Il sesto dito, tra neuroscienze e robotica

19 Novembre 2023

Che cosa potrebbe esserci di più ovvio del numero delle dita umane? Il fatto di avere dieci dita è forse una delle cose più ovvie della nostra esistenza, tanto che fin da piccoli impariamo a contare sulla base delle dita e persino la tecnologia informatica è detta “digitale” perché le cifre numeriche, in inglese e in latino, prendono il loro nome dall’atto di contare con le mani.

Ma anche il numero delle dita non è assoluto e ci si potrebbe chiedere perché non averne di più (o di meno). Nel mondo naturale, potrà semmai sorprendere che il numero delle dita sia quasi sempre 5. Perché non molte di più visto che sono così utili? Evidentemente, il numero delle dita rappresenta un buon compromesso in una vasta gamma di situazioni, dato che da rane a lemuri non si osservano significative deviazioni da questa norma. La principale innovazione è stata il pollice opponibile, ovvero la specializzazione di una delle dita in una estremità capace di avere un ruolo unico grazie al fatto di potersi opporre alle altre dita per afferrare oggetti e compiere operazioni altrimenti impossibili. 

La stessa domanda se la sono posta anche Simone Rossi e Domenico Prattichizzo, un neuroscienziato e un ingegnere robotico, prima nei loro progetti di ricerca e poi nel loro ultimo libro Il corpo artificiale. Neuroscienze e robot da indossare (Cortina, 2023). Perché solo 5 dita e solo un pollice? Non potremmo modificare il corpo umano con protesi in grado di sostituire arti umani ed eventualmente aggiungerne di nuovi?

La domanda e l’obiettivo potrebbero apparire un po’ arbitrari. In fondo se l’evoluzione non ha selezionato mammiferi con un numero maggiore di dita (come gli alieni dell’Eternauta di Héctor Germán Oesterheld) non ci saranno grandi vantaggi. Solo pochi animali hanno il pollice opponibile (lemuri e scimmie) e solo uno ha due pollici per mano, ovvero il Koala. Ma nessuno di loro sembra particolarmente rivoluzionario.

In realtà, nel caso degli esseri umani, una protesi che non solo riproduce il pollice opponibile ma eventualmente lo raddoppia, avrebbe molteplici e significative implicazioni. Nel libro, grazie alle neuroscienze, scopriamo che in molte malattie degenerative del sistema nervoso l’uso di protesi permette di stimolare e mantenere in relativa salute più a lungo il nostro cervello. Anche nel caso di amputazioni accidentali la possibilità di riprodurre materialmente l’arto (pollice o dito che sia) ha ovviamente ricadute benefiche sulle persone.

Ecco che il libro, scritto a quattro mani con un felice equilibro che mantiene una trasparente autonomia delle voci dei due autori, rivela il suo tema più serio: come robotica e neuroscienze possono integrarsi per rispondere a domande scientifiche e produrre applicazioni e dispositivi concreti che abbiano un valore medico o pratico. 

Il libro si concentra quindi sulla robotica wearable o indossabile, un campo relativamente recente, che si occupa di realizzare soluzioni robotiche che integrano il corpo umano con dispositivi sensoriali e motori; qualcosa che prefigura la figura del cyborg, una combinazione di naturale e artificiale, umano e robotico. E così gli autori dispiegano una serie di ricerche e di progetti meccatronici che uniscono uomo e macchina, oltre a nuove dita robotiche, anche cavigliere vibranti che possono aiutare il cammino nei malati di Parkinson e dispositivi vibranti comandati da smartphone che aiutano nel ridurre l’impatto dei suoni fantasma, o acufeni.

Ovviamente una disciplina del genere si colloca a metà strada tra le discipline più tecnologiche e quelle più legate alla neurofisiologia, una convergenza tra artificiale e naturale che non è esclusiva di questo testo, ma che rappresenta un orizzonte generale per la scienza e la cultura odierne dove il confine dell’essere umano è sempre meno definito.

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Sarebbe stato interessante, se oltre alla voce delle neuroscienze e della robotica, il libro avesse incluso anche un’analisi critica del rapporto tra uomo e macchina quale si trova nella filosofia della mente e in quelle correnti di pensiero che si sono concentrate sul corpo e sul suo rapporto con il mondo come la mente estesa, l’enattivismo o l’identità tra mente e oggetto. Ma questa scelta è coerente con la seconda anima del libro che corrisponde molto bene allo spirito degli autori e che ha un suo interesse intrinseco: le peripezie e le difficolta della ricerca finanziata ai giorni nostri.

