Come a un rave: Hamlet di Ostermeier

20 Dicembre 2024

Alla fine, quando Lars Eidinger torna sotto i riflettori dopo aver divorato il palcoscenico per oltre due ore, un boato si diffonde dalla platea fino all’ultimo ordine di palchetti. Non è solo uno scroscio di applausi entusiasti, come quelli a cui ormai capita di assistere non troppo di rado: è piuttosto quel mistico fenomeno di amplificazione delle energie corporee – del pubblico e dei performer – che può manifestarsi ai concerti, ai rave, o nelle processioni religiose. Siamo al Teatro Bellini di Napoli, dove per pochi giorni (dal 12 al 15 dicembre) è tornato in scena uno spettacolo cult, cioè l’Hamlet di Thomas Ostermeier, che gira il mondo dal 2008. All’esordio (Avignone e poi alla Schaubühne) il lavoro fu accolto dalla critica con qualche freddezza, e la ricezione fu tutto sommato tiepida anche in occasione del suo passaggio alla Biennale di Venezia, nel 2011. Poi, nel corso della quasi ventennale tournée, l’Hamlet è pian piano diventato quello che è ora: una elettrizzante festa del teatro, in grado di accendere il pubblico da Seoul a Sydney, da Teheran a Sarajevo. Cosa è accaduto nel frattempo?

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Applausi al Teatro Bellini, foto di Flavia Tartaglia.

Il primo dato su cui vale la pena riflettere è il rapporto di mancata simultaneità che si instaura non di rado tra i capolavori e lo spirito del tempo: l’artista (quando è tale) anticipa gusti e tendenze, non li insegue servile, alla ricerca del consenso. E così, a guardare oggi la regia di Ostermeier, niente sembra datato, polveroso, passato di moda; non è dunque difficile immaginare, per converso, che nel 2008 tutto sembrasse eccentrico, eccessivo, financo irritante.

La seconda questione su cui interrogarsi è cosa può accadere a un attore – o a un gruppo di attori – quando arriva a conoscere una partitura scenica così profondamente, o quando incarna un personaggio o un testo per così tanti anni della sua vita da scoprirlo cucito sottopelle. Helen Shaw, in una splendida recensione uscita sul “New Yorker”, racconta di aver visto lo spettacolo a Berlino all’inizio della tournée e poi dieci anni più tardi in America; lo spettacolo le è apparso la seconda volta infinitamente più gioioso, dionisiaco, libero (“all’uscita, avrei potuto giurare di aver trascorso le due ore precedenti correndo a tutta velocità su una spiaggia”, chiosa). Che Hamlet sia diventato pienamente libero dopo così lungo tempo non dovrebbe stupirci troppo: se la libertà è superamento dei vincoli o di un canone, la storia delle arti insegna che il superamento presuppone sempre profonda acquisizione.

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Backstage al Teatro Bellini, foto di Flavia Tartaglia.

Tutto inizia con il funerale del padre Amleto. Una distesa di terra scura invade il palco, Claudio (Urs Jucker) e Gertrude (Jenny König) si riparano sotto ombrelli neri, la pioggia arriva da una canna di plastica maneggiata a bella vista da un attore, gli abiti e il volto di Amleto (Lars Eidinger) si sporcano. Intorno alla tomba si consuma una scena à la Buster Keaton: il becchino scivola, si rialza, ruzzola di nuovo ai ritmi sincopati del cinema muto. L’inizio fornisce il codice scelto da Ostermeier per il suo allestimento, cioè la possibilità di attraversare tutti i registri liberamente, come colori di una tavolozza, come gli schizzi di vernice in un’opera di Pollock.

Dietro, oltre la distesa di terra, comparirà un tavolo (le scenografie, come sempre, sono di Jan Pappelbaum), che diverrà reggia, camera da letto, palco. La cena di nozze dei sovrani di Danimarca si svolge come una modesta festa di quartiere, con birre calde in lattina, cartoni di vino, piatti presentati in vassoi di carta argentata usa e getta; il palco si sporca, Amleto razzola tra i rifiuti come un ubriaco dopo un party finito male.

C’è tutto il meglio del teatro di regia tedesco, insomma, quando è fatto come si deve: immagini potenti, snodi interpretativi esplicitati da scelte visive (Gertrude e Ofelia, per esempio, sono incarnate dalla stessa attrice), un ottimo e meditato adattamento (firmato da Marius von Mayenburg).

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Ma se per un verso questo Hamlet mostra dunque la faccia migliore del repertorio, per l’altro verso sembra raccogliere tutta l’eredità dell’happening. Il principe Lars Eidinger, mentre si aggira sul palco, sembra a tratti una tigre in stato di quiete – che potrebbe però scattare e mordere da un momento all’altro – a tratti Sid Vicious che smonta e rompe gli strumenti musicali, a tratti uno sciamano che dà vita a un rito. Il suo sguardo suggerisce, in ogni istante dello spettacolo, che potrebbe accadere qualunque cosa. E in effetti succede quasi di tutto in una vitale e misteriosa dialettica tra l’improvvisazione e la partitura già fissata: l’attore si arrampica a mani nude sui palchetti, cade di faccia nella terra, smonta i microfoni, scende in platea, oppure semplicemente tace e sposta il peso da un piede all’altro, guardando fisso davanti a sé. L’effetto è un senso costante di pericolo e di allerta, una presenza amplificata, che conferisce a ogni gesto – così auspicava Artaud – “l’impressione di essere imprevisto e imprevedibile come qualsiasi atto della vita”.

Eidinger gioca con e oltre la follia di Amleto, facendone una performance allegra e crudele, sempre in bilico tra pulsione di morte e danza collettiva. Del resto il Principe di Danimarca – ben lo sapeva Carmelo Bene, che mai ha abbandonato il personaggio, nella sua lunga carriera – è soprattutto un suggeritore di sospetti su cosa sia poi l’arte dell’attore: abilità di mentire o coraggio di dire la verità? Follia e sregolatezza, o lucidità calcolatrice? Alla fine, dopo le ovazioni, Eidinger ha condotto un dj set nel foyer del Bellini, propagando nella danza la stessa imprevedibile energia dionisiaca diffusa sul palcoscenico: quella emanazione magnetica di cui non si riescono a spiegare del tutto le ragioni, e che da sempre marca la differenza tra i bravi interpreti e i grandi attori.

Le foto di scena sono di Thomas Aurin.

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