883 nella ragnatela
Torniamo a parlare degli 883 grazie a una serie televisiva, che riprende il titolo della loro canzone di maggior successo: Hanno ucciso l’uomo ragno. Ma in realtà non abbiamo mai smesso di parlare degli 883 negli ultimi 30 anni, anche in virtù di una presenza costante sulla scena mediatica italiana, tanto intensa da riuscire a superare alti e bassi, prodotti discografici più o meno riusciti, parziali appannamenti e roboanti ritorni in auge. Di certo i salti da una generazione all’altra sono stati problematici. I più giovani, ad esempio, si sono ormai abituati a identificare la band con la voce e l’immagine del solo Max Pezzali, accompagnato da musicisti di turno nei concerti, nei videoclip e nelle apparizioni televisive. Molti fanno persino fatica a immaginare che gli esordi di questa singolare avventura musicale furono segnati anche dalla presenza di un altro protagonista, di certo non secondario. Rispondeva al nome di Mauro Repetto: un vulcanico biondino danzante osannato dalle folle, che decise di scendere dal carro del trionfo in un giorno di primavera del 1994, senza alcun preavviso, finendo al centro di un groviglio inestricabile di leggende metropolitane (si vedano i recenti resoconti di Olga Campofreda e Matteo Grilli).
Le otto puntate della prima stagione di Hanno ucciso l’uomo ragno (il grande successo di pubblico di queste settimane lascia pensare che ne avremo anche una seconda) hanno rappresentato uno spartiacque, costruendo un nuovo ordine nel caos dei ricordi individuali e collettivi. A idearle è stato Sidney Sibilia, già noto al grande pubblico per la saga Smetto quando voglio, incentrata su sgangherati precari del mondo universitario che sbarcano il lunario grazie allo spaccio di “droghe intelligenti”, ma anche per l’idealizzante ritratto della piattaforma adriatica dell’Isola delle Rose salita alla ribalta delle cronache nel 1968, e per il recente Mixed by Erry, dedicato alla più grande impresa di musicassette pirata del tardo Novecento. In questa occasione, Sibilia ha provveduto a imprimere la sua firma stilistica su un prodotto collettivo, occupandosi della regia insieme ad Alice Filippi e Francesco Capaldo, scrivendo la sceneggiatura con Francesco Agostini, Chiara Laudani e Giorgio Nerone, avvalendosi della produzione di Groenlandia e Sky Sudios.
Siamo a Pavia alla fine degli anni Ottanta. Max (interpretato da Elia Nuzzolo) è uno studente svogliato, con troppe distrazioni per riuscire a concentrarsi sulle materie scolastiche. Affronta il trauma della bocciatura al liceo e cerca di farsi perdonare per le sue negligenze lavorando nel negozio di fiori del padre: di fatto trascorre l’estate nei cimiteri, accompagnando le famiglie nell’ultimo saluto ai loro cari, deponendo ghirlande sulle tombe. Ama la musica, mostra curiosità per le nuove tendenze, prova a suonare la chitarra, ma con scarsi risultati. Si muove comunque con disinvoltura fra sintetizzatori e altri dispositivi, arrivando anche a comporre una canzone per la ragazza più bella della scuola, nella speranza di fare colpo su di lei. Finite le vacanze, si trova a condividere il banco con Mauro (Matteo Oscar Giuggioli), che ha un carattere spregiudicato, un po’ fanfarone, animato da ambizioni artistiche tanto forti quanto indefinite.
