Alain Badiou: disorientamento

7 Novembre 2023

“Il concetto di ideologia, e ancor più di ideologia dominante… è manifestamente caduto, come tutta quanta l’impalcatura marxista attiva, in un oblio provvisorio, proprio nel momento in cui dovrebbe essere di sorprendente attualità” (p. 97). Così scrive Alain Badiou nel suo Osservazioni sul disorientamento del mondo, (Neri Pozza, Vicenza 2023), all’indomani di quel tragico evento planetario che è stato il covid. E dopo il covid? Le guerre, mai sopite, si sono riaffacciate nell’area dell’Europa, tra Russia e Ucraina, oppure sono ritornate come quella infinita tra Israele e Palestina, mentre le crisi ambientali vengono espresse dall’ironia involontaria del mercato che ormai vende quasi soltanto merci dichiarate sostenibili, compatibili con l’ambiente, non inquinanti, non tossiche ecc. entro quella globalizzazione che troviamo realizzata solo nella noiosa ripetitività delle vetrine di tutte le città del mondo ormai omologate nel mostrare le stesse marche o, se proprio vogliamo soggiacere all’anglicismo imperante, gli stessi brand.

Ovunque si vada, da Milano a Praga, da Roma a Vienna, da Parigi a Berlino, da New York a Rio de Janeiro, da Tokio a Bombay scarpe, t-shirt, felpe, auto, frigo, lavatrici, borse, a dispetto dell’alterità, della diversità, del rispetto dei diversi costumi e persino dell’individualismo imperante, sono più o meno le stesse. I colori delle merci esposte ci danno alla fine il grigio dell’omologazione. Perché dovremmo essere disorientati? Anzi siamo rassicurati dal tutto uguale, siamo orientati da un ordine che governa il caos del molteplice. Del resto non è la stessa cosa dei famosi non luoghi di cui parlava Marc Augé? In un mondo fatto di donne e di uomini che circolano incessantemente, non c’è niente di più rassicurante dell’omologazione di non luoghi come aeroporti che sono più o meno tutti uguali nell’architettura e nelle procedure di attesa, di imbarco, di sbarco e persino nella lingua. E il concetto di ideologia dominante, come scrive Alain Badiou, è dimenticato.

Per forza! È nella natura dell’effetto dominante dell’ideologia il suo scomparire come tale. Karl Marx rilevava che le ideologie dominanti sono le ideologie delle classi dominanti che appunto non si presentano come tali, bensì come una condizione naturale della società e del suo modo di concepire sé stessa. Di conseguenza, il mantra secondo cui siamo nell’epoca della fine delle ideologie è l’involontaria conferma che le ideologie non solo non sono finite ma si affermano senza mostrarsi come tali, come idee dominanti, come idee. Si naturalizzano e diventano abitudini, evidenze, ovvietà. Le idee dominanti determinano l’orientamento. Ma che succede quando i disordini del mondo producono disorientamento? “Partendo dai palesi disordini del mondo contemporaneo alla mercé della pandemia sono arrivato – scrive Badiou – alle azioni contemporanee dell’ideologia dominante.

Per chiarire un disorientamento fattuale è stato dunque necessario prendere in considerazione l’orientamento invariabile dell’ideologia nella quale si riflettono in genere gli episodi di apparente disorientamento. In un mondo alienato la relazione dialettica va dunque dall’ordine al disordine” (p. 107). Quali sono questi episodi di disorientamento? Intanto le contraddizioni a cui va incontro il cosiddetto liberalismo autoritario e le reazioni che esso ha suscitato dopo l’oscillare, in particolare del governo francese, ma la cosa si può tranquillamente estendere, tra “la fermezza repubblicana” che protesta contro l’invasione dei migranti e la protezione delle libertà individuali e civili, attaccate dall’obbligo della vaccinazione al tempo del covid.

Badiou, con fare ironico, individua quattro tipi di reazione: il primo è quello dei “veri democratici”, coloro per i quali la libertà viene prima di ogni cosa, in particolare “prima della morte di chi è più povero di loro”; il secondo è dato dai “nazionalisti autentici”, i nostalgici della Grande Francia e del colonialismo; poi ci sono i “liberali classici”, “magari anche corrotti, ma fedeli guardiani della sola economia che conti, quella che proclama, a partire dal XVIII secolo: ‘Laissez faire i soldi, lasciateli circolare’ “(p. 11). Il quarto tipo è invece rappresentato dal nuovo gauchismo emerso negli ultimi dieci anni, secondo cui bisogna criticare sempre, agire compatti e non proporre mai niente. Mi soffermerò sul terzo e sul quarto tipo di reazione al disorientamento.

