisti nel mondo odierno: i feticci culturali del demi-monde europeo – che Twarkowski, con intelligenza, porta a collidere con il sistema di valori dei due ristoratori cinesi – costellano una trama destrutturata, un sinfonia orchestrata dal susseguirsi dei close-up cinematografici, dalle traslazioni dei set, dalle riprese in grado di mostrare gli angoli del palco celati alla vista. A deflagrare è una sarabanda di soluzioni visive, che riverberano il conflitto tra materialità e concretezza dell’arte – sia essa una tela di Rothko, o una performance teatrale – e una sua possibile declinazione virtuale, come nel caso dei sempre più noti non-fungible token sulla cui diffusione ed essenza si chiude la drammaturgia. Eppure Twarkowski – il cui nome andrà appuntato, come ricorda Maddalena Giovannelli, nei nostri taccuini, e forse nelle agende di ogni spettatore – dimostra di sapere quando fermare la giostra, e quando invitare un’intera platea all’ascolto: eccoci osservare una giovane donna accostarsi al boccascena e sedersi con le gambe sospese nel vuoto, eccoci ascoltarla mentre ci dona la storia di Marta Zarina-Gelze, l’artista che voleva raccogliere e catalogare tutte le lacrime versate di fronte ai quadri di Rothko, e che infine ha scelto di andarsene per sempre, troppo presto e troppo rapidamente. È così simile al nostro tempo feroce e inafferrabile, questo Rohtko di prodigi e meraviglia.

In copertina, Rohtko, foto di Pinelopi Gerasimou.

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