Marco Santambrogio: la filosofia non è storia
Dove guarda la filosofia? Verso il passato, verso il futuro, o verso una direzione che è atemporale e fuori dalla storia? Perché la radice della realtà dovrebbe trovarsi nelle origini storiche? Nella cultura italiana, è innegabile, esiste una forte e resistente associazione tra filosofia, storia e letteratura che è incoraggiata dalla mentalità storicista. In gran parte del mondo, a dire il vero, la filosofia non è associata alla storia. Negli Stati Uniti, per esempio, la filosofia è presentata come una disciplina a sé stante o associata a campi dove viene applicata quali psicologia, scienze cognitive, logica e teoria dell’informazione; nel dipartimento di filosofia del MIT non esiste una cattedra di storia della filosofia. Al contrario, in Italia filosofia, scienze umane e storia sono normalmente accorpate nei programmi e nei requisiti degli istituti superiori; un’eredità della riforma Gentile e della visione storicista di Croce. Ma qual è il rapporto tra filosofia e storia?
Marco Santambrogio affronta questo tema nel suo ultimo libro: Filosofia e storia. Viste da un filosofo parziale e pieno di pregiudizi (La nave di Teseo, 2024). Il libro è un’analisi articolata delle varie motivazioni che vengono regolarmente addotte per giustificare un approccio storicistico alla filosofia. Il testo, una dopo l’altra, le smonta e le spoglia da un’autorevolezza che è frutto solo della consuetudine. Secondo Santambrogio «lo storicismo ha avuto un’incidenza pratica enorme, e negativa, sulle nostre scuole». È un giudizio severo che condivido pienamente: la filosofia non è la sua storia.
Tuttavia è innegabile, scrive Santambrogio, che «quando i giornali, la televisione o i festival di filosofia chiedono a un filosofo di trattare un tema […] il pubblico si aspetta una rassegna cronologicamente ordinata delle posizioni dei principali filosofi sul tema, accompagnata da qualche considerazione di indiscutibile saggezza». Nella cultura nazional popolare, la figura del filosofo coincide quasi sempre con quella dello storico della filosofia al punto che, alle superiori, i due termini sono sinonimi (a vantaggio del secondo): il docente di filosofia è un docente di storia della filosofia.
Per mentalità storicistica Santambrogio si riferisce alla convinzione secondo cui per comprendere un problema di natura filosofica si debbano conoscere, nel modo più dettagliato possibile, tutte le sue vicende storiche, ivi inclusi i punti di vista e le peculiarità degli autori che l’hanno trattata, idealmente conoscendo la lingua originale e riuscendo a utilizzarne i termini in modo il più vicino possibile agli autori nel loro momento storico; quello che, secondo Luciano Canfora, sarebbe «lo studio storico, diacronico del pensiero filosofico incardinato nell’orizzonte storico-politico in cui sorsero e produssero effetti, reazioni, contestazioni e passi in avanti della conoscenza». Il problema è che, come fa notare Santambrogio, se così fosse, sarebbe impossibile comprendere qualsiasi idea. Nessuno ha le risorse e il tempo per ricostruire il clima culturale, la competenza semantica e la scorrevolezza linguistica di un greco dell’Atene di Pericle. Sicuramente questo tipo di competenza è indispensabile per una ricostruzione del pensiero di Platone, ma è necessaria per comprendere il rapporto tra esistenza e causalità affrontato nel dialogo Il sofista? Speriamo di no. Altrimenti tutto il mondo contemporaneo sarebbe tagliato fuori dai problemi filosofici trattati al tempo dei Greci.
In molti casi, la ricerca di significati reconditi nell’etimologia delle parole è affascinante ma discutibile. Nel caso di Prometeo ed Epimeteo (chi vede avanti e chi vede indietro) è illuminante; nel caso di ombra che derivi dall’indoeuropeo attraverso pioggia e sole (quando piove il sole è coperto dalle nubi e si è in ombra) è poetico, ma non ci aiuta a scrivere in italiano. Santambrogio sottolinea che «ancor oggi molti storicisti attribuiscono grande importanza all’etimologia delle parole e ci ricamano su. “Persona” deriva da una parola latina che significava “maschera”. E allora? Forse che questo ci aiuta a stabilire che diritti abbia una persona e se un feto sia o no una persona?» No, direi di no. Pensare che la conoscenza dell’origine delle parole contribuisca al loro uso è un sentimento simile a quel «non si sa mai» che impedisce di buttare l’ombrello rotto in garage.
