Anatomia di un suicidio al Piccolo Teatro

3 Marzo 2023

Sul palco, tre porte. Proprio come nel teatro antico, quando l’unica scenografia era l’ingresso del palazzo o del tempio. Può sembrare fuori luogo, forse, il riferimento alla tragedia greca per le temperature iper-contemporanee di Anatomia di un suicidio, l’ultima creazione de lacasadargilla, che ha debuttato al Piccolo Teatro di Milano per la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni.

In realtà, per addentrarsi neltesto di Alice Birch (astro in ascesa della scena anglosassone, sceneggiatrice con Sally Rooney della serie Normal People) il teatro classico è un ottimo viatico. Per essere precisi l’Orestea di Eschilo, anche se questo sembra portarci molto lontano dalla drammaturgia inglese in stile Royal Court che Birch frequenta da vicino. Ricordate l’inizio della saga? Egisto ha ottimi motivi – non solo l’amore – per aiutare Clitemnestra a uccidere il marito Agamennone a sangue freddo: suo padre Tieste è stato obbligato da Atreo (padre di Agamennone) a mangiare le carni dei suoi figli come un piatto gourmet. Del sangue versato si deve occupare il giovane Oreste che, chiamato a vendicare il padre, si troverà a trucidare sua madre senza far troppe domande, aggiungendo un altro anello alla catena dell’odio.

Anche Birch, per la sua Anatomia, prende in esame tre generazioni proprio come Eschilo: una intera famiglia, anzi un ghenos, tutta al femminile. C’è Carol, la capostipite (come Atreo e Tieste), poi la figlia Anna (come Agamennone ed Egisto), e infine Bonnie (Oreste). Una maledizione tragica si propaga da una all’altra generazione senza che sia possibile trovare un rimedio – un pharmakós –per curarla. Anna si trova a fare i conti con il suicidio della madre Carol, e sembra sentirne più forte il richiamo proprio nel momento in cui, a sua volta, mette al mondo la figlia Bonnie. Come ci si affranca dalle ferite e dai dolori che le generazioni precedenti ci lasciano in dote? Quali meccanismi inconsci mettiamo in atto per trovarci esattamente dove eravamo certe di non volerci trovare? Alcuni anni fa Volver di Almodovar (2006) poneva questioni simili in un’altra saga di madri.

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Pare un’antica trilogia tragica Anatomia di un suicidio, e invece è un avanguardistico testo drammatico costruito come una partitura stereofonica, con tre eventi che avvengono in simultanea: possiamo sbirciare contemporaneamente le vite di tre donne alle prese con amori, lutti, depressioni. Carol (Tania Garribba), Anna (Petra Valentini) e Bonnie (Federica Rosellini) non hanno la possibilità di incontrarsi da adulte e di parlare apertamente dei rispettivi traumi, ma il teatro offre loro il risarcimento di una coesistenza almeno sullo stesso palco; e così, dalla platea, le osserviamo mente fronteggiano la vita una accanto all’altra, e allo stesso tempo prive l’una dell’altra.

Come l’Orestea, anche Anatomia ci invita ad adottare il punto di vista tragico di Bonnie, l’ultima erede del ghenos: a lei il testo affida la responsabilità di interrompere la coazione a ripetere, attraverso qualsiasi mezzo sia capace di inventare. Eschilo, come è noto, narra della nascita di un tribunale, capace di raffreddare e incanalare l’impulso alla vendetta personale, delegando la risoluzione del conflitto a una comunità di votanti. Birch, invece, sceglie di chiudere la sequenza tragica della sua trilogia in modo ben più radicale. Per non ripetere i gesti della madre Anna e della nonna Carol, Bonnie decide di rinunciare, per sempre, alla possibilità di essere madre (al fatto stesso “che sia biologicamente possibile”).

Ci vuole coraggio a sostituire al primo tribunale della storia occidentale la sterilizzazione di una donna: lo ha avuto Alice Birch, e lo ha avuto – forse ancor di più – lacasadargilla. La scelta della non maternità è infatti tema turbolento e poco trattato nell’Italia di oggi, se non come ‘privazione di’, ‘assenza di’, al punto che sembra impossibile affrontarlo senza mobilitare immaginari e raffigurazioni afferenti al materno. Due soli esempi recenti tra i molti possibili. Simonetta Sciandivasci ha pubblicato per Mondadori una raccolta dal titolo I figli che non voglio (2022), derivata da un dibattito svoltosi sulle pagine  di un quotidiano. In copertina figura un passeggino e nell’indice i contributi sulla non maternità si affiancano ad altri sulla maternità (e in misura minore sulla paternità e la non paternità). Un passeggino ha accompagnato anche il discusso e apprezzato monologo di Chiara Francini al Festival di Sanremo (scritto da e con Nicola Borghesi), l’intima confessione di una donna indirizzata a un bambino che non avrà. La presenza fisica dell’oggetto insinua però l’idea di una negazione: quasi fosse necessario raffigurarsi come madri, anche per dire che non lo si vuole essere.

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Suicidio, maternità, relazioni genitoriali: a seguire gli snodi tematici di Anatomia ci si potrebbe fare l’idea di un cupo e indigesto familienroman. Lo spettacolo cesellato con cura maniacale da lacasadargilla è invece – innanzitutto – una felice esperienza per spettatori. Studiato il meccanismo, acquisite le relazioni tra i personaggi, preso il ritmo algebrico delle battute, ci si scopre immersi nella visione e dimentichi di sé stessi, come ci capita di fronte ai migliori film e alle migliori serie, e assai più raramente (ahinoi) con il buon teatro. Il merito va a un testo intelligente e ben scritto, alla regia chirurgica di Ferlazzo Natoli e Ferroni, ma anche a un gruppo di dodici attori e attrici eccellente e senza un solo elemento fuori posto.

La squadra di Whenthe Rain Stops Falling (Premio Ubu 2019) apre a qualche nuovo ingresso e si conferma per levatura, compattezza, rigore. Mentre le logiche produttive dei grandi Teatri Nazionali incoraggiano spesso a includere nel cast qualche nome conosciuto al grande pubblico e persino i più giovani, non appena ne hanno la possibilità, spesso sono tentati di percorrere questa via, Lisa Ferlazzo Natoli rimane fedele al percorso seguito fin qui: sceglie attori e attrici valenti, ma anche (e forse soprattutto) compagni di viaggio con cui sia possibile condividere una stessa idea di teatro. La ricerca sull’attore de lacasadargilla affonda cioè le radici nei grandi studi attoriali del secolo scorso, si nutre delle sperimentazioni più recenti, ma guarda anche all’evoluzione del gusto degli spettatori seriali di oggi. Il risultato non è solo un piacere all’ascolto, ma è anche una possibile risposta a cosa sia (o possa essere) la recitazione contemporanea.

Le foto sono di Masiar Pasquali.

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