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Hamdan Ballal. Strange fruit

27 Marzo 2025

Ci sono arrivata di colpo, come se la verità si fosse imposta con la forza dell’evidenza: chi commette i crimini più inimmaginabili alla luce del sole, alla lettera sotto i nostri occhi, può godere di una perfetta impunità proprio perché li commette apertamente, con sfrontatezza, senza bisogno di giustificarli.

Li commette, potremmo dire, ‘perché sì’.

Se così è, più il crimine è grande, più l’impunità è data. Era – e sotto altra veste e/o sigla continua a esserlo – la regola degli Imperi coloniali, ma anche del Ku Klux Klan. Si può, perché si è sicuri del vantaggio e dunque del consenso di alcuni, e della paura, dell’indifferenza o del servilismo dei più.

Lunedì 24 marzo 2025, mentre a Rafah, lembo meridionale della Striscia di Gaza, si bombardava uccidendo alla rinfusa civili, combattenti, giornalisti, personale sanitario, operatori umanitari, bambini, anziani, donne, a Susya, nell’area di Masafer Yatta, in Cisgiordania, le IDF, forze di difesa israeliane, arrestavano Hamdan Ballal, uno dei quattro registi di No Other Land, ‘pestato’, ‘linciato’, ‘picchiato a sangue’ – secondo il vocabolario sempre più impreciso dei media – da coloni israeliani in armi spalleggiati dall’esercito di Israele.

Esattamente tre settimane prima, nella notte tra il 2 e il 3 marzo, quel film – realizzato dai palestinesi Hamdan Ballal e Basel Adra e dagli ebrei israeliani Yuval Abraham e Rachel Szor – era stato insignito del premio Oscar come miglior documentario dell’anno. E gli occhi del mondo si erano puntati, d’un tratto, su quell’angolo di terra che molti neanche sapevano dove fosse e di quali eventi, da decenni, fosse scenario.

Nel febbraio scorso, scrivendone per “Doppiozero”, mi domandavo che cosa possa il cinema e come faccia a ottenerlo. Un film, in particolare se si definisce ‘documentario’, deve informare, mostrare, denunciare, commuovere, indignare? Oppure il suo compito è, appunto e innanzitutto, quello di documentare, ponendosi indirettamente come strumento politico del presente da un lato e prezioso contenitore di memoria dall’altro? Come, in ogni caso, fare l’una e/o l’altra cosa, discostandosi attraverso la scrittura filmica dai reportage televisivi e dalle cronache in presa diretta diffuse dalla rete? Oggi, alla luce dei fatti appena accaduti, la questione è un’altra ed è infinitamente più grave e, sì, sconvolgente.

L’attenzione mondiale che l’Oscar ha richiamato sul diligente, appassionato lavoro di documentazione e denuncia dei quattro autori di No Other Land li ha sovraesposti, facendone un bersaglio ideale per chi sembra voler verificare senza tregua di quanto si possa spostare impunemente verso l’alto l’asticciola del consentito, del tollerabile, del moralmente lecito. Trasformati in star mediatiche e in oggetto di culto spettatoriale dal riconoscimento hollywoodiano, in altri tempi Ballal, Adra, Abraham e Szor sarebbero stati ‘intoccabili’. La loro fama avrebbe fatto loro da scudo: nessuno si sarebbe azzardato a sfiorarli, a rischio di produrre un effetto boomerang. Oggi, invece, è proprio la loro visibilità globale a suggerire di colpirli, ottenendo un duplice effetto: punire e neutralizzare loro e misurare la soglia di tolleranza dell’opinione pubblica mondiale, lo stato di assuefazione o di sedazione in cui versiamo, la nostra residua capacità di distinguere il reale dall’immaginario e di reagire.

E se a Gaza, ridotta a camera della morte, è ripresa la mattanza è perché anche lì si sta testando l’atrofia del sensibile cui siamo giunti o – ma non è in fondo la stessa cosa? – la nostra incapacità di convertire in passioni attive e aggreganti i sentimenti di inquietudine, angoscia, depressione, vergogna, indignazione che pure abbiamo.

***

A distanza di ventiquattro ore dall’arresto e di una notte violenta in un carcere israeliano, Hamdan Ballal è tornato a casa. A difenderlo, l’avvocata ebrea israeliana Lea Tsemel, una delle figure più luminose, coerenti e incrollabili della galassia democratica di quel paese. Dalle cronache giornalistiche e televisive che riportano il fatto non è dato tuttavia capire perché Ballal sia stato oggetto di quell’angheria. Certo è che il suo ‘non anonimo’ caso ha attirato l’attenzione dei media, distraendo l’opinione mondiale da quanto intanto accadeva a Gaza e, al contempo, confermando la legittimità dell’arbitrio. L’arbitrarietà, che si sa al di sopra del diritto, non è forse il corollario dell’evidenza di cui parlavo poc’anzi?

Il 19 luglio 2018 il parlamento israeliano approvava una legge costituzionale che faceva di Israele lo “Stato nazione del popolo ebraico”. Quel giorno stesso, dalle pagine del quotidiano israeliano “Haaretz”, il giornalista Gideon Levy la commentava con queste parole: «La legge sullo Stato nazione (che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei, declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale) mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è. La legge mette fine anche alla farsa di uno Stato israeliano “ebraico e democratico”, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno.

Se lo Stato è ebraico non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico, poiché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell’origine etnica. Quindi la Knesset ha deciso: Israele è ebraico. Israele dichiara di essere lo Stato nazione del popolo ebraico, non uno Stato formato dai suoi cittadini, non uno Stato di due popoli che convivono al suo interno, e ha quindi smesso di essere una democrazia egualitaria, non soltanto in pratica ma anche in teoria. È per questo che questa legge è così importante. È una legge sincera.»

Cito le parole di Levy, perché sincerità rima non da oggi con prepotenza. Si dice quel che si fa, si fa esattamente quel che si dice. In altri termini, tra il dire e il fare non c’è soluzione di continuità: si dice ‘inferno’ e inferno è; si dice ‘li riporteremo all’età della pietra’ ed ecco che la Striscia di Gaza si trasforma in un’apocalisse di macerie; si dice ‘li trasferiremo’ ed ecco che i campi profughi di Cisgiordania vengono capillarmente smantellati, disperdendone gli abitanti e cancellando quel che resta dell’idea di ‘diritto al ritorno’.

Non credo sia necessario dire altro di ciò che sta avvenendo in Palestina. Per vedere, basta guardare. Mi preme invece ricordare che nulla di tutto ciò sarebbe possibile se lo ‘stato di esenzione’ di cui Israele gode non fosse suffragato dai nostri governi, che in vario modo lo sostengono, legittimano e armano. Sì, il massacro oggi in corso a Gaza è un ‘genocidio assistito’. E altrettanto ‘assistito’ è il piano di colonizzazione e annessione della Cisgiordania. Poiché ci pregiamo di essere cittadine e cittadini di uno stato democratico, se rimaniamo in silenzio ne siamo direttamente responsabili.

Ecco un raccolto strano e amaro.

(Milano, 26 marzo 2025)

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