Lazarus, l'opera rock di David Bowie

14 Aprile 2023

Da troppo tempo, specie in questo tempo post-pandemico, non si vedeva un teatro stipato di pubblico in ogni ordine di posti. È tornato ad accadere nei giorni scorsi per la prima nazionale dell’opera rock Lazarus di David Bowie, approdata al Teatro Storchi di Modena dal 29 marzo al 2 aprile dopo il debutto, anch’esso sold out, al Teatro Bonci di Cesena.  

Lazarus – prodotto da ERT / Teatro Nazionale insieme ai Teatri Nazionali di Torino, Napoli e Roma, oltre al LAC Lugano Arte e Cultura – è una delle ultime creazioni di Bowie composta insieme al drammaturgo irlandese Enda Walsh, che il regista e direttore di Ert Fondazione Valter Malosti ha messo in scena con un cast imponente e talentuoso di undici interpreti e sette musicisti, curandone la versione italiana in collaborazione con lo stesso Walsh, a otto anni dal debutto al New York Theatre Workshop di Manhattan appena un mese prima della morte dell’artista. 

Bowie, già malato di cancro, aveva concepito il suo Lazarus – una sorta di “regalo d’addio al mondo” – come sequel del romanzo L'uomo che cadde sulla Terra di Walter Tevis del 1963, a sua volta soggetto dell’omonimo adattamento cinematografico di Nicolas Roeg del 1976 che lo aveva visto protagonista nel ruolo dell’alieno Thomas Jerome Newton, venuto sulla Terra in cerca d’acqua per salvare il suo pianeta spaventosamente arido e a rischio di estinzione. Il musical prende le mosse dal finale del film, e ci fa ritrovare il migrante interstellare Thomas Newton, qui interpretato con rigore e personalità da Manuel Agnelli, nel punto in cui lo avevamo lasciato, vale a dire intrappolato sulla Terra, un moribondo che non può né invecchiare né morire (“Sono un uomo che sta morendo, ma non può morire”), isolato dal mondo, prigioniero delle mura del suo appartamento di New York, divorato dalla depressione, dal gin, dai fantasmi del passato, sopra tutti quello struggente di Mary-Lou, il suo amore disperato e perduto. 

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Manuel Agnelli.

Questo strano oggetto di teatro musicale, che nell’ottima e coraggiosa reinterpretazione di Malosti si rivela energico e al contempo potentemente malinconico, mette al centro i temi della fuga, della psicosi indotta dai media, della morte, dell’isolamento, dell’accoglienza, dell’essere considerati diversi e stranieri, della ricerca vana di un posto dove potersi sentire veramente ‘a casa’ e al sicuro. Ma lo fa avanzando per lampi di una narrazione per nulla lineare, frantumata in continui slittamenti temporali, in cui il passato e il presente si confondono in un’unica allucinazione, come a voler restituire specularmente l’incepparsi della memoria stanca del protagonista, l’incagliarsi della sua emotività sfiancata dall’isolamento e dalla depressione. Si procede dunque su livelli temporali ma anche spaziali differenti, in cui la realtà asfittica dell’appartamento di Newton si popola di altri spazi e altre figure forse reali o solo immaginate, le stesse che Bowie aveva abbozzato nelle poche pagine che contenevano il suo progetto di Lazarus consegnato a Walsh: fra queste Elly, impersonata dalla coreografa, danzatrice e grande talento canoro Michela Lucenti, infelice governante innamorata di Newton, che prova inutilmente a conquistarlo indossando gli abiti di Mary-Lou, trasformandosi in lei mentre interpreta un sofisticato arrangiamento di Changes; e poi il serial-killer Valentine (il bravo Dario Battaglia) e la Ragazza, figura tanto enigmatica quanto rassicurante per Newton, e anche per noi trascinati come siamo nella sua allucinazione, l’unica che forse potrà aiutarlo a trovare finalmente pace. A darle corpo e voce è la giovane cantautrice e polistrumentista Casadilego, che ci consegna, fra l’altro, un’interpretazione di Life on Mars? che difficilmente potremo dimenticare.

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Casadilego.

In questo spazio insano, povero di oggetti ma popolato di spettri, troviamo al centro una pedana che gira intorno a sé stessa come il pianeta Terra che intrappola Newton, occupata soltanto da una tastiera che fa da tavolo e da una poltrona in cui il protagonista sprofonda con il suo gin, circondato, assediato anzi, da diversi schermi sfalsati che sovrastano la scena proiettando figure, ricordi, immagini di tumulti, immagini di una Terra in disordine. E poi ancora i musicisti, distribuiti con sapienza ai due lati del palco in posizione rialzata, quasi a voler ricomporre anche visivamente in una compiuta e superiore unità artistica il disordine mentale di Newton, interpreti di ottimi arrangiamenti di brani fra i più celebri di Bowie, fra cui il potente Lazarus che apre lo spettacolo, This Is Not America, Absolute Beginners, oltre a quattro inediti che l’artista aveva scritto appositamente per il musical. 

