Tintoretto, Deposizione
La tragedia è conclusa. Tutti gli eventi che hanno preceduto o accompagnato il suo apice sono dimenticati: i soldati se ne sono andati, i ladroni lasciati agli avvoltoi sulle loro croci, la gentaglia che si bea di questi atroci spettacoli è scesa in città commentando gli eventi, alcuni ne sono rimasti sconvolti e si sono convertiti, le autorità sono soddisfatte, gli amici e i parenti restano soli, affranti, squassati dal dolore. Le parole sono finite, restano solo il pianto, l’urlo, la disperazione infinita. Forse qualcuno indugia ancora nei paraggi a girovagare, forse in lontananza sparuti drappelli sono ancora per strada, qualche luce arriva dalla città, e, sopra, il cielo è ancora cupo e lascia filtrare solo una luce livida, funerea come ciò che è appena accaduto, ma qui non si vede nulla. Il pittore, di solito prodigo di scene ampie, spettacolari, ricchissime di episodi e personaggi, stavolta li ha lasciati tutti da parte e ha concentrato il suo sguardo, il nostro, solo sul gruppo del suppliziato e dei sopravvissuti.
È la Deposizione del Tintoretto, un’opera di grandi dimensioni (227x294) dipinta nella piena maturità dell’artista nato nel 1519, probabilmente per l’altare maggiore di Santa Maria dell’Umiltà nel 1562, e ora visibile fino al 25 maggio al Museo diocesano di Milano in trasferta dalle veneziane Gallerie dell’Accademia.
A guardarla, sembra un fermo immagine che immobilizza una serie di azioni che hanno una lunga storia alle spalle e forse nessuna davanti. Lo spazio è quasi totalmente occupato, e come saturato, da cinque figure disposte lungo due diagonali parallele, ma non simmetriche né rigide, animate, pittoricamente, dalla stesura dinamica del colore, dai panneggi, e da posture e movimenti divergenti, come avviene sempre in Tintoretto. La prima diagonale è composta dai corpi di due uomini, uno seminudo, morto, l’altro che lo regge, impedendogli di cadere dal sostegno precario delle gambe di una donna svenuta che segna il punto di partenza ascendente della seconda diagonale, che continua con altre due donne, una che abbraccia quella svenuta, l’altra che si piega verso il cadavere allargando le braccia in un gesto che esprime di solito sgomento disperato ma qui sembra anche cingere e avviluppare il gruppo sottostante, come a proteggerlo.

La scena è teatrale, drammatica, la vista ravvicinata accentua l’impatto già intenso. La composizione è chiusa su se stessa, niente interpella direttamente il devoto spettatore, che proprio per questo è attratto dall’apparente totale estraneità di ciò che viene rappresentato, dalla sua autosufficienza che gli si offre come ciò che più lo riguarda nell’atto stesso di escluderlo. Gli sguardi dei personaggi sono rivolti in direzioni differenti: ognuno guarda un altro che non gli risponde, preso dalla propria cura, come differente, complementare, è la cecità di Cristo e della Madre, così che l’insieme delle possibili variazioni vada a comporre una totalità armonica. A consolidare questo senso di completezza autonoma, concorrono anche altri parallelismi (le due coppie di piedi sovrapposti del cadavere e della donna che regge la donna in deliquio; il braccio di questa abbandonato verso terra come quello del figlio), riprese di dettagli e motivi (la croce che sembra nascere dal punto in cui si incontrano i corpi della Madre e del Figlio, che a loro volta ne formano un’altra, una di carne, in cui lei sembra nascere dal corpo morto di colui che è nato dal suo grembo) e di colori (i rossi, i blu, l’oro dei capelli…)
Nella composizione claustrofobica, con i corpi quasi compressi in uno spazio di asfissia, come quella che è sopraggiunta alla Madonna facendola svenire, le figure sembrano immobili, sospese al colmo di un movimento che ancora le pervade, incluso il solo gesto plateale ma non scomposto delle braccia che pure riecheggia la forma della croce della Maddalena, che si piega verso il volto del suo amato quasi a baciare le sue labbra, l’unica parte del viso, eccetto un angolo della fronte, a non essere in ombra.
Cristo, in equilibrio instabile nonostante sia sostenuto per le spalle da un nerboruto Giuseppe d’Arimatea, poggia malamente, quasi senza peso, sulla gamba destra, quella esterna, della Madonna, che a sua volta cadrebbe alla propria sinistra se non fosse teneramente sostenuta da Maria di Cleofa (pare: ma lo adotto in memoria di mia mamma che si chiamava col nome poco comune di Maria Cleofe: per tutti solo Cleofe, e ne aveva la stessa tranquilla dolcezza), che china la testa verso di lei con sguardo dolcissimo e apprensivo, in perfetta ma non meccanica simmetria alla testa della Maddalena, lungo una stessa diagonale che continua in quella di Maria, il cui corpo esangue ripete la morte del figlio, il volto e le mani, specie la sinistra, cinerei, lividi, la bocca socchiusa come gli occhi (quasi un preannuncio della Santa Teresa del Bernini, ma senza la sua sensualità a causa dell’angolo del capo che pesa sull’avambraccio di Maria di Cleofa), come quella del Figlio, un po’ più aperta però, come se avesse cercato l’aria più a lungo e fosse rappresentato nello spasimo di chi l’ha ormai persa per sempre assieme alla vita, mentre la memoria del corpo sembra continuare a cercarla ancora, con un ultimo residuo di autonomia (e questo lo dico in memoria degli ultimi giorni di mio papà, che non finiva mai di cercarla furiosamente trovando solo quel poco che bastava a prolungare gli spasmi dell’agonia).

