Una melanconia risanata

14 Aprile 2025

Fino a qualche tempo fa, a quanto pare, bisognava essere sempre euforici, gioiosi, perché, ci dicevano, l'infelicità è una malattia che va tenuta lontana. I mezzi ci sono. I soldi, per i pochi che ce li hanno, pure. Ma oggi con l’aria di guerra e con un brutto risveglio di un’Europa che si scopre inconsistente e inutile, ma continua a negarlo come se si trattasse di un brutto sogno, la ricerca politica di senso cerca di porre rimedio alla sua perdita.

In un'epoca in cui non siamo più in grado di distinguere tra il normale e il patologico, non sapendo più bene dove stia la differenza tra la tristezza e la depressione, tra una sofferenza che ci fa crescere e un dolore che ci opprime, un libro come quello di Paolo Godani (Melanconia e fine del mondo, Feltrinelli, Milano 2025, pp. 220) può aiutarci a riflettere su noi stessi, specie se quel “noi” comprende le donne e gli uomini di “sinistra”, quelli del ’68 e del ’77, che oggi sbandano (sbandiamo) tra la delusione, la perdita di senso del mondo, la rabbia, la falsa euforia per qualcosa che non c’è più e vorremmo che ci fosse, o forse non lo vorremmo più: mi riferisco all’idea che un altro mondo è possibile. Godani, di una generazione più giovane, non rinuncia affatto a quest’idea, ma la modula attraverso il rapporto tra la melanconia, il nichilismo e il sentimento della perdita di senso del mondo fino a proporre un diverso modo di disporsi nei confronti del presente e del futuro. La melanconia è perdita, ma, secondo Freud, a differenza del lutto, è perdita senza oggetto. Di più. È perdita di tutti gli oggetti, perdita del mondo che produce senso di colpa. “La melanconia è precisamente questa sensibilità alla caducità delle cose come tali, poiché quanto accade al melanconico è di percepire, nella caduta di un oggetto, la caducità di tutti. Ne consegue che ciò che viene introiettato come oggetto deludente, a cui si muovono i rimproveri che poi ricadono sul soggetto, non è quel singolo oggetto caduto, ma la totalità degli oggetti caduchi” (p. 30). Da qui l’interesse di Godani per Ernesto De Martino e la sua idea di Fine del mondo, così legata a ciò che costui chiamava la perdita della presenza. Questa ritualmente si risolveva in una integrazione nel mondo. Ma nella modernità questa integrazione è davvero possibile? Non ci troviamo nell’epoca della perdita di senso? 

Qui entra in scena Sartre con la Nausea, dove il dolore del melanconico non è interpretabile. Esso infatti è assolutamente sganciato dai nomi, dai significati, dal senso, e dunque anche dalle motivazioni, dal desiderio. Letteralmente il dolore melanconico è inarticolato, in quanto è in contatto con la pura materia del mondo, cioè con il mondo ridotto a un muto sostrato amorfo” (p. 37). Ma più ancora di Sartre, che si trova qui in relazione con Lacan, Paolo Godani mette in gioco Lévinas. C’è una possibilità di fronte a questa condizione nichilista? C’è una via d’uscita? Sia Sartre, sia De Martino sentono la necessità di dare senso al mondo ed è su questa strada che si incammina Paolo Godani, per il quale, tuttavia, è importante attraversare la condizione del nichilismo, anche perché e forse soprattutto perché immaginare oggi un altro mondo possibile significa dichiarare caduti e forse insensati quelli che sono stati finora immaginati. Il nichilismo aiuta a farne piazza pulita. Qui Godani è nel solco di Nietzsche, che per Foucault (lo si vede più esplicitamente negli scritti inediti degli anni ’60 che sono stati pubblicati in Francia di recente) è uno spartiacque all’interno della storia della filosofia. “L’età classica, scrive Godani, che è l’opera di Descartes e Pascal, di Spinoza e Leibniz, ma anche di Condillac e Helvétius, è l’età della rappresentazione. Contrariamente a un fraintendimento diffuso, con questa formula Foucault non intende l’età del soggettivismo moderno, ma l’epoca della perfetta corrispondenza tra essere e pensare, tra l’ordine delle cose esistenti e il quadro che di esse si costituisce nell’ambito del sapere” (p. 79). Ma se è così, e personalmente penso che sia così, allora il punto di riferimento di Foucault non è soltanto Nietzsche, ma anche Heidegger (e non solo lui) che si batte contro l’idea che la conoscenza sia adaequatio rei et intellectus. In questo scenario subentra il corpo, il bisogno di controllo su di esso fino all’anoressia, la sua assimilazione a una macchina, con anche l’ossessione di una sua ricostruibile eterna giovinezza. “Una delle ipotesi di questo lavoro è che la melanconia sia l’amaro frutto del rapporto che abbiamo instaurato con il nostro corpo all’alba della modernità, cioè nel momento in cui l’interno dell’organismo è diventato non solo il luogo di tutti i misteri e di tutte le catastrofi, ma soprattutto l’unico rifugio dell’essere e l’ultimo segreto della natura umana” (p. 86). 

