Il nome della rosa alla Scala

28 Aprile 2025

In prima rappresentazione mondiale è andata in scena alla Scala di Milano la nuova opera di Francesco Filidei, Il nome della rosa, su libretto tratto dal romanzo di Umberto Eco. Prodotta dal Teatro alla Scala e dall’Opéra National de Paris, in coproduzione con il Carlo Felice di Genova, l’opera, diretta da Ingo Metzmacher, vede la regia di Damiano Michieletto e le scene di Paolo Fantin, coppia consolidata del panorama operistico e teatrale internazionale. 

Il romanzo di Eco è un contenitore di generi narrativi per antonomasia e la rappresentazione scaligera è un’occasione troppo ghiotta per lasciarsi sfuggire una riflessione sul passaggio dalla pagina alla scena. Non possiamo che partire dal rapporto con il passato, ovvero la dinamica tra interpretazione e sovrainterpretazione di un periodo della nostra civiltà tra i più abusati e riutilizzati a fini ideologici: i secoli bui. È anche grazie a Umberto Eco, non solo il romanziere ma l’autore di quel piccolo gioiello che è Dieci modi di sognare il medioevo (oggi in Scritti sul pensiero medievale), che oggi sappiamo tutti che l’evo di mezzo non fu certo illuminato come i boulevards parigini di fine Ottocento, ma nemmeno un periodo più cupo di qualsiasi altro evo della storia umana. Il fatto è che gli stereotipi gravano come non mai sull’evo di mezzo, a partire dal millennio stesso, perché di questo si tratta e non di un secolo, per giungere sino a notare come non passi giorno che per rappresentare catastrofi prossime venture, dai crolli in borsa alle pandemie, non si trovi di meglio che etichettarle come “ritorno al medioevo”. Perché? Probabilmente perché l’età di mezzo è il contenitore in grado di contenere le nostre paure di un avvenire quantomai incerto, esorcizzandole in un passato tanto vago da farle entrare tutte. 

nome della rosa

Metterne in scena la trasfigurazione labirintica e trasporla nel contenitore del teatro d’opera facendola parlare al secolo XXI è davvero un’impresa. Filidei vi riesce mantenendosi sempre sul confine tra apertura e chiusura di un universo, che si squaderna su un mondo chiuso, per poi riaprirsi di continuo: medioevo presunto e reale, medioevo storico ed evocato, romanzato e oggettivato, al cinema e nelle serie fantasy, novecentista e contemporaneo, pauperista e reazionario. Sta allo spettatore decidere da che parte guardare della profondità interpretativa nella quale si trova immerso. A teatro, la ricostruzione realistica del film (o della serie), viene messa da parte. Sino dal sipario su quella ormai famosa mattina di novembre in cui aveva nevicato un poco, non si arriva per vie tortuose a un’abbazia racchiusa tra le sue mura, come gli insormontabili articoli di una Summa di teologia, che si para dinnanzi allo spettatore passivo e intimorito dalla sua maestosità. Ci si muove piuttosto su un altro livello, quello delle allusioni e delle immagini che esse portano con sé, dalle evocazioni alle metafore, alle analogie. 

Nel rispetto del dettato shakespeariano del teatro in grado di far entrare «all’interno delle sue strette pareti tutte le campagne di Francia» (Enrico V), si entra subito in un medioevo che è fedele proprio perché evocato nella sua intimità corale. Eccoci immersi nella sua luce, sulla scena, che da sola basta a sfatare i secoli bui, pregiudizio al quale nemmeno la sagacia di Baskerville nel film di Annaud era riuscito a sottrarsi. Questo è un medioevo colorato a tinte sature, o bianco, come le voci che accompagnano il coro in scena. Subito si apre una sana ambiguità interpretativa che caratterizzerà l’unità aperta dell’opera. Il piano sovrannaturale, per esempio, è reso con una enorme statua della Vergine, colorata come un’orifiamma o un libro d’ore dipinte da un van Eyck, che quasi si ribalta sulla scena del mondo. Tra le sue braccia si rifugia Adso, alla continua ricerca di Sé. Il senso del mondo terreno, in termini medievali la potentia Dei ordinata, srotola invece le sue leggi tra i segni dei capilettera parlanti dei libri, bianchi anch’essi, e sospesi tra l’apertura delle iscrizioni a venire e la chiusura del non potervi accedere. La stessa ambiguità spicca anche sulle barelle, povere e coperte da lenzuoli, delle vittime della follia censoria imposta dal totalitarismo dell’unica lettura della Storia. Così avviene che, ricco di richiami all’arte di Bacon e di Beuys, come al teatro di Grotowski e Kantor, è in questo modo che l’allestimento richiama un Novecento sospeso tra ortodossia ed eterodossia, e che culminerà nel finale con le barelle sovrastate da un onnipresente Jorge da Burgos. 