È un’esilissima trama, dunque, quella di Lazarus, trasfigurata poeticamente nella varietà dei linguaggi performativi, tutti di altissima qualità, che intervengono nello spettacolo, la musica, la visualità, la danza; una narrazione non realistica né mimetica che procede per nodi poetici ed emozionali, per accostamento di frammenti disordinati, persino casuali, e che di fatto conferma, finanche in quest’ultima opera-testamento di Bowie, una cifra compositiva e stilistica dominante del suo itinerario artistico. Era infatti solito Bowie, com’è noto, ricorrere per le sue composizioni alla tecnica del cut-up, che aveva fatto sua dall’amato William S. Burroughs ma che, sappiamo, era già modo compositivo di Tristan Tzara e dei dadaisti: ossia il rimescolamento random di frammenti di frasi o parole ritagliati da testi e ricombinati in un nuovo testo. E aveva ideato persino un software, il Verbasizer, che lo aiutasse in questo lavoro di giustapposizione creativa di frammenti, capace di suggerire o alludere a una storia piena di vuoti da riempire attraverso l’esperienza immaginativa. Testi ‘obliqui’ dunque, come quello di Lazarus e di Heroes, che chiude lo spettacolo, o come l’intero album 1. Outside, in cui Bowie era ricorso al cut-up, ma anche alle Strategie oblique ideate dall’amico Brian Eno e dall'artista britannico Peter Schmidt, 100 carte sulle quali erano impresse figure, situazioni, frasi pescate in modo casuale e utili dunque a far scattare l’immaginazione nel processo compositivo dei testi e delle tracce musicali. Un potere evocativo, quello del frammento bowiano, che richiama curiosamente la forza evocativa delle macchie di Leonardo, che in uno dei capitoli del suo Trattato della pittura dal bellissimo titolo Modo d'aumentare e destare l'ingegno a varie invenzioni, suggerisce di assecondare le configurazioni casuali dei frammenti o delle macchie perché stimolano l’immaginazione, “perché nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni” (cap. 63). Ma che fa venire in mente, almeno come suggestione, anche il metodo combinatorio del Calvino del Castello dei destini incrociati, che così ne scriveva: “Quando le carte affiancate a caso mi davano una storia in cui riconoscevo un senso, mi mettevo a scriverla” (Einaudi, 1973, pp. 124-125). 

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Dario Battaglia.

Bowie ha continuamente reinventato sé stesso, “il suo talento – annota il filosofo Simon Critchley – sta nel diventare qualcun altro per la durata di una canzone, talvolta per un intero album o magari un tour. Bowie è un ventriloquo […], un creatore di illusioni consapevole della loro illusorietà” (Bowie, Il Mulino, 2016, pp. 45, 151). Scrittore, pittore, editore, critico d’arte, attore di teatro e di cinema oltre che musicista, autentico esempio di talento plurimo, Bowie ha praticato l’arte dello sconfinamento – “il più eccellente dei mutanti” lo chiama Enda Walsh – sconfinando in altri personaggi, svuotando persino nel nome (il suo vero nome era David Robert Jones) la propria soggettività autoriale per riempirla con quella effimera delle sue maschere, dei suoi alter-ego, spesso outsider, sconfinanti anch’essi, al limite fra la lucidità e la malattia, fra l’umano e l’alieno, la vita e la morte. Si pensi all’androgino glam Ziggy Stardust o all’alienato astronauta Major Tom di Space Oddity, che una volta arrivato nello spazio si accorge dello squallore della Terra e decide di suicidarsi (“Planet Earth is blue / And there’s nothing I can do”, “Il pianeta Terra è triste / e non c’è niente che io possa fare”); o si pensi infine a Thomas Newton di Lazarus, tappa organica e ultimativa del personale itinerario di ricerca artistica di Bowie, condannato a essere alieno per sempre, preda della sua mente malata, devastato dai fantasmi e dalla solitudine. Figure e temi che riverberano forse da vicende familiari di Bowie, come quella del fratello Terry schizofrenico e morto suicida, poeticamente ricomposti e sublimati nell’arte, ma che comunque, al di là di ogni rischioso biografismo, sono indizi da un lato della predilezione bowiana per il margine, la soglia, la diversità, dall’altro di un bisogno di infinita ricombinazione in altre identità, in altri personaggi. Bowie, autore ingombrante e difficile da maneggiare per ogni artista che voglia cimentarsi con le sue opere, e allo stesso tempo autore paradossalmente sfuggente, non ha lasciato indicazioni per la messa in scena del suo Lazarus. Ancora più coraggiosa dunque, e per chi scrive perfettamente riuscita, è l’operazione di Valter Malosti e del suo cast di artisti e artiste, il cui rischio era di finire nel pregiudizio elegiaco di puristi ancorati all’idea della inviolabile autorevolezza del testo di partenza rispetto a ogni suo rifacimento, con un interesse per lo più fermo a contare le perdite, a compiangere ciò che manca in questo nuovo assetto musicale e vocale rispetto a Bowie, a deplorarne le variazioni, assumendo il criterio intransigente della fedeltà come metro di giudizio. 

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Dario Battaglia e Michela Lucenti.

Quella fra fedeltà e infedeltà è una contrapposizione ormai da tempo priva di senso, mentre più sensato è, forse, provare a considerare la lealtà di chi traduce, riscrive, adatta o riallestisce un’opera in un altro tempo e in un altro spazio. Solo tradendo la voce dell’autore si può mantenerla in vita. E quella voce sarà tanto più viva nel tempo quante più voci la moltiplicheranno e le permetteranno di dialogare ancora con il mondo. Una copia punta all’identità o almeno alla massima somiglianza con il modello, è la simulazione di cui parlava Platone, vale a dire un mero tentativo, sempre destinato a fallire, di replica inerte dell’originale.

Con intelligenza e personalità Valter Malosti, i suoi artisti e artiste, e Manuel Agnelli fra tutti, non hanno tentato di copiare né hanno replicato, ma hanno reinterpretato Bowie con grazia, misura e rispetto, facendo dono al pubblico entusiasta di una vivificante ricreazione della sua opera, investendola della propria carne, della propria vita. “Non importa come nascono le commedie – appunta Walsh nel libretto di sala di Lazarus – finisci sempre col parlare di te”. 

Qui la locandina completa dello spettacolo, con le date delle repliche a Roma, Bologna, Napoli, Milano, Torino e in altre città.

Fotografie di Fabio Lovino. Nell’ultima immagine Manuel Agnelli e Camilla Nigro.

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