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La melanconia moderna, continua Godani, in quanto abbandono alla radicale insensatezza del mondo e di noi stessi trova le ultime briciole di senso nell’organismo vivente, “nel suo manifestarsi come incubatore della malattia, nell’asfissiante evidenza della sua prossimità alla morte” (Ibidem). Eppure, aggiungo, è proprio la morte che oggi si tende a negare, poiché da fatto sociale e pubblico è diventata una realtà privata ed è curioso che la sepoltura dei morti, ritenuta da Vico e dagli antropologi una delle prime grandi svolte dell’umanità e delle civiltà, è oggi diventata un fenomenico periferico, specchio scuro di una realtà che si vorrebbe annullare, ma melanconicamente non si può. Del resto ciò che reclama Paolo Godani è la dimensione del collettivo che la cultura e la pratica neoliberali hanno distrutto, così come hanno distrutto i “concatenamenti collettivi del desiderio”. E tuttavia questa melanconia è anche la testimonianza del fatto che si inizia a percepire l’insostenibilità di una vita e di una società fondate sul desiderio. E qui emerge il nesso tra melanconia, depressione e forma di vita sociale feticizzata. “La nostra non è solo una società della depressione per isolamento, scarsità e impotenza, ma è anche, e forse soprattutto, una società nella quale tende a scomparire ogni forma di vita che non sia volta alla riproduzione della macchina capitalistica” (p. 122). Il melanconico contemporaneo è figlio legittimo dell’homo oeconomicus. Come combattere la macchina capitalistica? 

Rifiutando il primato della prassi e del lavoro. Feuerbach viene recuperato rispetto allo stesso Marx in nome della proposta di una vita collettiva libera basata non più su una libera attività lavorativa, ma sulla contemplazione e sulla conoscenza della natura. Tutto sta nell’immaginare forme di vita che stiano al di fuori del capitalismo. Godani si richiama non solo al materialismo di Feuerbach, ma, nella riflessione critica del e sul marxismo, a Lévi-Strauss, a Marshall Sahlins, a Panzieri, a Deleuze e Guattari. Ma la domanda è: siamo sicuri che il lavoro, per quanto mutato, non sia più così centrale nella vita degli uomini? Un film come Perfect Days di Wim Wenders sembra volerci dire il contrario. A parte ciò, Paolo Godani parla anche del “melanconico risanato”, colui che, dopo avere vissuto la perdita di senso causata dalla scoperta che l’uomo non è affatto il centro del mondo e che la natura non è al suo servizio, dopo che le cose in quanto merci sono diventate feticci, ritrova le cose in quanto cose. “Come aveva intravisto Lukács, sebbene valutando negativamente il fenomeno, l’immobilizzazione e la pietrificazione che trasfigurano uomini e cose in oggetti di una natura morta generalizzata hanno la funzione di sottrarre gli uni e le altre al principio antropocentrico, in base al quale le cose hanno valore e significato solo in quanto si presentano come mezzi a disposizione dell’uomo loro signore. 

