Abbracciare a Gaza
Per quanto tempo riesco a guardare la foto di Mahmoud Ajjour? Poco, pochissimo, e solo a patto di fissare il ragazzino e non i moncherini delle braccia. La fotografa palestinese Samar Abu Elouf ha inquadrato Mahmoud in una penombra: la luce scende da destra, colpisce il suo viso dolente, il petto e la canottiera, e lascia in ombra quello che resta del suo braccio sinistro. E invece per scrivere queste righe lo guardo e riguardo. Il viso sembra uscito da un quadro di Caravaggio, per quel taglio e anche per l’intensità, così penso. L’arte e anche la poesia mi vengono in aiuto per farmi da scudo davanti a questo orrore: “l’anima abbraccia/ li spiriti che piango tuttavia”. Da quale recesso viene questo verso del padre Dante? Lo controllo perché non ne sono sicuro. Così sullo smartphone sparisce il viso di Mahmoud e mi appare la voce “Abbracciare” dalla Enciclopedia dantesca. “Cingere le braccia”, così inizia la pagina web che riporta le tante volte che il Poeta cita il verbo. Ho cercato questi versi perché nella didascalia di questa immagine – che ha appena vinto il World Press Photo del 2025 e raffigura il bambino rimasto gravemente ferito a Gaza nel mese di marzo dello scorso anno – la fotografa ha raccontato che Mahmoud quando ha capito cosa gli era accaduto avrebbe detto alla madre: “Come farò ad abbracciarti?”. Una frase che lascia senza fiato, una frase di un affetto che travalica ogni altra cosa poiché nasce dal cuore di un innocente. Adesso sono qui a scrivere queste righe perché non si può tacere, perché bisognerebbe urlare lo strazio di questo ennesimo raccapriccio – dovevo ripetere la parola “orrore”, non c’è un altro termine per dirlo, e forse dovrei scrivere questa parola cento volte su questa pagina, ma a cosa serve? Lo scorso anno, forse lo ricordate anche voi, il premio – premio fotografico all’orrore purtroppo – è andato a un’altra tragica immagine, anche questa scattata a Gaza: Inas Abu Maamar, donna palestinese di trentasei anni, stringeva il corpo di una bambina avvolta nel lenzuolo bianco: Saly, di cinque anni, è stata uccisa insieme alla madre e alla sorella, un missile israeliano ha colpito la loro casa. Non si vedevano i volti della Mater dolorosa e neppure della nipote. Non c’era un viso umano da guardare, forse per nostra fortuna. Il viso di Mahmoud Ajjour rende più straziante ancora la mutilazione, per quanto in parte nascosta dall’oscurità in cui è immerso il suo corpo martoriato. Quel viso parla anche se le labbra sono serrate. Che dice? Una parola che non può essere scritta. E cosa posso dire io ancora? Ci vuole un premio fotografico per farci guardare lo strazio di Gaza, il suo indicibile dolore? La legge spietata della comunicazione, che domina il nostro universo, dice: sì. Ci vuole una fotografia per guardare e per vedere. Ancora una volta devo ricorrere alle voci della letteratura, a quelle che ci parlano e ci illuminano, nonostante tutto, in questo mondo che non conosce la pace, e neppure la giustizia. Sono le parole di Susan Sontag il cui libro, Davanti al dolore degli altri (Nottetempo), continua a parlarci, mai invano. È poca cosa, ma è ancora qualcosa in mezzo a questa realtà che dallo sterminio di Gaza alla guerra in Ucraina usa solo la lingua del dolore. Sono le ultime righe del suo libro. Susan Sontag si riferisce ai morti, ma credo valga anche e soprattutto per i vivi, per questo ragazzino: “Perché mai dovrebbero cercare il nostro sguardo? Che cosa avrebbero da dirci? “Noi” – e questo “noi” include tutti quelli che non hanno mai vissuto nulla di simile a ciò che loro hanno affrontato – non capiamo. Non ce la facciamo. Non riusciamo a immaginare davvero come è stato. Non possiamo immaginare quanto sia terribile e terrificante la guerra; e quanto normale diventi. Non capiamo, non immaginiamo. È questo ciò che pensano con convinzione tutti i soldati, e tutti i giornalisti, gli operatori umanitari, gli osservatori indipendenti che si sono ripetutamente esposti al fuoco e hanno avuto la fortuna di eludere la morte che ha falciato chi stava loro vicino. E hanno ragione”.
In copertina, Mahmoud Ajjour, Aged Nine © Samar Abu Elouf, per il The New York Times.
