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Kafka: la diversità e la fuga

19 Agosto 2024

Nel racconto Una relazione accademica un'ex scimmia, da cinque anni divenuta uomo, racconta la storia della sua umanizzazione, dal momento in cui fu catturata e ferita al momento in cui imparò a stringere la mano e a parlare e ad essere dunque accettata nella nobile comunità degli umani. Dopo la cattura e il ferimento, l'ex scimmia si svegliò in una gabbia. Questa era troppo bassa per stare in piedi e troppo stretta per stare seduti. "Si ritiene vantaggioso, osserva l'ex scimmia, custodire le bestie in questo modo nei primi tempi della prigionia; e oggi, in base alla mia esperienza, non posso negare che, umanamente parlando, sia effettivamente così". Gli animali sono in questo modo ammorbiditi e disponibili a ricevere l'ammaestramento. Cosa effettivamente li dispone a ciò? L'impossibilità di una via d'uscita. L'ex scimmia aveva sì scoperto una fessura, ma appunto di fessura si trattava, insufficiente a far passare persino la coda. In una condizione siffatta, "o sarei morto presto o, se fossi riuscito a sopravvivere al primo periodo critico, sarei stato molto facile da ammaestrare. A quel periodaccio sopravvissi". Sopravvivendo non trovava vie d'uscita. E poiché non poteva vivere senza almeno una via d'uscita, decise di fare l'unica cosa che a rigor di logica poteva fare: smettere di essere una scimmia e diventare uomo.

In una situazione come questa descritta da Kafka, la ricerca di una via d'uscita può essere obbligata per la sopravvivenza ma il passaggio può comportare il mimetizzarsi, l'accettare l'assimilazione all'altro, alle sue regole, ai suoi costumi, alle sue leggi, il farsi colonizzare, insomma una prigionia. La scimmia che si fa ammaestrare e diventa uomo rappresenta la più straordinaria e beffarda caricatura dello stato di libertà. Essa in realtà esprime una metamorfosi che non conduce affatto verso l'autonomia, ma dentro il mondo degli altri, dei carcerieri della scimmia, i quali hanno annichilito la sua alterità, rendendola così disponibile ad essere ammaestrata. È un'uscita senza scelta: o scimmia e prigioniera o morta, oppure uomo e libero, ma non autonomo. Del resto, in un mondo di uomini, chi potrebbe mai dubitare che essere uomo non sia meglio che essere scimmia? Come ci ha ricordato Nietzsche, andate a dire alla zanzara che non è il centro del mondo! Dal punto di vista di un uomo, quale migliore aspirazione per una scimmia che diventare uomo? Se, per ottenere la libertà, si è costretti ad essere assimilati, a mimetizzarsi, questa costrizione è il prezzo che inevitabilmente si paga per una libertà che non può essere affiancata dall'autonomia. Anche le lotte per la libertà possono creare costrizione e impedire l'autonomia. 

Nel breve racconto di Kafka che Max Brod intitolò La partenza, mentre il protagonista sta sellando il cavallo per la partenza, il servo gli chiede: “Dove va il signore con il suo cavallo?”. “Non lo so”, dissi io, “purché sia via di qua, solo via di qua. Via di qua senza sosta, soltanto così potrò raggiungere la mia meta”. “Dunque conosci la tua meta”. “Sì”, replicai,“l'ho detto, no? Via-di-qua... ecco la mia meta”. 

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Per il protagonista mettersi alle spalle il luogo della partenza diventa dunque esso stesso una meta. A dire il vero, questa strana meta non sembra essere molto diversa dalla fuga. Cosa può far sì che una simile meta non si identifichi necessariamente con una fuga? Il fatto che il "Via-di-qua", il mettersi alle spalle il luogo della partenza diventi non la meta stessa, ma un momento di una meta che ancora non si conosce. Non si tratta della medesima cosa. Una differenza percorre la linea di confine tra la ricerca di una via d'uscita che assume i tratti caratteristici di una fuga e la ricerca di una uscita che invece assume i tratti caratteristici dell'autonomia. Nel primo caso la scelta è, per così dire, obbligata, nel secondo caso è, per così dire, voluta. Di solito si fugge per sopravvivere, quando si è prigionieri di altri o di sé stessi. La ricerca dell'autonomia sembra invece avere più a che fare con un atto di volontà che si accompagna a un processo di separazione e di isolamento dagli altri. L'autonomia, nella nostra cultura, tende a identificarsi con quel risultato della separazione e dell'isolamento che per solito chiamiamo indipendenza

Ma le cose stanno davvero così? È davvero così marcata, chiara ed evidente la differenza tra fuga e autonomia, tra la disperata ricerca di una via d'uscita, come quella attuata dagli animali protagonisti di moltissimi racconti di Kafka, la cui sopravvivenza è affidata al loro nascondersi nel buio di una tana o alla loro abilità mimetica, oppure come quella di prigionieri in un carcere o in un lager, e l'uscita dalla minorità che Kant descrive come un volontario e consapevole passaggio alla luce, un processo di rischiaramento? E se invece la differenza fosse più ambigua e sottile di quel che sembra? E se il problema stesse proprio nel confine che, invece di separare il buio della sopravvivenza dalla luce dell'autonomia, li mette in comunicazione diventando esso stesso linea di una cornice, luogo di un passaggio che rivendica un proprio senso autonomo? In fondo, quando Robinson Crusoe si imbarcò per poi, dopo vari viaggi, naufragare nell'isola deserta e lì edificare i tratti dell'individuo borghese, maschio, bianco, adulto, isolato e indipendente, con la Bibbia in una mano e il fucile nell'altra, lo fece disubbidendo al padre. Fu una fuga? Quale è il confine tra la fuga dal padre e la ricerca della propria autonomia? E inoltre, quella Bibbia e quel fucile, insieme a tutti gli altri oggetti che egli recuperò dal relitto, non sono forse, come già aveva rilevato Marx, i testimoni silenziosi della sua dipendenza da quel mondo storico-sociale da cui era stato isolato a causa del naufragio? 

Quando la sorella tolse il quadro dalla stanza non annientò forse, senza volerlo, l’ultimo residuo di dipendenza dall’umanità di Gregor Samsa il quale poté vivere la sua autonomia e la sua diversità soltanto nelle spoglie di un insetto destinato a soccombere?

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