Lo spirito di natura morta o di vita statica si presenta dunque come una visione del mondo che parifica uomini e cose, neutralizzando il pregiudizio antropocentrico e assumendo almeno implicitamente le esigenze di un naturalismo immanentista per cui vale, di nuovo, ciò che scrive Ortega: ‘il naturalismo di Velazquez consiste nel fatto di non volere che le cose siano altro da quelle che sono’”(p. 167). Ma le cose sono davvero quello che sono? Mi piace l’idea del melanconico risanato che sembra appartenere alla società marxiana di liberi produttori, ulteriormente liberati però dal lavoro e dalla produzione. E tuttavia quell’immagine di Marx aveva il limite di richiamarsi a relazioni trasparenti tra uomini e cose, là dove la trasparenza rischia di ricordarci una purezza che non c’è e non ci sarà. Non si ripropone lo stesso problema in questo ritorno alle cose in quanto cose proposto da Paolo Godani? Nonostante ciò, questo libro ha il grande merito di smuovere le idee, di rimettere in discussione il ruolo storico e filosofico del nichilismo, di rilevare la caduta del desiderio, di guardare impietosamente la condizione contemporanea del corpo, di cercare una via d’uscita collettiva alla depressione individualistica, di mettere intelligentemente a confronto Freud e De Martino, Sartre, Lacan e Lévinas, di riproporre Lévi-Strauss e Sahlins, di evocare Feuerbach, di ricercare un nuovo senso dopo la perdita di senso in cui ci hanno gettato il capitalismo e il neoliberismo.

La melanconia, sana o risanata, è, a mio parere, quella che ci fa sentire la mancanza, il limite, l'irreversibile, l'irraggiungibilità di una meta, l'invalicabilità di un confine, l'infinito di un orizzonte. Abbatte il delirio di onnipotenza e ci fa capire che il tempo avanza e muta le cose e noi stessi. Ci porta all'ironia, mettendo in dubbio noi stessi ogni qual volta ci prendiamo troppo sul serio. Ci fa volgere lo sguardo al passato con umiltà e commozione. Ci spinge verso un futuro che non c'è e potrebbe non esserci mai. Ci evita l'inganno di una falsa pienezza di vita quando invece cerchiamo soltanto di sfuggire a noi stessi. Deride la furbizia e la mette dove deve stare, negli anfratti dei servi. Ci dà una coscienza e una dignità.

La melanconia è l’inevitabile portato della vita umana. Ne abbiamo oggi così tanta paura che la identifichiamo con una malattia, la depressione. Ma la melanconia non lo è. Neppure la tristezza lo è. Perché tendiamo a confonderle con la depressione? Perché attribuiamo a un atteggiamento sano il marchio della malattia? George Steiner ha scritto: “Le interposizioni tra pensiero e atto sono molteplici e varie come la vita. Le ombre che cadono tra il pensare e il fare non possono mai essere inventariate esaustivamente e ancor meno classificate. Le costruzioni ingegneristiche o architettoniche più esigenti ammettono lievi deviazioni dal progetto o dalla calibratura precisa. Nessun pittore, per quanto capace, può trasferire appieno sulla tela la sua visione interna o quel che crede di vedere di fronte a sé. Perfino nella sua forma più rigorosa, la musica incorpora solo parzialmente il complesso di sentimenti, idee, relazioni astratte del suo compositore. La distanza tra ciò che preme sulla sensibilità, tra l’immaginato e la sua enunciazione linguistica, è un melanconico cliché, un luogo comune di una sconfitta perpetua fin dagli inizi non solo della letteratura, ma degli scambi più intimi e urgenti tra gli uomini”.

La tristezza è la sofferta consapevolezza dello scarto incolmabile tra il pensare e il fare, è il senso del limite, è la ferita narcisistica. Solo una cultura invasa dall’insano senso di onnipotenza può rifiutare di accettare questo inevitabile scarto che dà il segno inequivocabile della nostra mortalità.

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