Lo specchio distopico di Severance

12 Aprile 2025

Alcune serie sono straordinarie perché ci fanno da specchio, rivelandoci per quello che siamo davvero. Ci mostrano qualcosa di mostruoso: la nostra stessa vita. Giocando con un futuro possibile, rivelano le contraddizioni presenti.

È il caso di Severance, una serie distopico-psicologica creata da Dan Erickson e diretta da Ben Stiller e Aoife McArdle. Dopo il successo della prima stagione nel 2022, la seconda è ora disponibile, accolta con entusiasmo da critica e pubblico. Entrambe le stagioni hanno ottenuto un impressionante percentuale pari a 97% di recensioni positive su Rotten Tomatoes con un voto medio di 8.4 su 10, confermando la capacità di Stiller di continuare a toccare un nervo scoperto, senza dimenticare la colonna sonora originale di Theodore Shapiro che è riuscito, nella melodia, a dare voce al vero protagonista della serie: la scissione esistenziale.

La serie, senza rivelare niente dei numerosi colpi di scena, immagina un futuro prossimo in cui una nuova tecnologia artificiale-neurale (una versione futura di Neuralink?) consente di scindere la personalità e l’esistenza delle persone e creare due o più personalità divise e senza alcuna comunicazione (severed, appunto). Il dispositivo, impiantato nel cervello dai laboratori della Lumon, permette ai dipendenti di separare completamente il sé lavorativo da quello privato. Una volta entrati nell’azienda, diventano individui diversi, con memorie ed emozioni indipendenti dalla loro vita precedente.

È uno specchio inquietante della nostra esistenza. Senza bisogno di impianti neurali, adottiamo ruoli e maschere, come in un’opera di Pirandello, per adattarci a contesti diversi: coniuge, genitore, dipendente, amico. Ma qual è la nostra vera identità? E quanto siamo pronti a far dialogare le nostre diverse versioni?

In Severance, questa scissione è resa ancora più drammatica dall’uso di nomi distinti: ogni persona ha un outie (l’identità esterna) e un innie (il sé lavorativo). Le due esistenze non dovrebbero mai sovrapporsi, come se la vita professionale e quella privata appartenessero a individui separati.

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Il meccanismo ha conseguenze inquietanti: il dipendente scisso o severed diventa uno strumento di produzione, senza memoria né identità propria. Non potendo ricevere benefici reali (destinati solo alla sua controparte esterna), è costretto a costruirsi una scala di valori interna al microcosmo aziendale, basata su ricompense simboliche e fedeltà aziendale per mezzo di condizionamenti pavloviani. La Lumon trasforma i suoi lavoratori in esseri confinati in un mondo privo di senso, una bolla sterile di senso, resa visivamente dai suoi labirintici corridoi bianchi.

L’allegoria è potente: il lavoro moderno è una forma di prostituzione esistenziale. Come scriveva Robert Musil in L’uomo senza qualità, «si vuole assolutamente definire prostituzione il vendere per danaro soltanto il proprio corpo, e non, com’è costume, l’intera persona». Alla Lumon si cede solo metà di sé, ma questa metà sviluppa comunque una propria coscienza.

Nel nostro mondo, la compartimentalizzazione avviene attraverso abitudini e costumi sociali: dal linguaggio ai vestiti formali. In Severance, invece, è una separazione concreta e irreversibile incarnata in un dispositivo installato nel cranio. Paradossalmente, questo li rende più liberi di noi, almeno loro hanno un nemico da combattere. Al contrario, non c’è alcun dispositivo nei nostri cervelli; siamo i carcerieri di noi stessi.

Mark Scott, protagonista della serie e interpretato dal bravissimo Adam Scott, percorre un arco narrativo che assume i contorni di un Bildungsroman distopico. La sua collega Hellie R. (Britt Lower), sia dirigente che dipendente scissa, si sottopone volontariamente alla procedura per dimostrarne i vantaggi, senza immaginare che la sua controparte svilupperà una volontà ribelle. Helen incarna così il paradosso del potere: il leader è schiavo dell’obbedienza che pretende dai suoi subordinati.

