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Furore e pietà: il Bernini di Marco Martinelli

21 Marzo 2025

“Aegrotes! Aegrotes! A me ’sti paroli? A me? Te pozza vení ’nu tocco Brescia’! Aegrotes! Aegrotes! Femmena prisuntusa. Ma chi sei? Ma chi ti credi d’essere? Sei l’ultima delle mie lavoranti. Ecco quello che sei! Fúttete Brescia’! E statte accorte! […] In confronto a me non sei nessuno!”. Inizia con una sonora imprecazione Lettere a Bernini, il monologo scritto e portato in scena al Teatro delle Passioni di Modena da Marco Martinelli, drammaturgo, regista, poeta di compagnia e fondatore nel 1983, con Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni, del Teatro delle Albe di Ravenna. A pronunciare con rabbia incontenibile questo clamoroso incipit è il protagonista, lo scultore, architetto e pittore Gian Lorenzo Bernini (interpretato dal bravissimo Marco Cacciola) che ritroviamo furente, rinchiuso nel suo studio romano coperto di polvere, fra cassoni di legno, drappi e un grosso blocco di marmo che occupa il centro della scena, forse pronto per essere scolpito e diventare l’ennesimo capolavoro del grande artista del Seicento. Nato da padre fiorentino e madre napoletana, il Bernino, come il suo secolo lo chiamava, è diventato presto la suprema autorità artistica della Roma e dell’Europa barocca, uomo dal “temperamento tutto fuoco” lo descrivevano gli amici, di inarrivabile genio ma anche di smisurato potere; “un beau diseur”, un buon parlatore, così si dichiara lui stesso nella pièce, o meglio un egocentrico sproloquiante, sempre pronto a straparlare a sua difesa o vanto, sprezzante di quella “ammucchiata di vipere” degli altri colleghi, volgare, iracondo, amico insolente e capriccioso di cardinali e papi, e forse persino più potente di quei potenti di cui era al servizio e che gli perdonavano ogni intemperanza in cambio delle sue magnifiche opere. Sarebbe sopravvissuto a cinque pontefici restando sempre al suo posto, ma intanto ora, all’inizio dello spettacolo, mentre si consuma la torrida giornata del 3 agosto 1667 in cui si svolge l’intero monologo, “’sta tutte incazzate il Bernino” mentre stringe tra le mani una lettera, la prima di molte che riceverà in queste ventiquattro ore, e maledice una certa Bresciani, “femmena ’e niente”, che non solo con lettere su lettere ha la sfrontatezza di pretendere la giusta retribuzione per un lavoro che le aveva commissionato, ma gli fa recapitare missive anche dai cardinali a lui vicini, Orsini, Ferretti, Colonna, a sostegno della sua giusta causa. Scopriamo presto che l’ingrata “longobarda” contro cui si scaglia la furia di Bernini è tale Francesca Bresciani, intagliatrice di lapislazzuli che aveva lavorato per lui al tabernacolo nella Fabbrica di San Pietro e che a fine incarico si è vista pagare meno della metà del prezzo pattuito.