Statua Madonna

Come i portali delle cattedrali medievali, la scena racconta la storia e ne è, insieme, personaggio: più che essere sfondo, la presenza del coro evoca e coglie appieno la dimensione collettiva del vivere. Siamo dentro a un cosmo parlante, nel quale i riferimenti sono simboli di cui si avverte l’essenza, e che non hanno bisogno di essere rievocati in modo didascalico o attraverso un fermo immagine fatto di citazioni, spadoni, castelli turriti, fatine e roghi. Nemmeno abbiamo più bisogno di essere accompagnati da un detective da sfidare per la soluzione dell’intreccio del mondo. Gettati su una terra che perde regole e pezzi giorno dopo giorno, siamo tutti incerti. In modo del tutto medievale, la prospettiva tra illusione e realtà dell’esistenza s’inverte. Il reale è illusorio al punto tale che, senza il teatro, unica e vera sacra rappresentazione, non possederemmo più nemmeno le coordinate per dare senso ai nomina nuda. Questo è l’oggi del Nome della Rosa di Filidei. 

Sopra la scena aleggiano i leggeri drappi bianchi di un labirinto bianco, luminoso, evanescente che ci affida più alla forza contingente dei ragionevoli dubbi che a quella di una ragione monolitica. Il coro lo circonda senza riuscire mai a chiuderlo del tutto. È questa esperienza dell’opera che fa vivere il romanzo. Nel suo essere una metafora epistemologica, il labirinto di Il nome della rosa è per definizione una molteplicità di percorsi, di letture possibili, che si intrecciano senza mai dare per scontato un'unica via di accesso alla verità. Il labirinto è una struttura aperta che regola il flusso di informazioni, costruendo relazioni tra i segni e la realtà, contenendo e, al contempo, rivelando al pubblico il rischio di una distorsione interpretativa.

Una scena

Ogni adattamento porta con sé un momento di selezione, una responsabilità nei confronti dell’autore e della musica. La fedeltà si misura nella condivisione con lo spettatore del richiamo visivo alle scritture, quella musicale che costituisce il richiamo diretto, e quella del romanzo, a sua volta evocata in modo derivato rispetto a una significazione diretta. Prendiamo il caso di Berengario. Vicebibliotecario dell’abbazia, è uno dei pochi monaci che conoscono i passaggi nascosti e l'organizzazione di una biblioteca che è proibito frequentare senza permesso. Questo lo rende sia custode sia prigioniero di un sapere che, se osato oltre misura, può essere pericoloso. Berengario sostiene di non essere stato l’ultimo a vedere Adelmo vivo, ma il primo ad averne trovato il corpo. Da questa ammissione, che marca una deviazione rispetto all’ordine del mondo e dei suoi saperi costituiti in leggi, nasce la progressiva caduta del personaggio. Un precipitare amplificato dalla scrittura musicale, che traduce in suono il tentativo di mantenersi in equilibrio tra la certezza della condanna e il desiderio umano di affermare il sapere attraverso il libero uso della parola. Una libertà che va affermata anche a rischio di portare le parole quasi a spezzarsi. Così, l’aria di Berengario cresce senza fine sino a sfociare quasi in frammenti di canto: uno iubilus in bilico, manco a dirlo, tra il timor di Dio e l’esaltazione dell’umano che ne è immagine. Come nota Lisa La Pietra sull’ultimo numero di “La Scala”, “La musica, accendendosi in un tremolo inquieto, evoca il crepitio delle fiamme infernali. Per il cantante, questo passaggio rappresenta una vera e propria prova tecnica (…). Ciò che emerge da questa analisi è la perfetta fusione tra il richiamo al canto all’italiana, erede della tradizione dei castrati del Sei-Settecento, e una sofisticata ricerca delle sonorità vocali ispirate dall’estetica contemporanea”. Siamo ancora, e sempre, in una zona di senso indecisa, sospesa tra ordine e disordine. Un chiasmo che certo non sarebbe dispiaciuto al giovane Eco, il quale nel 1962, pubblicando Opera Aperta, discuteva di queste cose con alcuni tra i più importanti protagonisti degli esperimenti dello Studio di fonologia musicale della Rai: Luciano Berio, Cathy Berberian, Bruno Maderna, Henri Pousseur… 

