Frank Westerman: telescopi, navicelle e astronauti
Poche settimane fa un lander russo si è tristemente schiantato contro il polo sud della luna, che doveva raggiungere alla ricerca di ghiaccio e altre risorse in vista della creazione di una base per ulteriori lanci nello spazio e per un eventuale sfruttamento minerario. Il fallimento sarebbe dovuto anche all’errata impostazione delle coordinate per i comandi di inserimento nell’orbita lunare, dalla quale poi passare con maggior sicurezza alla fase dell’allunaggio. Pochi giorni dopo, l’operazione è invece riuscita a una navicella indiana, mentre la Cina sta già effettuando esperimenti di coltivazione da qualche parte sul lato oscuro. Sempre a far le cose di nascosto! Non sarà un fallimento che fermerà le potenze mondiali nella corsa alla conquista dello spazio. Del resto quello attorno alla terra è già ampiamente colonizzato da miriadi di satelliti e di catorci non più funzionanti, se non come minaccia di cascare prima o poi sulle nostre teste, e altri stanno esplorando il suolo di pianeti vicini, mentre altri ancora, Voyager 1 e 2, partiti decenni fa, hanno lasciato il sistema solare e ora vagano nello spazio interstellare nella speranza che qualcuno li intercetti e sappia decifrare la tecnologia e i messaggi che trasportano, nonché credere alle belle favole sull’uomo, senza “fame e povertà, dolore e malattia, morte e sopraffazione”, che raccontano. Gente evoluta ma ingenua. Così avanzata da nemmeno concepire la reticenza e la menzogna.
Con Copernico e Galileo l’uomo ha perso la centralità nel creato, ma l’ampliamento di questo ha indotto a non escludere che altre specie vivano chissà dove, secondo il noto paradosso di Fermi. Abbandonati nello spazio infinito, ci sentiamo orfani e soli, e forse è anche questa solitudine che speriamo di colmare attraverso lo studio e la perlustrazione dell’immensità del cosmo. Guardiamo il cielo da sempre, e da sempre lo popoliamo praticamente di tutto e sogniamo di raggiungerlo. La recente consapevolezza che il nostro soggiorno sulla terra è a termine, un termine che peraltro ci stiamo impegnando ad accelerare con la nostra indefessa operosità, ha reso ancor più urgente il desiderio di trovare altre case nel cielo, più abitabili di quelle dello zodiaco. Grandezza della nostra specie! Abbiamo guardato, siamo rimasti incantati e sgomenti, abbiamo sognato, e poi studiato, e poi qualcosa capito e negli ultimi decenni qualcosina anche fatto. E continuiamo, non scoraggiati dai fallimenti e entusiasti per ogni nuova scoperta. La conoscenza è tutto, per alcuni. La volontà di dominio e la concorrenza letteralmente senza confini lo è per altri, invece.
Frank Westerman nel suo ultimo libro, La commedia cosmica (trad. it. C. Cozzi, Iperborea, 2023), racconta la storia di queste scoperte e della corsa a mettere bandiere su altri suoli. Lo fa non con una ricostruzione lineare e oggettiva, scientifica o storiografica, ma sotto la peculiare forma di tutti i suoi libri che intrecciano reportage narrativo, saggio e memoir, muovendo sempre da ricordi della sua infanzia e giovinezza risvegliati da notizie, eventi o scoperte anche marginali ma che vanno a toccare punti nodali del mondo contemporaneo. All’oggetto principale dell’inchiesta si alternano così, contribuendo in modo decisivo alla sua comprensione, ricordi personali di scuola amori viaggi e incontri, e la rievocazione di momenti gloriosi, ma spesso anche bui della storia olandese e occidentale e delle loro conseguenze e ripercussioni attuali: colonialismo, nazismo, deportazioni, terrorismo, orrori di ogni genere e misura, non ultimi quelli dovuti alla religione e alle sue gerarchie, che Westerman, ateo e anticlericale (la sostituzione di “cosmica” a “divina” del titolo ne è la spia), non si fa scrupolo di denunciare dettagliatamente.