Il liberale moderno è quello che conosciamo bene anche nel nostro paese. È l’assoluto dominatore ideologico della società contemporanea, è il paladino della privatizzazione a tutti i costi, è il rottamatore delle riforme sociali ottenute per esempio qui in Italia negli anni ’70, è il nemico giurato dello stato sociale, è il distruttore delle nazionalizzazioni. “Ma, insiste Badiou, il liberale vede più lontano: bisognerà privatizzare anche le università, le grandes écoles, gli ospedali, una parte dell’esercito e della polizia. Occorrerà assicurarsi dal basso (la cosa è già in fase molto avanzata) che tutti i mezzi d’informazione di massa, la stampa scritta, la radio, la televisione, internet, siano nelle mani di solide imprese private” (p. 17). Quante e quali sono nel nostro paese, a destra come a sinistra, le forze politiche che dissentono da questa “legge universale” che da noi il berlusconismo ha definitivamente imposto come fatto culturale?

Qualcuna si illude di tamponare gli effetti disastrosi di questa ideologia, ma più o meno tutte accettano, esplicitamente o implicitamente, e ipocritamente, l’idea che vi sia compatibilità tra neoliberismo e privatizzazione da un lato e eguaglianza sociale e condizioni ambientali vivibili dall’altro. Il quarto tipo in Francia ha avuto e forse ha una valenza che in Italia, paese del tutto assopito e assorbito dagli apericena, non è dato riscontrare almeno nelle forme che hanno caratterizzato i movimenti di protesta d’oltralpe. Badiou rileva che le lotte contro l’autoritarismo sorte durante il covid e l’obbligo delle vaccinazioni hanno trovato la sinistra in compagnia della destra nazional-liberale, così come già era accaduto con i famosi Gilet gialli.

Questo quadro critico e ironico insieme permette di introdurre l’obiettivo di Badiou, quello di mostrare come tutto ciò prepari “il possibile e difficile avvento del nuovo comunismo” (p. 19). Non ce ne dà, per fortuna, la ricetta né tale avvento assume i toni della profezia. Badiou cerca le precondizioni di un nuovo comunismo e queste stanno appunto nei modi disorientati con cui i diversi movimenti ideologici rispondono all’orientamento ideologico dominante che è quello appunto dell’autoritarismo neoliberista. Per comprendere il disorientamento è stato necessario partire dall’ “orientamento invariabile dell’ideologia nella quale si riflettono in genere gli episodi di apparente orientamento” (p. 107). 

Tra le espressioni del disorientamento Badiou mette il femminismo e l’ecologia: “femminismo ed ecologia non fanno minimamente paura ai procuratori del Capitale che oggi ci governano. È chiaro che queste configurazioni ideologiche ricadono nell’ambito categoriale delle negazioni deboli e siano addomesticabili dal capitalismo e suoi procuratori, essendo complessi mentali che discendono da una combinazione, forse inedita, tra interiorità e dipendenza” (p. 58). E qui, premettendo che le malefatte maschili da denunciare alla polizia e ai giudici sono vastissime, egli nota che tuttavia si è perso il confine tra il modo di segnalare il desiderio sessuale da una parte e la violenza e lo stupro dall’altra. Da questo punto di vista rileva tre fenomeni: 1) La promozione della delazione che è diventata una pratica di massa a causa di “quelle calamità pubbliche che sono i social” (p. 62).

Fermo restando che il discorso di Badiou non riguarda i casi di stupro o di violenza, la delazione viene alimentata dall’opinione pubblica e dallo Stato repressivo; 2) lo scatenarsi incontrollato delle opinioni. Non si riesce più a distinguere tra opinione e conoscenza; 3) la reinvenzione dell’amore. Badiou accusa il femminismo di essere indifferente rispetto all’amore e anzi di creare una barriera fra i sessi basata sul sospetto. Per Badiou, “l’amore è il divenire differenziato di ciò che è comune. È il comunismo minimale” (p. 67). 

Che nell’epoca del capitalismo neoliberista basato sull’individualismo vi sia confusione tra diritto e comunità è un fatto; che le questioni di diritto, ancorché necessarie, stiano diventando sostitutive dei rapporti umani è un altro fatto, che in politica, specie a sinistra, la questione dell’amore sia considerata non pertinente è tristemente noto, tuttavia questi fenomeni che di sicuro producono disorientamento non sono sufficienti per ridurre il femminismo a un movimento fondamentalmente filocapitalistico, tanto più che Badiou, semplificando troppo, non tiene conto di una discussione e di un dibattito che si pone proprio il problema della compatibilità o meno del femminismo con la realtà storica e sociale del capitalismo. Analogamente, quando affronta il tema dell’ecologia e critica l’onnicomprensivismo dei movimenti, che si rivolgono in modo indifferenziato a tutti e dunque non tengono conto delle differenze di classe, la sua risposta, non so se in nome del comunismo da rinnovare, è quella che Macron ha usato formulare: “la salvezza può e deve venire dal nucleare, da migliaia di piccole centrali poco inquinanti, disseminate un po’ dappertutto” (p. 76).

Qui, come per il femminismo, la delusione è grande! Ma come, tutto qui il comunismo rinnovato? Rinnovato da cosa? Dalle centrali nucleari disseminate nel territorio? A questo punto il disorientamento non riguarda più i movimenti femministi e quelli ecologisti. A questo punto il disorientamento riguarda la possibilità di un nuovo orientamento che disorienta. Il comunismo non è più il movimento reale che abbatte lo stato di cose presenti, è una critica disorientante del disorientamento.

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