Max e Mauro cominciano a vivere in simbiosi, fra una passeggiata in motorino e un raduno in sala giochi. Trascorrono parte del loro tempo in una tavernetta ben attrezzata, e proprio in quel luogo cominciano a sviluppare piccoli esperimenti musicali. Inviano le loro incisioni ai maggiori produttori milanesi e mostrano una notevole ostinazione nel promuovere le loro creazioni (il loro motto è “dignità zero”). Arrivano a esibirsi su Italia Uno accanto a Jovanotti con il nome di “I Pop”, ma il piccolo spazio di notorietà conquistato in televisione si rivela ben presto effimero. Il racconto della loro avventura prosegue in un’atmosfera di aperta rievocazione nostalgica, affidando agli oggetti il compito di trasformarsi in tratti distintivi di un’epoca. I protagonisti provano a barcamenarsi fra telefoni a gettoni, sgangherati furgoncini, fanzine, videoregistratori, autoradio, giubbotti e scarpe all’americana, gelati e panini comprati in lire. Episodio dopo episodio, si completa un ricchissimo catalogo di contenuti e immagini “memorabili”: da People from Ibiza di Sandy Marton (scritta solo per sentito dire, senza che l’autore abbia mai messo piede a Ibiza) al Karaoke di Fiorello, dalle esibizioni pomeridiane al Cantagiro alle notti estive dell’Acquafan di Riccione, dalle trasmissioni Radio Deejay al desiderio di celebrità delle ragazze di Non è la Rai. A prevalere è la rappresentazione elegiaca di due amici – per molti versi aderente alla consolidata “poetica dei compagni di banco” – che inseguono il loro obiettivo contro ogni ragionevole pronostico, affrontando a viso aperto i limiti imposti dalla vita di provincia.
L’aspetto più controverso di Hanno ucciso l’uomo ragno è proprio nel ritratto di un periodo storico segnato da grandi trasformazioni, per certi versi tumultuose o traumatiche, che vengono fagocitate da una favola eterea, quasi completamente estraibile dalla sua collocazione spazio-temporale e riproponibile in molteplici contesti diversi. La scalata al successo di Pezzali e Repetto è perfettamente funzionale alle esigenze dell’odierno mercato dei ricordi, avvolta in una ricca rassegna di consumi e icone, che riesce a tenere in ombra un fattore cruciale nello sviluppo della vicenda: l’Italia della fine degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta, attraversata da lacerazioni e conflitti, sospesa fra scandali giudiziari e incertezze economiche, impegnata ad allevare un’intera generazione di adolescenti nel segno della disillusione e del cinismo.
Eppure la serie televisiva trae ispirazione da un libro di Max Pezzali – I cowboy non mollano mai. La mia storia (Isbn edizioni, 2013) – che apre lo sguardo su uno scenario complesso, provando a spiegare il senso di smarrimento delle nuove generazioni di fronte all’affermazione di una competizione sfrenata che produceva una “selezione naturale”, separando in maniera netta i più scaltri dai più deboli. Le stesse famiglie venivano meno al loro ruolo di guida per i figli, mentre il “grande sogno” della crescita economica (nel segno del “prenditi la liquidazione e mettiti in proprio”) si scontrava con il “grande incubo” della crisi finanziaria. Le mamme e i papà sembravano troppo indaffarati per occuparsi delle ansie dei figli, costretti a lavorare anche durante le festività per pagare bollette e cambiali. Non c’è quindi da stupirsi se il cantante degli 883 si autodefinisce, sia pur con riluttanza, un figlio del “riflusso”. Con questa definizione – “riflusso” – l’industria mediatica del Belpaese provò a descrivere la tendenza dei giovani italiani ad abbandonare l’impegno politico e il sogno di un mondo più giusto, per ripiegare sulla cura degli interessi privati.
Nella storia raccontata da Max Pezzali trovano spazio le grandi correnti emotive dell’epoca “pre-Tangentopoli”, durante la quale “tutti erano convinti di stare da Dio, di vivere nel miglior paese possibile”, spinti da floride attività edilizie e ristorative, ma anche una “benevolenza” smisurata per “l’alta percentuale di denaro sommerso che teneva in moto l’economia”. Nella provincia pavese si continuava a respirare aria di ottimismo ancora alla fine degli anni Ottanta. Si raccoglievano gli ultimi effluvi del “socialismo sorridente” di matrice craxiana, nella convinzione che ci fossero mille modi per arricchirsi, grazie a lavori estemporanei, biglietti della lotteria o schedine del Totocalcio. Imperversavano i paninari, “rampolli della classe dirigente” che giravano per la città avvolti in uno Schott e in un golfino, aspettando l’estate per abbronzarsi sulla barca dei genitori. Ma la realtà della provincia settentrionale era ben altra: per descriverla in maniera più fedele, bisogna rivolgere lo sguardo anche alle schiere di “poveracci” che si indebitavano fino al collo per “comprarsi gli stessi vestiti dei ricchi, o almeno una loro imitazione”. La loro battaglia non era più “contro i vecchi padroni, ma per l’Audi 80”.