La ricerca non avviene nel vuoto e le risorse non sono infinite. Chi la realizza deve confrontarsi con gli ostacoli della burocrazia e con le sfide e le regole dei finanziatori, a volte privati, ma soprattutto pubblici. Da questo punto di vista il libro offre uno spaccato, spesso divertente, delle peripezie che scienziati e ingegneri devono affrontare, tra cene sociali, proposte di finanziamento, stesure di resoconti, viaggi e incontri improbabili. Il libro presenta con innocenza molti di questi episodi e questo conferisce ai temi trattati uno spessore umano che arricchisce il racconto, ma induce anche a qualche riflessione che va oltre il testo di Rossi e Prattichizzo.

La ricerca universitaria è oggi supportata in gran parte dall’unione europea che si è progressivamente sostituita al finanziamento nazionale e locale. Da un lato questo è stato positivo perché ha fornito risorse e conferito un orizzonte internazionale, ma dall’altro ha allontanato i centri decisionali dalle sedi locali e nazionali. Il meccanismo di finanziamento della ricerca è basato sulla scelta di obiettivi pluriennali che sono stabiliti in sede europea e che non sempre possono corrispondere agli interessi e proposte che i centri nazionali possono avere. Ovviamente questo indirizzamento della ricerca non è accidentale, ma voluto. Seguite i soldi per trovare il potere. In questo modo l’unione europea mira, in principio con intento virtuoso, a orientare l’attività di ricerca verso obiettivi che siano positivi come inclusività, sostenibilità, energie pulite e così via. E infatti anche gli autori ripetono costantemente il mantra secondo cui le loro ricerche hanno fini concreti e meritori ricordandoci a più riprese il loro «impegno costante per migliorare la qualità della vita delle persone» come se la ricerca dovesse sempre giustificarsi indicando in anticipo il proprio fine.

Tutto questo è lodevole, ma non si può fare a meno di riflettere sul rapporto tra valori e obiettivi, tra conoscenza e aspettative. Primo, il processo di scelta di questi valori che guidano i programmi di ricerca europei è politico, ma non sempre trasparente. Secondo, non è detto che indirizzare la ricerca verso obiettivi pratici sia sempre la miglior strategia a lungo termine. È celebre la conversazione tra la regina Vittoria e i geni dell’elettricità Michel Faraday e James Clark Maxwell. Quando la regina chiese loro a che serviva l’elettricità, Faraday rispose prontamente «Adesso non lo so, Sua Maestà, ma sono sicuro che fra qualche anno lei ci farà pagare sopra le tasse». Profezia che si avverò nel giro di qualche decennio.

Non è questa la sede per un discorso ampio sulle dinamiche di finanziamento della ricerca e sui criteri di valutazione dei risultati, ma vale la pena interrogarsi sulle logiche di un sistema che, in fondo, in tanti anni non ha saputo mettere l’unione europea in un posizione di vantaggio sugli altri grandi blocchi: USA e Cina. Fate una prova: quante tecnologie utilizzate ogni giorno che siano state sviluppate in Europa? Da Google Maps a ChatGPT, da Bluetooth ai vettori SpaceX, da Windows a Android, dai processori Intel al 5G, il grosso dell’innovazione tecnologica sembra provenire in maggioranza dell’oriente o dalla Cina lasciando all’Europa per lo più il compito di regolamentarne l’utilizzo o di tentare un lavoro di sartoria e personalizzazione a fini lodevoli. Data l'indiscutibile competenza dei ricercatori e delle università europee, ritengo sia legittimo interrogarsi sull'efficacia del modello di finanziamento della ricerca in Europa.

Tornando al piacevole volume di Rossi e Prattichizzo, si possono seguire due chiavi di lettura: da una parte l’integrazione biomeccanica e sensoristica fra dispositivi robotici e gli esseri umani, dall’altra il percorso spesso sorprendente dei ricercatori. 

Una delle pagine più suggestive riguarda la possibilità di estendere la sfera delle esperienza tattili oltre i limiti quotidiani; per esempio permettendo a una futura madre di poter accarezzare il proprio feto prima della nascita. In questo modo i casi presentati da Rossi e Prattichizzo ci fanno interrogare su problemi che vanno ben oltre i confini dell’utilità pratica dei loro dispositivi: che cosa è l’esperienza? Che cosa è una persona? Dove comincia e dove finisce un corpo?

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