In La commedia cosmica i punti di partenza sono un flirt adolescenziale nel buio dell’osservatorio del liceo, un professore che trasmette la passione per l’astronomia, che nella cultura olandese ha una lunga storia che Westerman ricostruisce anche attraverso figure poco note ma affascinanti (così come poi segue le tracce delle scoperte astronomiche in giro per l’Europa e in particolare nell’Italia di Galileo e di Schiaparelli, a Venezia, Firenze, Milano, fino a Torino, dove stanno lavorando a moduli per le agenzie spaziali italiana e europea, o visitando i cosmodromi della Russia, oggi in Kazakistan, e meno famoso noto dell’India, a Thumba Beach, dalla storia incantevole), e la vicinanza a un luogo dalla fortissima pregnanza storica e simbolica come Westerbork. Lì nel 1939 venne eretto un campo di internamento per profughi, che l’anno successivo gli invasori nazisti trasformarono in centro di smistamento da dove 102.000 ebrei, tra cui Anna Frank e Etty Hillesum, furono inviati ai lager e alle camere a gas soprattutto di Auschwitz e Sobibor (le pagine che narrano della Namenlezen, cioè la lettura ininterrotta per 6 giorni di tutti i 102.000 nomi dei deportati che termina il 27 gennaio, giorno della memoria, sono tra le più commoventi, e irate, del libro).
Abbandonato alla fine della guerra, il campo, dopo l’indipendenza dell’Indonesia a cavallo degli anni ‘40-’50, fu convertito in alloggio per le famiglie dei soldati molucchesi che avevano deciso di restare nell’esercito olandese, dove si formarono i giovani che negli anni ’70 furono i protagonisti della prima stagione terroristica nei Paesi Bassi (le cui vicende sono raccontate, tra l’altro, nel bellissimo I soldati delle parole, trad. it. di Franco Paris, Iperborea 2015), per diventare infine la sede dove nel 1970 sorse il primo grande radiotelescopio. Questo fu successivamente ampliato a una serie di 14 grandi antenne a cui si affiancò dal 2012 il nuovo sistema LOFAR di migliaia di piccole antenne coordinate tra loro da grandi sistemi informatici a loro volta in relazione con altri sistemi simili sparsi per il mondo: esempio eccezionale di cooperazione scientifica che ritroviamo anche nella costruzione e gestione dell’ISS (Stazione spaziale internazionale). Una cooperazione che tuttavia non sempre regge il peso dei conflitti internazionali, come dimostra l’insuccesso dell'allunaggio russo dovuto anche, sembra, a una deficitaria comunicazione da parte di altri centri spaziali, dopo l’invasione dell’Ucraina, della loro parte dei complicatissimi dati necessari alle operazioni di allunaggio.
L’utopia che proiettiamo nello spazio, ci mostra a più riprese Westerman, rischia ad ogni momento di riprodurre le stesse perverse meccaniche dei rapporti terrestri. “Quante sono le probabilità che, armati delle migliori intenzioni, non creiamo in cielo un nuovo inferno? Nel più probabile scenario del futuro, su Marte ci troveremo davanti noi stessi.” L’astronautica è nata dalla rivalità tra le superpotenze e “non c’è nessuna garanzia che le future colonie spaziali rimarranno senza armi” e che il sistema solare non diventi a sua volta un immenso campo di battaglia, dando “inizio a una nuova era coloniale”.
Poi però viene a rincuorarci la notizia che la prima fotografia di un buco nero, che si trova “al centro della galassia supergigante Virgo A […] lontano 55 milioni di anni luce dalla Terra” e ha la massa di 6,5 miliardi di Soli, è stata realizzata grazie al “progetto internazionale Event Horizon Telescope (Eht) e [al]la stretta collaborazione di oltre duecento ricercatori in tutto il mondo” (E. Vaudo, Mirabilis, Einaudi 2023 p. 75). A leggere di queste conquiste, come di tante altre che racconta Westerman, lo sgomento e la meraviglia, la sensazione (la certezza) della propria insignificanza e insieme l’orgoglio per ciò che gli uomini sono capaci di realizzare si susseguono fino a diventare indistinguibili, e a momenti così intensi che ci si affretta a dimenticarli.