È proprio questo mondo di conturbanti speranze e fragorose delusioni a entrare nelle canzoni degli 883. Si pensi a Con un deca, una delle più famose degli esordi: una vera e propria epopea della periferia, incentrata sull’infinita ricerca del “colpo della vita”, o sull’inguaribile sicumera di chi sembrava possedere sempre un metodo infallibile per fare soldi. Tuttavia le idee “per diventare miliardari” – una vera ossessione collettiva negli anni giovanili di Max e Mauro – si rivelavano fin troppo eccentriche per essere credibili. Si trattava di un’incontrollabile esplosione delle ambizioni individuali, che rendevano plausibili anche le soluzioni vagheggiate dagli aspiranti “divi del rock”, disposti a mollare tutto per cercare fortuna a New York, prima di essere costretti a rivedere i loro piani e a prendere coscienza della loro smaccata inadeguatezza: “Ma poi ti guardi in faccia e dici dov’è / Che vuoi che andiamo con ste’ facce io e te”.
La stessa canzone che dà il titolo alla serie – Hanno ucciso l’uomo ragno – prova a interpretare i sentimenti di una gioventù disorientata, che si trova a dover accettare il tramonto delle sue fantasie adolescenziali. Nell’Uomo Ragno si condensa l’idea del supereroe senza macchia e senza paura, degno di autentica ammirazione (“invece lui, sì lui era una star”), pronto a mettere a rischio la sua vita per difendere i più deboli, eppure messo alle corde da una società spietata. Anche la ricerca del colpevole sfocia in un cumulo informe di ipotesi: forse l’eroe della Marvel paga uno sgarro ai danni di “qualche industria di caffè”, forse è vittima della “mala”, o forse è stato tradito da una gang di “ragionieri in doppiopetto pieni di stress”, disposti a vendersi “per cento lire o poco più”. Ma poco importa: conta il fatto che la sua morte sia inaccettabile, soprattutto per quelli che si sono lasciati sedurre dalla fiera delle illusioni (“le facce di Vogue sono miti per noi”) e si trovano, loro malgrado, a dover affrontare la dura realtà.
È proprio questo segmento di dolore a risultare anestetizzato nel racconto televisivo: il disinganno finisce in secondo piano, o si trasforma in un semplice incidente di percorso, lasciando spazio alla parabola picaresca di due ragazzi ostinati, pronti a tutto, che continuano a rifiutare ogni forma di razionalità e inseguono il loro sogno fino a farlo avverare. Man mano, nel corso delle otto puntate, la telecamera indugia sempre più su di loro, quasi dimenticando la realtà circostante: la storia degli 883 finisce per chiudersi nella prigione della memoria, contribuendo ad alimentare il diluvio nostalgico che travolge il nostro presente. Ammettiamolo: in difficoltà nel trambusto del nostro mondo, proviamo imbarazzo nell’immaginare un futuro migliore o diverso, rifugiandoci nella sicurezza di un passato mitizzato, privo di squilibri o contraddizioni, dominato dai sentimenti positivi, universalizzanti e universalizzabili.
Aiutati dal digital recall, rimaniamo intrappolati – come ha sottolineato Mark Fisher nei saggi di Spettri della mia vita (Minimum fax, 2019) – nel Ventesimo secolo e nell’eterna ripetizione dei suoi prodotti musicali, cinematografici, giornalistici, radiofonici o televisivi, ma anche dei suoi abiti, cibi, bevande, giocattoli, motorini o automobili. In questo scenario, gli 883 acquisiscono la fisionomia dell’ingrediente perfetto, utile a cucinare il piatto più appetibile: la “storia leggendaria” della loro scalata al successo è il risarcimento simbolico di cui abbiamo bisogno. Ci suggerisce che gli anni Ottanta e Novanta potrebbero non essere mai finiti; anzi: potrebbero persino ritornare. Ci induce a pensare che la “battaglia per l’Audi 80” sia solo una versione attempata della più moderna “battaglia per la Tesla”, e che in fondo l’una e l’altra battaglia siano parte dell’ordine naturale delle cose. Ci permette di voltarci indietro senza provare troppo sconforto, facendoci ricordare (o solo immaginare) cosa potevamo essere, cosa non siamo mai stati, e cosa potremmo ancora diventare.