Nome della rosa

La pluralità dei punti di vista all'interno del romanzo si riflette, nell'opera teatrale, nelle dinamiche di rappresentazione della musica. Per questo, la resa della pagina non può essere solo un gioco di geometria visibile. Un legame essenziale, che passa attraverso un equilibrio tra evocazione e filtraggio, così come quello di una vocalità che si muove fra emissione e rarefazione, unisce la scena alla scrittura musicale. Non stupisce allora cogliere in queste linee rimandi compositivi tra Filidei e Sciarrino. Così come rinvii alla ridondanza informativa (da filtrare per fare funzionare correttamente la memoria) oggetto degli studi dell’Eco filosofo. In questa cornice, la creazione di un libretto che richiama tanto la scrittura di Eco quanto la materialità scenica diventa una pratica di interpretazione. Il teatro, per sua natura, ha la capacità di sospendere la realtà, ma proprio per questo è anche uno spazio in cui si gioca con le possibilità di lettura. Ecco perché chiudere troppo il percorso interpretativo su un solo punto di fuga della realtà, porta a dimenticare il senso di tutta l’opera. Ogni stanza, nella quale sono divise le giornate del romanzo, è il suggerimento di un punto di vista possibile ma non assoluto, e lo è a partire dall’esclusione di quelli che possibili non sono. Un labirinto aperto appunto, che può contemporaneamente trasformarsi in un incubo, vaticinato dalla continua presenza in scena di Jorge da Burgos, che si chiude sugli occhi aperti e in cerca di una costante identità di Adso. Come la biblioteca del finis Africae.

In questo labirinto, lo spettatore non è posto di fronte a una ricostruzione storica, ma dentro un’installazione visionaria che sperimenta e di cui di cui fa esperienza. Non si tratta di medievalismo: ciò che emerge non è un’epoca ricostruita ad usum Delphini, cioè per parlare a noi di noi stessi, ma una condizione mentale che evoca direttamente il presente. L’opera elude le incrostazioni di rappresentazioni precedenti. Al contrario, l’accento è posto sulla dimensione emotiva e perturbante della credenza religiosa, su quella forza del sacro che, pur in modo differente, appartiene tanto al Trecento quanto al nostro tempo. In un mondo dove non è vero ciò che si dimostra, ma ciò che si crede, il labirinto si popola di riflessi contemporanei: un luogo dove la fede è imposta come ordine, come terrore e come ipnosi collettiva ma di cui si sa benissimo che è un semplice ed evangelico atto del credere. 

Intervista a Filidei

Con la sicurezza delle sue regole e l’ordine di codici in cui situare l’interpretazione del testo narrativo e del mondo di cui esso è metafora, la messa in scena teatrale lega le incertezze dell’oggi alle atmosfere del romanzo, e queste alla contingenza di uomini che muovendosi tra credenze non molto diverse dai nostri egualitarismi epistemici, già presagivano la peste nera. Con una differenza, che la complessità poliedrica di tutto l’allestimento scaligero marca con chiarezza. Perché ben chiara era agli uomini dell’età di mezzo quanto fosse ridicolo pensare che la completa assenza di regole, o peggio, una sola regola, possano essere intesi come garanzia di progresso collettivo. Se gli uomini che vissero nel millennio medievale ebbero un tratto comune, ed è più che lecito dubitarne, esso risiede nel vivere infatti una continua contraddizione tra quanto veniva asserito, predicato, richiesto come virtuoso e i comportamenti reali, spesso non celati neppure da un velo di ipocrisia. Da come si rappresentava, nelle arti, nella musica, nella filosofia, persino nelle più rigorose argomentazioni teologiche, emerge come caratteristica del medioevo fosse quella di essere sempre diverso da se stesso. Non potendo farlo direttamente in una pagina che era per definizione scritta dal dito di Dio, e quindi sacra e direttamente inattingibile, si lasciava all’evocazione e all’enigma il compito di dirlo. Noi di questa evocazione possiamo godere, alle volte, mettendo in scena un passato che è anche un prologo, che è quanto è avvenuto alla Scala. Lungi dall’essere superata, l’illusione del teatro ha ancora molto da dirci sulle nostre cose in cielo e in terra.   

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