Terzopoulos, aspettando Godot
Si sono appena concluse al Teatro Storchi di Modena (12-15 gennaio) le repliche, in prima assoluta, di uno degli spettacoli più attesi della stagione di Ert, Aspettando Godot, co-prodotto da Emilia Romagna Teatro – Teatro Nazionale e Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini in collaborazione con l’Attis Theatre Company di Atene, e frutto dell’inedito incontro tra il regista greco Theodoros Terzopoulos, fra i maestri indiscussi del teatro contemporaneo internazionale, e la coppia d’arte Enzo Vetrano (Estragone) e Stefano Randisi (Vladimiro), in scena con Paolo Musio (Pozzo) e i giovanissimi Giulio Germano Cervi (Lucky) e Rocco Ancarola (Ragazzo).
È una lunga storia d’amore quella che lega Terzopoulos a Samuel Beckett, concretizzatasi negli anni sia nella forma diretta di allestimenti di suoi drammi, da Dondolo (2003) a Improvviso dell’Ohio (2004) a Finale di partita (2014), sia in forma di indirette contaminazioni e suggestioni che riecheggiano nella concezione di Terzopoulos dello spazio scenico e di un linguaggio macerato, afasico, frammentato persino in singoli morfemi o capace di erompere in un torrente verbale.
“Niente, niente, niente! […] L’uomo è un niente, niente, niente…”. Così comincia questo Aspettando Godot di Terzopoulos, e quasi allo stesso modo comincia il testo di Beckett, se non fosse che l’originario “niente da fare” pronunciato da Estragone, preludio velato a quella finestra sul nulla che è l’opera di Beckett ma qui ancora riferito al tentativo inutile di sfilarsi il suo logoro scarpone, è raccolto e amplificato da Terzopoulos attraverso un efficace accorgimento retorico: la reiterazione insistita da parte di Vladimiro e Estragone, a una o a due voci, di quel “niente” che si fa subito, dalla prima scena, parola-macigno, questione ontologica. Sono dettagli minimi, certo, ma indizi preziosi di una precisa cifra poetica del regista greco che, pur rimanendo rigorosamente aderente al dettato beckettiano, ne dispiega le potenzialità ermeneutiche, lo apre a nuovi significati. Ben noto è il caso di Pierre Menard, lo scrittore protagonista eponimo del racconto di Borges ambientato fra il XIX e il XX secolo, che riscrive parola per parola e riga per riga alcuni capitoli del Don Chisciotte di Cervantes. Eppure, racconta Borges, nonostante l’apparenza di due testi perfettamente identici, è evidente che Menard riscrive l’opera in un altro tempo, in un altro spazio e da una prospettiva del tutto diversa, che è quella di un francese del ventesimo secolo. Il caso di Menard è certo paradossale, ma sembra proprio rimandare a quell’estremo rigore con cui Terzopoulos, nel distillare le parole di Beckett, al contempo ne aggiorna e amplifica gli effetti di senso lavorando sugli altri codici scenici, maneggiando con maestria gli strumenti del teatro che da sempre contraddistinguono la sua singolare ricerca artistica: i modi in cui quelle stesse parole vengono pronunciate, la grammatica del respiro che le blocca o le genera, i corpi e le posture degli attori, la perfetta geometria dello spazio scenico, condivisa per molto tempo con l’amico Jannis Kounellis che tante sue scenografie ha ideato in passato, fino all’ultima installazione delle Troiane del 2017 che il maestro indiscusso dell’arte povera non ha fatto in tempo a vedere realizzata.
Ed ecco che Vladimiro ed Estragone, con il loro dolce dir niente inceppato intorno all’inutile attesa, si ritrovano incastrati all’interno di una raffinata e asfittica installazione vivente: un’enorme scatola-trappola nera composta da quattro pannelli quadrati che, scorrendo in orizzontale e in verticale, modellano una croce luminosa e man mano scoprono, o piuttosto rigurgitano dal buio come fossero incubi, gli altri personaggi. E al famoso salice piangente di Beckett, qui posto in prossimità del proscenio e ridotto a potente citazione bonsai, si affiancano ora coltelli insanguinati, scarpe – oggetti feticcio del teatro di Terzopoulos – e libri dalle pagine sporche di sangue, forse lo stesso sangue che macchia il viso e i corpi dei personaggi e, metaforicamente, suggella la personalissima rilettura di Terzopoulos e la fatica degli attori. L’architettura scenica si aggiunge di fatto al testo di Beckett come nuovo personaggio, che contiene, divora e vomita tutti: ognuno ha addosso la propria croce, ognuno è dentro la propria croce, senza che ci sia alcun barlume di redenzione o speranza. E che non possa esserci salvezza per Vladimiro ed Estragone, che a loro siano negati ogni anelito alla trascendenza e ogni aspettativa teleologica, pure insiti nella verticalità della croce, lo rivela proprio il loro permanere inesorabile, per quasi l’intera durata del dramma, in posizione sdraiata e compressa lungo l’asse orizzontale di quella croce.
