A Real Pain, una vacanza nella memoria
Hollywood ha paura di Donald Trump, o almeno ne ha più oggi che dopo la sua prima elezione. Si è potuto notare durante la notte degli Oscar, in cui quasi tutti i presentatori e premiati sono stati restii a tirare fuori temi politici, nonostante gli spunti non mancassero, tanto di politica interna quanto internazionale, con i conflitti ancora in corso in Ucraina e a Gaza (quest’ultimo ricordato tuttavia dalla vittoria del documentario israelo-palestinese No Other Land). Involontariamente, anche A Real Pain di Jesse Eisenberg, candidato a due premi Oscar (per la sceneggiatura originale scritta dallo stesso Eisenberg e per l'interpretazione da non protagonista di Kieran Culkin) avrebbe potuto assumere un significato fortemente politico in un’epoca in cui si teme una recrudescenza mondiale di antisemitismo, o al contrario lo si sbandiera come grave accusa a chiunque critichi le politiche dello Stato d'Israele; non è accaduto, anche perché il regista non aveva alcun desiderio che accadesse. Tuttavia, pur senza un esplicito intento politico, la sua opera seconda tratta della diaspora ebraica e ha avuto la sua anteprima al Sundance Film Festival nel gennaio 2024, pochi mesi dopo l’attacco di Hamas e la risposta di Israele: nel lungo anno di avvicinamento agli Academy Awards di quest’anno, passando per attività promozionali e altri festival (in Italia lo abbiamo visto per la prima volta nell'ottobre scorso nella sezione “Alice nella Città” del Festival di Roma) l’identità ebraica al centro della trama, soprattutto degli ebrei che vivono al di fuori di Israele, è stata molto discussa e contestata.
Culkin, ricevendo la statuetta come migliore attore non protagonista (vinta grazie a un regolamento ambiguo, dal momento che sarebbe da considerare piuttosto il coprotagonista), ha fatto un discorso emozionante e personale, frenetico e persino buffo quando ha proposto alla moglie di celebrare facendo altri figli assieme. Nelle sue parole, le prime di un premiato nel corso della serata, non ci sono stati riferimenti sociali né politici. Bisogna precisare che Culkin non è ebreo né è stato scelto come rappresentante dell’ebraismo, ma per il suo talento poi giustamente premiato: non era un suo compito rappresentare in mondovisione l'identità ebraica. Forse lo avrebbe potuto fare Eisenberg, se i votanti non gli avessero preferito la sceneggiatura scritta da Sean Baker per Anora, ma è ugualmente improbabile: l'argomento principale che Eisenberg voleva affrontare nel suo film era il rapporto tra due personaggi uniti da un legame familiare e affettivo ma dal carattere completamente diverso, già sviluppati e messi in scena nella sua attività teatrale. Ha provato a scrivere la sceneggiatura attorno alle loro personalità, ma si è accorto che l'idea di farli viaggiare in Mongolia mancava di efficacia: la svolta è arrivata quando ha deciso che quel viaggio dovesse approdare in Polonia alla ricerca delle radici ebraiche familiari, traendo ispirazione da esperienze e persone reali.

La valutazione su quale dei due cugini interpretare, che nelle intenzioni di Eisenberg non era scontata, è stata felice: ha tenuto per sé il ruolo di David, nevrotico e insicuro come un classico personaggio da umorismo ebraico, mentre Culkin si è calato perfettamente nel ruolo di Benji, espansivo e apparentemente sicuro di sé per nascondere le proprie fragilità emotive. Coetanei, cresciuti assieme quasi come fratelli, si rivedono dopo qualche tempo e partono da New York per partecipare a uno di quegli Holocaust Tour che per gli statunitensi rappresentano una forma di vacanza un po' anomala, un ritorno nei luoghi d'Europa abbandonati dalla maggior parte degli ebrei durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Per i due cugini però non si tratta solo di “turismo nero”, come viene chiamata quella categoria che offre ai partecipanti una visita nei luoghi storici dove hanno avuto luogo delle tragedie: rispettano la volontà dell'amata nonna Dory, morta da poco, che ha lasciato loro dei soldi appositamente per andare di persona nel campo di concentramento di Majdanek, da cui era uscita viva, e poi a vedere la casa dove aveva abitato prima di essere internata. Il coinvolgimento profondo nella storia familiare dei suoi due personaggi, con massicce dosi di autobiografismo, era l'elemento mancante di cui Eisenberg aveva bisogno per dare forma compiuta al loro viaggio.
Quando Eisenberg ha deciso di spostare la meta finale dei due cugini, si è perciò collegato al genere narrativo del viaggio degli ebrei della diaspora alla riscoperta delle proprie radici. Una piccola comitiva, guidata dal filosemita britannico James, si sposta da Varsavia a Lublino alla ricerca delle tracce della presenza ebraica in Polonia: un'anziana coppia di pensionati, una californiana fresca di divorzio e un ruandese sopravvissuto al genocidio del 1994 e convertitosi all'ebraismo. È quasi paradossale, ma con un sottile effetto comico, che a guidare questo giro turistico nel dolore di un popolo sia un non ebreo che ha studiato con cura maniacale la storia e la cultura ebraiche ma poi, con un certo imbarazzo e forse persino un po' d'invidia, deve spiegare agli ebrei che sono autorizzati a provare sentimenti contrastanti e dolorosi. Solo Benji, sincero fino a risultare brutale, si sente di esprimergli quanto quel viaggio risulti preordinato e fasullo, anche nella costruzione dello stato d'animo da provare: i luoghi, senza le persone che li hanno abitati in passato e ne sono stati strappati, ma anche senza coloro che li abitano oggi e quindi sono una parte fondamentale del corso degli eventi, sono spettrali come astrazioni fuori dal mondo reale.