La storiaccia di Francesca Bresciani è vera e se ne trova traccia nel libro di Assunta di Sante e Simona Turriziani, Le donne nel cantiere di San Pietro in Vaticano. Artiste, artigiane e imprenditrici dal XVI al XIX secolo (Il Formichiere, 2017), una delle fonti di Martinelli. E la sua storia ricorda purtroppo tante altre vicende di donne mal pagate o non pagate affatto per il loro lavoro, di cui è piena la storia artistica e letteraria (si pensi solo al caso clamoroso di Lucia Morpurgo Rodocanachi, traduttrice fantasma di Elio Vittorini, fra gli altri, che le ritardava quanto più possibile i pagamenti per le sue traduzioni, o li mancava del tutto). Ma questa contesa realmente accaduta diventa per Martinelli il grimaldello ideale per restituirci un ritratto a tutto tondo del Bernino, genio assoluto e uomo pieno di contraddizioni e debolezze, e per condurci, attraverso la sua figura, a una riflessione profonda sugli artisti, quelli del Seicento e quelli di ogni tempo, nelle loro relazioni insidiose con il potere. In un cortocircuito spiazzante fra passato e presente, interpella direttamente noi spettatori questo Bernini, mostrandoci il rapporto fra le arti e i poteri anche attraverso immagini rimaste nella memoria del Novecento – per esempio quelle di un concerto diretto in Germania, in pieno furore nazista, dal maestro Wilhelm Furtwängler, vicino al regime hitleriano – per poi catapultarci all’improvviso fin nella nostra misera contemporaneità, in cui lo spazio di lotta per la conquista del capitale simbolico di cui parla Bourdieu e il riconoscimento della propria visibilità di artisti è il web, e fama e celebrità si inseguono sui social: “Ne hanno dette tante sul mio conto, da vivo e da morto. Ma ditemi… chi tra voi non li desidera? Anche solo un pezzettino? Ricchezze, onori. Lustrini. C’è tra voi qualche artistucolo che, se il Papa o chi per lui domani gli dicesse: seguimi, sarai il nuovo Michelangelo, avrai milioni di follower, si farebbe da parte, si schermirebbe, ma no Santità, preferirei di no, scelga un altro, io ci tengo alla mia purezza”.

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Ma chi parla? Chi abbiamo di fronte noi spettatori? È un testo complesso, stratificato e all’insegna del doppio quello di Martinelli, in cui duplice sembra essere già il personaggio che entra in scena. È Bernini? È un narratore? Martinelli ci trascina in un gioco scenico in cui il protagonista sembra appunto brechtianamente sdoppiarsi, alternando di continuo prima e terza persona, narratore e personaggio, racconto e dramma.

Ma un doppio, anzi plurimo talento e artista totale era del resto lo stesso Bernini, eccelso scultore e architetto, ma anche pittore, scenografo inventore di maraviglie, abile drammaturgo, regista e attore. E vediamo questa vocazione teatrale irrompere nella pièce, con Bernini che, prima di congedare i suoi giovani allievi immaginari, per sbollire il furore fa qualche prova del Coviello, farsa in napoletano ideata per papa Clemente IX, perché non si può essere bravi scultori se non si è bravi attori, “perché – tuona in una lingua che si sdoppia anch’essa fra italiano e napoletano – se non imparate a recitare non imparerete mai a scolpire! Gli affetti, i sentimenti, prima di trasferirli nel marmo li dovete patire in voi, int’a voce vostre, int’a carne vostre”. Di nuovo, chi parla? Il Bernino scultore e drammaturgo o lo stesso Martinelli, il cui teatro è sempre stato, sin dagli inizi, teatro di carne, per il quale non c’è teatro senza la carne e il corpo, quello dello spettatore e quella dell’attore che incarna il personaggio, “quell’attore del teatro di carne [che] lotta contro fantasmi invisibili: sente i morsi sulla pelle, tenta di decifrarli [...], per capire a chi appartengano i denti che mordono” (da I brandelli della Cina che abbiamo in testa, 1987).

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Ogni singola tessera o figura sembra in questo testo rifletterne un’altra, anche in absentia, e forse proprio a questa duplicità potrebbe alludere lo specchio nel quale Bernini, a un tratto, insegue turbato il suo stesso volto e vede chissà quale fantasma. È in effetti in absentia che si rivela il doppio più potente dello spettacolo, evocato da Bernini continuamente, come un’ossessione: si tratta dell’odiato Borromini, l’altro visionario genio dell’età barocca e suo più temibile rivale, “longobardo” come la Bresciani, quello che, a differenza del logorroico Bernini, “non parla, […] si esprime a monosillabi, cupo, trissste”, quello che “fa il tragico” e che minaccia sempre “che s’ammazza, che si butta nel fiume!”, mentre Bernini non avrebbe remore a uccidere persino suo fratello, come già una volta aveva provato a fare per gelosia verso la comune amante Costanza Bonarelli, se non l’avessero fermato in tempo.