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La serie è ricchissima di prospettive e piani di lettura e apre interrogativi profondi sulla nostra esistenza. Possiamo essere gelosi di noi stessi? È possibile che una parte di noi vada in paradiso e un’altra all’inferno? Chi ci ha creati ha il diritto di imporci valori? Possiamo esistere senza memoria?

La scena d’apertura della prima stagione è emblematica: Hellie R. si risveglia su un tavolo, con il suo corpo intatto ma senza alcun ricordo. È una persona nuova? Un’altra anima? Quando nasce davvero un individuo? Con l’unione del DNA? Con la nascita fisica? O quando, come nel celebre aneddoto del filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte a proposito di suo figlio, diciamo «io» per la prima volta.

I quattro protagonisti – Mark, Hellie, Dylan e Irving – si aggirano come topi all’interno del dedalo bianco dei corridoi della Lumon, senza un filo d’Arianna che dia senso ai loro sforzi. Fuori dall’edificio della ditta, le loro controparti vivono esistenze non meno condizionate, anzi spesso i fili che li guidano, proprio perché invisibili, sono più forti e insidiosi. È il paradosso della schiavitù volontaria della società capitalista. Per dirla con Byung-Chul Han, «l’ambiente di lavoro è particolare perché in esso noi siamo contemporaneamente prigionieri e carcerieri».

Scavando ancora più a fondo i personaggi si interrogano sulla domanda delle domande: che cosa siamo noi? Come faccio a sapere se io sono io? Se tu sei tu? Se faccio l’amore con il tuo corpo, tu ci sei? E che cosa dà unità alla nostra identità? Tutti i grandi filosofi si sono interrogati su questa domanda: quando è che qualcosa di separato diventa una nuova unità? Perché i miei pensieri costituiscono le mia esistenza e non, come nel caso della serie, due o più esistenze separate?

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In inglese, severed ha connotazioni drammatiche: significa amputato, fratturato, scisso, spezzato. Ed è forse questa la radice profonda del male: la divisione. La psicoanalisi e il marxismo la chiamano alienazione, prima da sé, poi dagli altri. Anche il termine diavolo deriva dal greco diábolos, ovvero “colui che divide”. Non a caso, nella mitologia tolkieniana, Saruman passa al male quando tradisce l’unità della vita e la scompone con la razionalità scientifica. Simbolicamente, la sua veste bianca diventa multicolore, come un prisma che scompone la luce in frammenti separati.

Se la divisione, la scissione, è la radice del male, il suo contrario è l’unione, la copula, quindi l’amore. Ma non c’è pace, anche l’amore, in Severance, non è risparmiato dalla frattura (d’altronde il traditore è detto fedifrago, colui che rompe un patto). Il protagonista cercherà sempre la moglie creduta morta, ma il riconoscimento sfugge, riecheggiando il mito di Orfeo ed Euridice: senza memoria, le anime non si riconoscono. Senza memoria, esistiamo davvero? E, poi, la memoria che cosa è? Ancora una volta, da dove nasce la nostra identità?

Ogni episodio di Severance spalanca nuove domande sulla nostra identità e sulla natura della libertà. Non è un caso che simili narrazioni siano più frequenti nella cultura anglosassone, germanica e, più recentemente, in quella orientale (Il problema dei tre corpi di Liu Cixin). Al contrario, in Italia si preferiscono spesso rappresentazioni rassicuranti di ciò che vorremmo essere, più che esplorazioni inquietanti di ciò che siamo o che stiamo diventando.

La distopia è fondamentale perché smaschera l’alienazione quotidiana. Il suo potere non sta nel portarci in mondi lontani, ma nel mostrarci che il mondo mostruoso è già il nostro. È per questo che ci inquieta: perché ci costringe a guardare nello specchio e vedere noi stessi senza la maschera dell’ipocrisia sociale.

Siamo tutti Mark e Hellie. E forse non siamo mai usciti dalla Lumon. Forse è giunto il momento di provare a risolvere la frattura tra noi e il mondo.

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