In questo tempo sospeso e disossato, in questo spazio autistico che non rimanda a niente, i due ammazzano il tempo puntellando con stupore gli sproloqui sinistri e non più comici di Pozzo, e quelli autistici, proprio come lo spazio che li contiene, degli altri due personaggi, il Ragazzo, messaggero di Godot, e Lucky. Ed è proprio per Lucky, chiuso in un inumano mutismo per quasi tutto il dramma, che già Beckett aveva concepito un improvviso profluvio verbale, il prorompere di quella che Arthur Frank nel suo Il narratore ferito – un classico della medicina narrativa finalmente tradotto in Italia da Christian Delorenzo per Einaudi – chiamerebbe una “storia del caos”, una dis-narrazione o anti-narrazione incontrollata e senza via d’uscita, una coazione a ripetere e a esprimersi per frammenti. “La narrazione caotica, scrive Frank con parole che potrebbero essere di Terzopoulos, oltre che di Beckett, è quella maggiormente radicata nel corpo. Le parole girano attorno alla ferita, e girano pure attorno a sé stesse, senza essere in grado di penetrare né di illuminare il silenzio del caos. […] Non si scende a patti con la narrazione caotica: non c’è via d’uscita. Anche la relazione con l’altro è costellata d’insuccessi” (pp. 100-101).
E mentre Lucky e ‘gli altri’ compaiono, farneticano e scompaiono, Vladimiro ed Estragone, barboni innocenti e strampalati rannicchiati in orizzontale nella fogna infera a forma di croce, parlano e si spulciano con una tenerezza senza riserve e del tutto inedita rispetto al sotteso antagonismo di due brontoloni a cui Beckett ci aveva abituati, suscitando commozione specie nei punti dello spettacolo in cui inevitabile è l’intreccio fra il vincolo rassegnato e indissolubile che lega i due protagonisti e la biografia artistica della superlativa coppia di attori che li interpretano (“Estragone: Didì. / Vladimiro: Sì. / Estragone: Non posso più andare avanti così. / Vladimiro: Sono cose che si dicono. / Estragone: Se provassimo a lasciarci? Forse le cose andrebbero meglio”).
Commuove e sgomenta questo impeccabile allestimento di Beckett, per la coesione e la bravura di tutto il cast, come pure per le tracce sonore di Panayiotis Velianitis, che vanno dallo struggimento delle note di un bandoneòn fino alle altezze corali di un Agnus Dei, anch’esse elemento dialettico essenziale, come lo spazio scenico, per ribadire la vanità dell’attesa e l’impossibilità di ogni teleologia (in perfetto contrappunto con il “miserere nobis” dell’Agnus Dei).
Ci si commuove, si diceva, in questo lavoro di Terzopoulos, ma non si ride quasi più. Ridono molto Vladimiro ed Estragone, ma il loro è un ridere disperato, nevrotico, che strugge. Anche i passaggi più comici del testo – di un riso certamente grottesco e tragico, beckettiano appunto – derivanti da gag, clownerie, sfasature semantiche e qui pro quo spiazzanti, assumono ora in scena una disarmante valenza tragica. Il regista greco lavora per distillazione e il nichilismo grottesco di Beckett è filtrato in nichilismo puro, in sospesa interrogazione ontologica. Come sospesi, immobili e accovacciati dolcemente l’uno sull’altro rimangono fino alla fine Didì e Gogò, in quella orizzontalità che pregiudica e annulla ogni movimento, nonostante le loro ultime parole siano autentici atti linguistici, enunciati performativi, come li chiama John Austin nel suo Come fare cose con le parole (trad. it. Carla Villata, Marietti, 1987), cioè parole che non solo dicono, ma fanno qualcosa, che dovrebbero produrre degli esiti, innescare delle azioni, a meno che non ci siano cause o condizioni di “infelicità” che portano al fallimento dell’enunciato performativo, rendendolo un “colpo a vuoto”, e quindi nullo, incompiuto e senza effetto. “Colpi a vuoto” proprio nel senso di Austin, parole pronunciate nell’immobilità assoluta seppure indichino azioni, sono le ultime, struggenti battute di Valdimiro e Estragone: “Vladimiro: C’impiccheremo domani. A meno che Godot non venga. / Estragone: E se viene? / Vladimiro: Saremo salvati. / Estragone: Allora andiamo? / Vladimiro: Le braghe. / Estragone: Come? / Vladimiro: Le braghe. / Estragone: Vuoi le mie braghe? / Vladimiro: Tirati su le braghe. / Estragone: Già, è vero. / Vladimiro: Allora andiamo? / Estragone: Andiamo”.
La scatola-gabbia si chiude per l’ultima volta lasciandoli lì, quasi riconciliati con sé stessi. Se si volesse trovare un barlume di ottimismo, forse lo si potrebbe trovare proprio nel loro ‘stare’, in un atemporale esercizio di sopravvivenza e nella rinuncia definitiva a ogni inutile attesa.
Le fotografie sono di Johanna Weber.