L’idea secondo la quale le origini del linguaggio nasconderebbero le origini del significato, quasi che sia esistita un’età dell’oro che permise al popolo dei tumuli di cogliere la realtà in una lingua ancora non offuscata dall’opinione comune, è bizzarra. È una forma di superstizione linguistica. Non c’è motivo di pensare che certi linguaggi avessero un ruolo epistemicamente privilegiato nella misura in cui sono stati plasmati, come sempre, da uomini e donne impegnati nella vita di tutti i giorni: agricoltori, commercianti, guerrieri, genitori, amanti. Il greco è diventato per molti la lingua della filosofia perché le intuizioni dei filosofi gli hanno dato spessore e non viceversa (come l’inglese è diventato un’ottima lingua per la computer science). Certo, il greco, come l’inglese contemporaneo (o come l’italiano), sono strumenti dinamici che fanno propria la struttura del reale e, in quanto tale, sono reti che prendono molti pesci, ma non in modo privilegiato; conta più il mare del tramaglio.
C’è una evidente circolarità tra l’atteggiamento storicistico e l’importanza di certe nozioni: le origini storiche di un’idea sono importanti soprattutto nella misura in cui si interagisce con persone che si attendono quel tipo di conoscenza. In altri ambiti, questo valore è molto meno evidente. Anche l’idea ricorrente secondo cui la storia consentirebbe di evitare di ripeterla è contraddetta dai fatti. Non c’è alcuna evidenza che le culture intrise di storicismo siano capaci di muoversi con infallibile certezza e originalità verso un futuro non macchiato dagli errori del passato. Come nota Santambrogio, «lo storicismo vorrebbe costringerci a cantare nel coro, a essere tutti conformisti. Se ci lascia la possibilità di pensare diversamente dalla maggioranza, si tratta comunque di una libertà limitata: spetta pur sempre alla maggioranza stabilire l’orizzonte entro cui dobbiamo muoverci». E questo è tanto più vero nel caso della filosofia.
Ovviamente, non c’è alcun motivo per non sapere qualcosa. Anzi. Anche la storia della filosofia è un’ottima occasione per crescere, ma lo storicismo favorisce un pregiudizio umanista che non è detto sia fondato. Nel 1959 C. P. Snow, nel suo celebre saggio Le due culture si chiedeva perché mai nessuno dei suoi colleghi conoscesse il secondo principio della termodinamica (quello dell’entropia), mentre tutti erano versati sulla storia e le opere di William Shakespeare. In modo simile, per comprendere il mondo moderno, anche per i filosofi sarebbe (almeno) altrettanto utile conoscere il principio di Pareto, la formula di Shannon, lo spazio tempo di Minkowski, l’equazione di Schrödinger, una rete neurale o, persino, l’algoritmo Transformer di quanto non lo sia conoscere la storia della filosofia. Sfortunatamente, anche se tutto è utile, tutto è anche impossibile. Ci si deve chiedere che cosa è indispensabile. Da ragazzo avevo letto con grande passione al liceo la Storia della matematica di Charles Boyer, ma quando avevo messo mano al testo di Analisi al primo anno di ingegneria non ero stato per questo più bravo a risolvere le equazioni differenziali. Per comprendere il problema della diagonale del quadrato non devo tradurre dal greco di Pitagora e posso comprendere il problema dello spettro invertito di Sidney Shoemaker senza sapere nulla dei campus americani degli anni Settanta. Nel primo caso sarebbe più utile una conoscenza della geometria e nel secondo qualche elemento sul funzionamento della fisiologia della visione.
Al contrario della mentalità storicista, verrebbe naturale pensare che la filosofia sia astorica (come la matematica) e affronti problemi che sono significativi proprio perché universali. E questo è vero non solo per la filosofia, ma anche per tante altre aree (come l’arte) che in Italia sono condizionate dalla mentalità storicista. Non studiamo l’arte, ma la sua storia. Non facciamo alcun tentativo di praticare alcuna forma artistica (a parte negli istituti di belle arti), e la cultura sembra indipendente dal suo oggetto a condizione che se ne conosca la storia. Non si guardano le opere d’arte, si memorizza la loro storia. Eppure, se dopo seicento anni troviamo commovente il monologo di Enrico V ad Azincourt non è perché condividiamo il desiderio degli inglesi di tornare sul continente grazie alla legge salica, ma perché nelle parole del giovane re qualcosa riecheggia con la nostra dinamica esistenziale. Addirittura potremmo riflettere sul fatto che la filosofia non è, necessariamente, umanistica.
Ancora una volta, per chiarezza, ripeto che non ci sono motivi per negare che la conoscenza approfondita della lingua, della cultura e della storia, per dire, della Grecia antica non siano fonte di arricchimento intellettuale e costituiscano uno strumento fondamentale per rendere, in termini moderni, le intuizioni di Platone. Tuttavia si tratta di un compito che non è richiesto a chi vuole interrogarsi sul rapporto tra essere e divenire, tra forma e materia, tra esistenza e causa, ma solo agli esperti il cui compito è quello di scavare nelle pieghe della storia per offrire a tutti gli altri i frammenti di riflessioni tutt’ora valide. Qualche anno fa, Robert Pirsig, un filosofo americano poco considerato in ambito accademico ma capace di parlare a milioni di persone, distinse tra filosofia e filosofologia: la prima tenta di cogliere la struttura della realtà liberandosi di pregiudizi e inerzie concettuali mentre la seconda analizza storicamente questi tentativi. Ma quegli esperti non sono più filosofi di altri, sono filosofologi (anche se niente vieta che qualcuno, magari, sia anche filosofo). Lo storicismo identifica i filosofi con i filosofologi, la filosofia con l’elenco delle tesi espresse dai vari autori, ma così facendo trascura quella dimensione esistenziale che dà vita al pensiero: la filosofia è anche amore, conatus, espressione dell’esistenza. Come in ogni bacio c’è qualcosa di nuovo, così nella filosofia si cerca sempre di rubare qualcosa di inaudito alla realtà.