A parte, in un primo tempo, la Madonna, tragica e serena, e la bellezza dei colori (tutti, non solo i blu e i rossi e i grigi…), a colpirmi di più nella grande composizione è però la meravigliosa Maddalena dai lunghi capelli biondi intrecciati a formare una crocchia che si estende a tutto il capo in spighe d’oro abbaglianti, le guance rosee, le carni sode e splendenti come quelle di altre eroine meno drammatiche tipiche del pittore veneziano, incarnazione della bellezza della vita, del suo irresistibile richiamo.

Con la corona di luce che circonda il capo di Cristo e che circonfonde anche la sua, quei capelli sono il punto più luminoso del gruppo, che si staglia su uno sfondo cupo che solo la terza luce sulla sinistra squarcia con il suo bagliore biancoazzurro, che si diffonde sul paesaggio, sui piccoli borghi che punteggiano le colline in lontananza, mentre sulla destra la macchia degli alberi resta fosca e impenetrabile. Più fioca, ma ancora viva. Forse l’annuncio simbolico di un’alba, più che lo svanire nel buio del crepuscolo in cui accadono gli eventi rappresentati.
Tintoretto vuole provocare nello spettatore una reazione forte, quasi uno shock, ma questo invece di respingerlo, per la costruzione stessa dell’immagine lo attira fino a farlo sprofondare in essa. L’impatto è molto intenso, l’adesione, da parte del fedele, ma non solo, totale. La scena si impone per la sua prossimità, ma anche, si direbbe, per la brutalità dell’emozione che suscita. Il gruppo delle figure, nonostante il movimento dei gesti e delle posture, è tanto compatto da non consentire a nient’altro di filtrare. È una composizione quasi in apnea: o almeno, è questa compattezza che rischia di soffocare lo spettatore, risucchiato nel suo spazio, a rischio dello stesso svenimento di cui è preda la Madre.
I due piccoli paesaggi in alto ai lati, uno più scuro, l’altro in cui balugina una luce crepuscolare, sono aggiunti a posteriori, come ha evidenziato il recente restauro, forse per offrire delle vie di fuga allo sguardo, per alleviare la dolorosa concentrazione sul gruppo centrale, già così opprimente di per sé, perché la proiezione e la meditazione dolorosa hanno bisogno anche di sapere, o meglio di immaginare, di sperare, che il dolore della perdita sarà alleviato, che per quanto grande e intenso possa essere il sentimento provato, non sarà definitivo, senza sbocco, sigillato a consumarsi su se stesso come l’aria che manca alla Madre e è spirata dalle labbra socchiuse del Figlio morto.
In realtà l’aggiunta non ha sacrificato la forza dell’impatto, la concentrazione assoluta sulla morte e i suoi devastanti effetti, ma nasce dalla comprensione (da parte dell’autore o di chi ha operato l’aggiunta), a opera compiuta, che è proprio dall’intensità della constatazione della tragedia, della sua fattualità ineludibile, che può prendere senso l’affiorare della luce, che salvi dall’oppressione in apparenza invincibile, definitiva, che il fulcro del quadro produce sul devoto.
Perché, non appena, a fatica, ci si sottrae alle panie dell’empatia, alla pena e alla consolazione del sentirsi umani di fronte al dolore, è solo un uomo morto che si offre allo sguardo. Un uomo tra i tanti che sono morti, e muoiono innocenti, ovunque, anche negli stessi luoghi in cui è vissuto e morto lui, con attorno, disperati, la madre e i famigliari, gli amici, che niente e nessuno potrà consolare. Il corpo è bellissimo, pur con le tracce dello strazio subito bene in vista; ma potrebbe anche essere intatto, o sgraziato, che nulla cambierebbe. Sgraziati, senza grazie e senza grazia, restano tutti, perché la grazia è solo dei viventi. I morti non sono nulla, sono solo le ferite che la loro scomparsa infligge, come quelle che si offrono alla meditazione su ciò che attraverso gli occhi trafigge la nostra mente; sono solo il vuoto che lasciano. Poi c’è la speranza. E questa morte, per molti, della speranza è il massimo simbolo. È la speranza stessa che si offre come cibo a chi ha fede. Il dolore troverà consolazione, finirà. La ferita si rimarginerà, il corpo tornerà vivo, per sempre glorioso. E tutti sperano che così possa essere anche per loro. Che il cielo squarciato si ricomponga, il sepolcro si apra, la vita illumini gli occhi di nuovo aperti per finalmente vedere la vera luce, infinita e immortale.
Attorno a Tintoretto. La Deposizione. Quattro artisti contemporanei sfidati da un capolavoro è visitabile presso il Museo Diocesano di Milano fino al 25-05-2025. La mostra, curata da G. Frangi, G. Manieri Elia, N. Righi, riprende una formula collaudata che prevede il dialogo del capolavoro con quattro opere di artisti contemporanei – Jacopo Benassi, Luca Bertolo, Alberto Gianfreda e Maria Elisabetta Novello – impegnati sullo stesso tema, presentate in un percorso espositivo e con un ricco apparato critico che consente una lettura autonoma di ciascuna e delle complesse relazioni con la grande tela del Tintoretto. Il catalogo Tintoretto. La Deposizione, pubblicato da Dario Cimorelli editore, è ricco di ulteriori approfondimenti grazie ai saggi molto belli e ricchi di analisi storiche tecniche e teologiche soprattutto ad opera dei tre curatori, gli stessi della mostra, a cui si rimanda anche per molte delle osservazioni del testo qui presentato.
Leggi anche:
Luigi Grazioli, La Resurrezione, di Piero della Francesca