Davanti a questa miscela spaventevole e esaltante niente ci differenzia dai primi studiosi che nei loro rudimentali telescopi videro il cielo ampliarsi e cambiare forma a conferma delle nuove teorie copernicane e galileiane che sconvolsero sicurezze millenarie, rinnovando gli stessi interrogativi elementari, e dunque fondamentali, di cui da sempre “gli adolescenti potrebbero parlare all’infinito, ma [che purtroppo] una volta scomparsi i brufoli la maggior parte smette di far[si]”. Proprio ciò che lo scrittore olandese rifiuta, tanto da metterli appunto per questo a fondamento delle sue ricerche. Perché se è vero che “vogliamo sapere da dove veniamo”, e dove andiamo o vorremmo andare, lo è altrettanto che “preferiamo ignorare quello che siamo diventati” (Noi umani, trad. it. di E. Svaluto Moreolo, Iperborea 2022), che è invece ciò che lui pensa valga maggiormente la pena di capire, senza farsi troppe illusioni o concessioni, e anzi partendo dal “momento in cui il sogno si trasforma in incubo. Scrivendo, dice Westerman, inseguo la verità alla ricerca di microfessure. In tutto ciò che fanno gli esseri umani qualcosa, prima o poi, va storto, ma dove e quando compaiono le prime crepe? … amo gli sforzi umani, più ancora quando tendono all’impossibile, sono inadeguati” come scrive nel recente Dittico idraulico (ed. or 2021, trad. it. Claudia Cozzi, Wetlands, 2022)
Ci interessa lo spazio perché ci interessa sapere come siamo, e quanto più lontano andiamo, tanto più ci sembra di scoprire qualcosa di noi, non necessariamente gratificante, che ignoravamo ci appartenesse. Nello specchio della lontananza ci vediamo da vicino. L’astronomo e il cosmonauta sono gli eroi di questo viaggio, il primo “umile” e “guidato dalla meraviglia”, il secondo “pieno di audacia” e mosso “dal desiderio”.
Westerman dialoga con tutti, di tutti riporta parole e riflessioni, ma non prende quasi mai una posizione esplicita sulle questioni più importanti che la narrazione e l’inchiesta suscitano, o che stanno alla loro origine, ma si avverte chiaramente lo scetticismo di fondo della sua voce, la piega disincantata di chi ha avuto modo di incrociare molti eventi e molte versioni e punti di vista. Tanto più in quanto ancora si meraviglia per le cose belle e per gli impulsi più alti e nobili, e ammira chi cerca di realizzarli o di improntare su di essi la propria vita, ma poi non si aspetta niente di positivo per ciò che verrà, a dispetto di tutte le migliori intenzioni, e in fondo è anche deluso da se stesso perché, quei nobili valori, lui vorrebbe ma razionalmente si rende conto che non riesce a farli propri assoggettandosi ad essi senza pretendere nulla per sé. Per cui si rassegna a guardare, a cercare, incontrare persone, a frequentare convegni, e a riflettere, ricordare, portare alla luce e a conoscenza degli altri, e insomma a raccontare. E a raccontarsi. A raccontare a sé e agli altri.
“Il cinismo era la vistosa maschera dell’impotenza”, dice di sé Westerman in relazione a un suo reportage dalla Cecenia (I soldati delle parole, p. 114); tuttavia “vedere ciò che gli altri non vedono, per poi raccontarlo” è la strada a cui non ha mai rinunciato. Sia rispetto agli orrori di guerre e attentati, sia di fronte all’inesauribile incanto dell’universo.
Per lui, come per il lettore, è sempre come passeggiare nella vertigine; ad ogni notizia, ad ogni numero pronunciabile ma enorme, impensabile, il ritmo del fiato ha un sussulto, gli occhi vanno oltre la pagina con riflesso automatico alla ricerca di un appiglio, il corpo sembra fluttuare in un’atmosfera impalpabile; poi il tran tran dell’infinito riprende il suo confortevole corso.
Per fortuna Westerman viene in soccorso con aneddoti, storie di scienza e di scienziati e personali, descrizioni di luoghi e incontri con personaggi di ogni sorta. Gente straordinaria, ammirevole, a volte un po’ strana, ma in fondo come noi, solo con qualche piccola differenza, come ciascuno di noi rispetto a tutti gli altri, e questo è rassicurante. Tutto si appiana, e si ritrova un respiro regolare. Il buco nero al centro della galassia Virgo A non ha più niente di inquietante: è solo una bella immagine che immaginiamo di capire. Almeno un po’. Il resto se lo prende la meraviglia. Tutto galleggia nel mistero.