Scrive Santambrogio: «Gli adolescenti si rivolgono alla filosofia aspettandosi risposte chiare e convincenti ai problemi che a loro interessano davvero. […] la risposta che danno in genere gli storicisti alla domanda sulle ragioni per studiare la storia della filosofia è molto diversa. […] La risposta si trova nel detto comune “Se non sappiamo da dove veniamo, non sappiamo chi siamo e non andiamo da nessuna parte”» E qui si evidenzia come lo storicismo abbia colpe gravi anche sul piano esistenziale, sociale e politico nella misura in cui pone l’identità nelle origini storiche; un luogo comune di cui «per definizione, non si chiede quasi mai conto. Ma non è fuori luogo chiedersi che rapporto esista tra la nostra identità presente e quella futura». C’è un aneddoto su Napoleone, quasi sicuramente inventato, che racconta di quando, proprio in Italia, gli fu chiesto da chi discendesse, al che rispose «Io non discendo, io ascendo». La mentalità storicista ci mette in subordine rispetto ai grandi del passato che, proprio per essere esistiti prima, sono diventati grandi; sono stati la palla che, scendendo lungo la valle della storia, causa una valanga. Eppure quella pallina, all’inizio della discesa, era solo una manciata di neve. La visione storicista induce al nanismo intellettuale come si sente ripetere sempre nella citazione di Bernardo di Chartres (spesso attribuita a Isaac Newton per via di una lettera dove probabilmente ironizzava sull’altezza del suo avversario Robert Hooke): «siamo nani sulle spalle dei giganti». Ma perché?
Santambrogio sottolinea che lo storicismo riduce la filosofia a interpretazioni legate al contesto e che «relativizzare la verità porta a una forma di tolleranza a buon mercato [e] si degrada la nozione di verità a qualcosa di simile al gusto», in modo tale che «ognuno è padrone dei propri gusti e tutti possono facilmente consentire che al tal dei tali piaccia quel gelato e al tal altro no: è vero anche per me». Ha ragione, infatti «nei nostri manuali di storia della filosofia non ci si chiede mai se quello che dice un filosofo sia vero o falso e non si insegna mai agli studenti a chiederselo». E così, come ha recentemente scritto Costantino Esposito, la verità è ridotta «a gioco incrociato delle opinioni, in cui ciascuna di esse ha il diritto a esistere a patto di non essere più di un’opinione».
Lo storicismo incoraggia quell’atteggiamento strisciante che misura un pensiero decomponendolo in riferimenti a opere precedenti: con quale diritto esprimere un punto di vista orfano quando tutti si prodigano a mostrare la propria discendenza culturale? Ma così non si ascolta più quella voce autentica che parla dal piano dell’esistenza individuale. Al contrario, il pensiero filosofico dovrebbe tornare ogni volta alle origini per trovare qualcosa che non è mai stato inserito nel flusso delle idee. È questa radicale novità che dà vita e sostanza alla filosofia. Da questo punto di vista il pensiero filosofico è radicalmente sintetico, nel senso di non poter essere analitico. Il contrario della filosofia americana, insomma.
Il punto è più generale dello storicismo e riguarda i confini della pratica filosofica e se questa possa essere ridotta dentro i limiti di un certo metodo, come tante “scuole” odierne e passate hanno cercato di fare. In questo senso, storicisti, analitici e continentali sono accomunati dallo stesso spirito, chiudere dentro una cornice qualcosa come la filosofia che, al pari dell’arte, non andrebbe mai circoscritto. La parola stessa “filosofia” rischia di suggerire un canone, una disciplina, una materia definita da un metodo e un oggetto, qualcosa che si può catturare, mentre non è altro che l’orizzonte del conoscere, inteso non come linea che chiude, ma come apertura verso l’indefinito dell’esistere, mai del tutto compreso dentro il noto, né per oggetto né per metodi. Come ha scritto magistralmente il filosofo Rocco Ronchi, «La filosofia in quanto filosofia e non sapere storiografico sulla filosofia è sempre sospesa alla drammatica prova della sua impossibilità. È sempre allo stato nascente: […] Franando continuamente, quasi ad ogni pagina, se non ad ogni riga, il mondo del filosofo deve essere interamente ricostruito dalle fondamenta».
La filosofia non è storia, è novità.