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È proprio l’ombra di Borromini, autentico alter ego rovesciato di Bernini, a farne emergere il lato più recondito di uomo fragile, sempre soffocato dalla tronfia spavalderia dell’artista. L’ultima delle molte lettere di quell’estenuante giornata sarà la più crudele perché porterà la notizia del suicidio di Borromini. È questo il punto di svolta dello spettacolo, quello in cui questi due strani Dioscuri si separano per sempre, in cui la consapevolezza della scomparsa dell’uno rende manchevole anche l’altro. Non c’è più spazio per il furore e per il grido, a prevalere in Bernini è ora la pietà, insieme all’interrogazione ontologica, oltre che intensamente lirica, sulla fatica e sull’arrabattarsi effimero di ogni artista e di ogni uomo sulla terra, sulla nostra fragile e misera esistenza: “Io non so niente. Niente. Ho fatto ho fatto ho fatto… e poi? E anche il longobardo. Ha fatto ha fatto ha fatto… e poi? Ha cacato sangue pure lui… e poi? E tutti gli altri. La schiera di tutti quelli che… Han fatto han fatto han fatto… e poi? Abbiamo tutti sgomitato su questa terra. Ci siamo accoltellati. Per un lavoro. Per una lode. Per una commissione in più… e poi?”. Nel potente finale è ormai chiaro che quel marmo bianco, al centro della scena sin dall’inizio, è rimasto lì tutto il tempo non per dare vita a una nuova opera, ma per prefigurare la morte, che mette fine all’arrampicarsi quotidiano dell’artista e dell’uomo.

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I testi teatrali hanno anch’essi sempre una doppia vita, quella sulla scena e quella sulla carta, e l’ultimo “doppio” da menzionare per questo crudele e commuovente lavoro di Martinelli è il testo dello spettacolo, pubblicato da Einaudi nella prestigiosa Collana di teatro lo scorso novembre, curiosamente prima del debutto. Un agile libretto di appena quarantasei pagine che si aggiunge a due ponderosi volumi in cui sono raccolte molte delle drammaturgie di Martinelli dal 1988 al 2010 (vol. 1: Ruh. Romagna più Africa uguale; Siamo asini o pedanti?; Bonifica; I Refrattari; Salmagundi; Rumore di acque) e dal 2010 al 2020 (vol. 2: Pantani; Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi; Va pensiero; fedeli d’Amore; Madre). I due volumi, a cura di Valentina Valentini, sono usciti anch’essi nel 2024 da Marsilio e sono arricchiti da contributi della stessa curatrice, di Marco Belpoliti, Daniela Sacco e Marco Sciotto. In questi testi è costantemente presente la duplice traiettoria della scrittura di Martinelli, la sua stessa doppia vocazione, come ricordato da Belpoliti nella postfazione al primo volume: da una parte la vocazione pedagogica, dall’altra quella del “militante politico, ma alla dantealighieri, cioè quella di uno scrittore che è costretto all’esilio” (M. Martinelli, Teatro. 1988-2010, a cura di V. Valentini, Marsilio, 2024, p. 289). Così continua Belpoliti, parlando ancora di duplicità: “Martinelli regista e attore è uno ‘scappato’. Si è mosso pochissimo dalla sua Ravenna, se non per le sue tournée teatrali e direzioni, ma pur essendo radicato in quella città e nel suo territorio Martinelli è altrove. Vede la realtà che lo circonda ma la traduce immediatamente – la trasfigura – in un altrove che può essere la Atene del 446 avanti Cristo di Aristofane, la Firenze di Dante del 1300, la Berlino di Bertolt Brecht del 1930. Inventa se stesso e la commedia-dramma che mette in scena trasferendo Ravenna in altro luogo, pur senza spostarsi d’un centimetro” (pp. 289-290). A quei tanti altrove si aggiunge ora la Roma di Bernini.

Lettere a Bernini
con Marco Cacciola
ideazione di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari
regia di Marco Martinelli
produzione Albe / Ravenna Teatro – Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

Dal 2 al 6 aprile al Teatro Biondo di Palermo, dal 10 al 16 aprile alle Gallerie d’Italia di Napoli
Fotografie di © Enrico Fedrigoli.

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