Primavera dei Teatri, anche d’autunno

14 Ottobre 2022

Si è appena conclusa la ventiduesima edizione di Primavera dei Teatri, il festival sui nuovi linguaggi della scena contemporanea che anche quest’anno, come già era accaduto con l’edizione pandemica del 2020, è tornato in un’inconsueta veste autunnale rispetto alla tradizionale programmazione primaverile. 

Non c’è formula più efficace di quell’Eppur si muove, scelto quest’anno come leitmotiv del Festival, per ribadire la caparbietà di Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano, anime della compagnia Scena Verticale e di Primavera dei Teatri, di mantenere vivo, in direzione ostinata e contraria rispetto a lungaggini burocratiche e ritardi istituzionali che hanno persino fatto saltare l’edizione dello scorso anno, l’appuntamento con un festival divenuto uno dei luoghi di elezione della scena contemporanea nazionale e internazionale. E tanto più incisiva è quella formula se messa in dialogo con la perturbante immagine-logo di quest’edizione: un uomo avvolto in un imballaggio di plastica a bolle d’aria che lo protegge da un cactus, piccolo ma irto di spine, postogli minacciosamente accanto, pronto a farlo scoppiare da un momento all’altro.  

Primavera dei Teatri, però, non solo ha continuato in silenzio a difendersi dalle spine e a muoversi nonostante un anno di fermo forzato, ma ha persino ampliato la propria offerta, dislocandosi dal 27 al 29 settembre anche a Catanzaro, capoluogo calabrese, con un’inedita ouverture dedicata specificamente alla scena internazionale e alla nuova danza italiana con, fra gli altri, artisti e artiste del calibro di El Conde de Torrefiel, Renata Carvalho, Marina Otero, Alessandro Sciarroni, Silvia Gribaudi. A partire dal 30 settembre e fino al 6 ottobre il Festival si è poi spostato nella sede storica di Castrovillari, nell’entroterra cosentino, con un fitto programma di spettacoli arricchito da eventi musicali, residenze artistiche, reading, un workshop curato da Vincenzo Tripodo sull’arte attoriale cinematografica, presentazioni di libri, il ricordo di Renato Palazzi e di Maria Grazia Gregori, firme storiche della critica teatrale e anche di questo Festival, e un focus su Scena Verticale per festeggiare i trent’anni della compagnia. 

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I mostri che abbiamo dentro: Danzando con il mostro

“Fa un certo effetto non capire bene / da dove nasce ogni tua reazione / e tu stai vivendo senza sapere mai / nel tuo profondo quello che sei. […] I mostri che abbiamo dentro / che vagano in ogni mente / sono i nostri oscuri istinti / e inevitabilmente dobbiamo farci i conti”. 

Così cantava Gaber nel suo album-testamento uscito postumo nel 2003, e questi mostri ho ritrovato nei due spettacoli che ho potuto vedere. Il primo è stato, in anteprima nazionale, Danzando con il mostro, co-prodotto da Infinito, Ert Teatro Nazionale e Compagnia Lombardi-Tiezzi e frutto dell’inedito incontro artistico tra Damiano Dammacco, autore della drammaturgia, Serena Balivo e Roberto Latini che con lui, in un’esperienza di co-autorialità autentica, hanno firmato la regia. Entriamo subito in un’allucinazione, anche sonora e visiva, grazie al sapiente lavoro del sound designer Gianluca Misiti e al disegno luci di Max Mugnai, affiatata coppia artistica e sodali storici di Latini.