Poche settimane dopo l'anteprima di A Real Pain al Sundance Film Festival, alla Berlinale era stato presentato Treasure di Julia von Heinz (verrà portato prossimamente nelle sale da BIM Distribuzione): stesso genere, un altro viaggio in Polonia di due ebrei statunitensi, Edek e Ruth, padre e figlia residenti a New York (Stephen Fry e Lena Dunham). Ma quella storia era ambientata subito dopo la caduta della cortina di ferro, cosicché mentre Ruth visitava per la prima volta i luoghi di origine della sua famiglia, Edek tornava nel paese che aveva lasciato da sopravvissuto alla Shoah giurando di non tornarci mai più, prima di essere costretto dalla figlia a un ripensamento: la presenza di un testimone diretto ancora vivente permetteva a Ruth di provare una concreta sensazione di continuità nelle vicende storiche della sua famiglia. Probabilmente Edek è della stessa generazione della nonna Dory del film di Eisenberg, che però in Polonia non tornerà mai; la sua figura, pur fondamentale a smuovere i due protagonisti, è invisibile e la sua vita prima e dopo la terribile esperienza della Shoah è solo accennata. Le viene dato merito, però, di avere costruito un legame molto forte con i nipoti, cioè l'ultima generazione a poter ascoltare e comprendere le memorie di chi aveva vissuto in Europa nel Novecento prima di fuggire. Eisenberg, quando ha deciso che i due cugini dovessero andare in Polonia sulle tracce di nonna Dory anziché in Asia orientale, ha quindi individuato come nuovo tema portante del film il trauma intergenerazionale, per cui le conseguenze psicologiche dei traumi subiti da una generazione si ripercuotono su quelle successive.

David e Benji soffrono entrambi. Nulla di paragonabile a quello che ha dovuto affrontare nonna Dory; ma la sofferenza personale non è qualcosa che si sceglie né conosce comparazioni. Ciò che possono tentare è l'incontro con una sofferenza altrui, ma presente nei loro geni, con la speranza di dare un giusto significato alla propria. La destinazione finale dei due protagonisti è la vecchia casa di famiglia, come peraltro, con intento simile, lo era anche per i protagonisti di Treasure. C'è qualcosa di immanente nel dolore associato a un luogo ancora esistente e tangibile, ancora in piedi dopo decenni, il cui passato è stato brutalmente annientato creando una discontinuità nel possesso legale ma soprattutto nei segni e pensieri di chi lo ha abitato; può essere persino più penoso che attraversare un campo di concentramento, perché uno spazio già concepito deliberatamente per portare la morte non può avere altro significato. Il dono che nonna Dory fa ai suoi nipoti, spingendoli alla scoperta dei luoghi dov'era nata (e forse la sua intera vita si sarebbe compiuta, se gli eventi non avessero preso una piega tragica), è permettere loro di individuare il punto di partenza di quel trauma che ancora li colpisce apertamente a due generazioni di distanza: il focolare domestico perduto per sempre. Se il legame con le proprie radici spezzato con violenza era come un lutto inespresso, ritrovare la porta della casa perduta è come rinvenire finalmente una tomba su cui piangere il cadavere di un'ingiustizia superata, ma che non può essere riparata.

Il rischio che i campi di sterminio, i monumenti commemorativi, i cimiteri ebraici, vengano svuotati di significato morale e storiografico dalla ripetitività meccanica del turismo di massa è stato già perfettamente affrontato da Sergei Loznitsa nel suo documentario Austerlitz, girato nel campo di concentramento di Sachsenhausen una decina di anni fa; il tanaturismo di A Real Pain è certamente più rispettoso perché la comitiva si sente parte in causa delle vicende storiche sottostanti, e lo stesso Eisenberg adatta l'atteggiamento morale dei personaggi alle diverse situazioni (si scherza davanti al Monumento all’insurrezione di Varsavia, ma si resta in rispettoso silenzio a Majdanek, dove comunque il regista ha sentito la necessità di filmare alcune scene essenziali per quanto ovvie), ma viene il sospetto che la differenza con tutti gli altri tradizionali non-luoghi anonimi attraversati immancabilmente dai turisti si assottigli sempre di più, a prescindere dalle motivazioni del viaggio. Paradossalmente, è la carrozza di un treno delle moderne ferrovie polacche, uguale alle carrozze dei treni di qualunque altra nazione con un sistema ferroviario simile, a causare uno dei più aspri scontri all'interno della comitiva, quando Benji lo rifiuta come ordinario non-luogo necessario a uno spostamento, percependone al contrario un grande valore simbolico non avvertito da chi si sta godendo una vacanza: un non-luogo in cui solo la persona con la sensibilità più spiccata è capace di trovare una relazione ancora viva con l'eredità della propria comunità, a costo di rinfacciarla sgradevolmente a tutti gli altri, inconsapevoli o superficiali.
Sta qui una differenza fondamentale tra i due cugini, vero motore della loro dinamica relazionale: Benji ha paura di perdere il legame con l’identità storico-culturale della nonna senza cui si sente perduto, David invece prova a rinnovarla e perpetuarla. Al ritorno a casa, l’uno si ferma a osservare persone sconosciute nel più esemplare dei non-luoghi, l'altro offre il più esemplare gesto simbolico di commemorazione e affetto alla sua dimora; si può credere che il secondo abbia più strumenti del primo per poter essere felice, ma hanno solo scelto strade diverse e complementari per dare tregua al proprio dolore.