La scena è piena bicchieri e di microfoni che già da soli, prima ancora di qualunque discorso, suggeriscono il tema: quello antico e sempre urgente della molteplicità dell’io, della complicata relazione con sé stessi, dei mostri che abitano l’individuo e finiscono per tormentarne segretamente un’esistenza in apparenza felice e senza privazioni. Poi quella scena si anima, e dietro le sbarre di una finestra che sembra più una gabbia compare il mostro, che con la sua maschera nera rimanda a Pulcinella, figura enigmatica per eccellenza e dalla consistenza sfuggente, la cui natura spettrale, fantasmatica e soggetta a moltiplicazione è stata ben indicata da Agamben nel suo Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi (nottetempo, 2015). E questo mostro-Pulcinella dapprima rivolge ai mostri che ciascuno di noi in platea porta dentro di sé un disorientante ‘prologo’ recitato in ‘mostrese’, una strana lingua inventata mista di storpiature latine e greche; poi si moltiplica di fatto in due figure, un uomo e una donna elegantemente vestiti (con costumi di Francesca Tunno), che iniziano a riempire la scena con un sorvegliato movimento ininterrotto e con i loro discorsi, o piuttosto frammenti spezzati, lampi di ricordi, moniti.

Lei esorta l’altro (e noi? I nostri tanti io? I nostri mostri nascosti?) a “stare leggeri”, a “non ammorbare le persone” con discorsi sulla malattia, il dolore, la morte, suggerisce di “restare nel personaggio”, di “nascondere ogni sentimento o pensiero negativo”, di raccontare solo della felicità che hanno preso in prestito dalla vita, di tutte le foto che hanno fatto, quelle del matrimonio, del battesimo dei figli, delle vacanze, dei safari, o quelle con i colleghi, quelle di tutti i sé stessi in tutte le circostanze, sempre sorridenti, sempre in posa. 

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Ma cosa accade quando restiamo al buio? Cosa accade di notte? Dammacco prende a prestito e riadatta dal Watzlawick di Istruzioni per rendersi infelici il paradosso del lampione: quello di un ubriaco che ha perso le chiavi dell’auto in un punto buio di un parcheggio, e alla domanda del poliziotto che, vedendolo accanirsi a cercarle sotto la luce di un lampione, gli chiede se è sicuro di averle perse lì, lui risponde che è sicuro del contrario, ma lì c’è più luce.

Ci vuole coraggio a cercare noi stessi nel buio, perché al buio i tanti io possono finire in frantumi, in mille pezzi come i fragili bicchieri di vetro disposti in proscenio; più comodo usare tutti quei bicchieri per ubriacarsi sotto la luce rassicurante del lampione delle nostre certezze.

E sono talmente tanti i sé stessi che abitano l’essere umano da poterne persino stilare una hit-parade: da “Nonsonoio”, che fa le cose al suo posto senza dirgli niente, a “L’animale che ho nel petto” che non parla mai, ma bussa da dentro, a “Radio Myself twentyfour hours”, quello che parla sempre, “niente buchi, parole, parole, toni giusti”, al “Ragionevole” che “dice compulsivamente cose ragionevoli, molto ragionevoli”, che ostenta un pieno controllo del proprio corpo ma “sembra Edward mani di forbice”, al “Santo Mestesso martire” che mostra sempre le sue stigmate e ne va fiero. Sotto la luce, tutti loro fanno meno paura. 

Le due figure in scena – con Serena Balivo e Roberto Latini in perfetta unione ritmica – si sovrappongono e talvolta si fondono, anche attraverso la ripetizione identica delle battute; scivoliamo di continuo fra i due personaggi, ciò che dicono e fanno ci colpisce forte e poi sembra in parte sfuggirci, siamo costantemente distratti e attratti dai loro corpi incapaci di stare fermi, sempre ondulanti in una danza inquieta, a volte con movenze di marionette i cui fili invisibili sono mossi dal mostro-Pulcinella che appare e scompare da dietro la grata in fondo al palco. Le due figure sono sue proiezioni notturne, e noi stessi siamo stati trascinati dentro questa allucinazione. E se l’allucinazione è una falsa percezione, ossia una percezione senza oggetto, un abbaglio, ci sembra intenzionale e drammaturgicamente riuscito l’effetto, in chi assiste, di costante spaesamento, di perdita del filo di un discorso che inutilmente si pretende logico e razionale. 

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I mostri che abbiamo dentro: i Macbeth

Domina ancora la notte, anch’essa popolata da mostri e da ossessioni che “assassinano il sonno”, nella prima nazionale di i Macbeth, per la regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi, in scena con Giovanni Moschella e Raffaella d’Avella, su testo di Francesco Niccolini (produzione Arca Azzurra e Centro Teatrale Bresciano).

La scena si apre sullo spazio insano di quattro asfittiche stanze di un ospedale psichiatrico o di un manicomio criminale, ciascuna occupata da menti mostruose: quelle paradigmatiche di Macbeth e Lady Macbeth, e alcune delle tante shakespeariane coppie di mostri che la cronaca del nostro tempo non smette di restituirci. Il testo di Niccolini del resto, leggiamo nella nota di sala, “è molto liberamente ispirato a William Shakespeare e a stragi dei giorni nostri”.  

È uno spazio fisico ma anche un oscuro paesaggio mentale quello in cui siamo catapultati, creato dalla maestria degli attori – unita a quella di Max Mugnai, anche qui maestro di giochi di luci, e di Mela Dell’Erba (per le scene e i costumi) – che ci spingono dentro il buio di menti malate, ossessionate, efferate. E in questo paesaggio mentale tutto è già avvenuto, tutto è raccontato o evocato per frammenti, per schegge di memoria, nulla accade dal punto di vista della concatenazione scenica. Il racconto rimbalza da una voce all’altra, in un continuo gioco di specchi che confonde i ricordi, le menti e le colpe, e affida a Lady Macbeth la profezia delle tre streghe shakespeariane, e ancora a lei il dolente monologo che, nel quinto atto del testo di partenza, pronunciava un attonito e sempre più dissennato Macbeth dopo la morte della regina: “Via, consumati, corta candela! La vita è solo un’ombra errante, […] una storia narrata da un idiota, colma di suoni e di furia, senza significato”.

I macbeth, foto di Angelo Maggio

Delirante è anche il racconto restituito dagli altri Macbeth e Lady Macbeth contemporanei chiusi in reparto: parole dal registro infantile sono quelle di chi fatica a ricordare di aver massacrato la sua ragazza per evitare che lei gli sterminasse la famiglia, e che – con chiaro riferimento intertestuale – è ossessionato dal ricordo delle sue scarpe bianche da tennis insanguinate; livide le parole di Olindo Romano, corresponsabile con sua moglie Rosa Bazzi della strage di Erba, novello Macbeth alienato che, come lui, si è “tanto impinguato di orrori” che lo spavento gli si è fatto compagno; feroce e pieno di tremendi dettagli è poi il resoconto della morte lenta procurata a Luca Varani dai due giovani romani Manuel Foffo e Marco Prato, così come l’invettiva che, in chiusura di questo pregevole lavoro, mescola Shakespeare al discorso maligno pronunciato davanti alla Corte dal serial killer Carl Panzram. 

Già in Riccardo 3. L’avversario la coppia d’arte Vetrano e Randisi, ancora su testo di Niccolini e con la partecipazione di Giovanni Moschella, aveva intarsiato, con rigore drammaturgico e sapienza attoriale, le vicende del folle protagonista shakespeariano con i crimini di Jean-Claude Romand di cui scrive Carrère nel suo L’avversario, ambientando anch’esse in un istituto psichiatrico. La stessa raffinatezza e cura ritroviamo in questa prova, che smuove e spaventa, perché anch’essa, dialogando criticamente con la tradizione, chiama in causa quei “mostri che abbiamo dentro, insaziabili e funesti”. 

“Se la tragedia – scrivono J.P. Vernant e P. Vidal-Naquet – appare radicata più di qualsiasi altro genere letterario nella realtà sociale, ciò non significa che ne sia il riflesso. Essa non riflette questa realtà: la mette in causa. Presentandola lacerata, in urto con sé stessa, la rende tutta quanta problematica” (Mito e tragedia nell’antica Grecia. La tragedia come fenomeno sociale estetico e psicologico a cura di M. Rettori, Einaudi, 1976). 

Le fotografie sono di Angelo Maggio; il manifesto di Colin Anderson.

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