Dress code 12. Vestire fuori norma

19 Aprile 2025

Ci sono situazioni da cui sembra impossibile fuggire, in cui ci si sente bloccati, come quando si indossa un capo troppo aderente, che va “stretto”. Un abito può restituire le stesse sensazioni di una trappola, ma, al contrario, può anche diventare uno strumento per risalire dagli abissi. Quando rappresenta una presa di posizione, un vestito può persino sovvertire lo status quo, o, meglio ancora, sconvolgere il mondo.

Nel libro 100 abiti che sconvolsero il mondo (24 ORE Cultura 2024), Massimiliano Capella raccoglie esempi emblematici in cui la moda ha disintegrato le convenzioni. Ciò che colpisce, tra le pieghe dei cento profili tracciati da Capella, è che lo “sconvolgimento” nasce da un gesto individuale, da una scelta che scardina il sistema, spesso compiuta da una donna.

Quando Lady Gaga calca il red carpet degli MTV Video Music Awards del 2010 avvolta in un abito di carne cruda, il mondo — della moda e non solo — rimane scioccato. L’abito/opera di Franc Fernandez, ideato da Nicola Formichetti, va oltre copertura e ornamento: è scultura, provocazione, dichiarazione. Una presa di posizione che innesca una deriva di interpretazioni poi direzionata da Lady Gaga in un’intervista del settembre 2010 al Daily Telegraph: "ha molte interpretazioni. Per me questa sera è: se non difendiamo ciò in cui crediamo e se non iniziamo a lottare per i nostri diritti, presto avremo gli stessi diritti che ha la carne attaccata alle nostre ossa. E io non sono un pezzo di carne”.

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Il messaggio è chiaro: l’abito non è mai solo un abito. Può essere linguaggio, arma, proclama. Ha tante funzioni quante sono le possibili intenzioni con cui è indossato, ragion per cui il suo statuto va oltre la materia inorganica perché, una volta a contatto con il corpo, si fonde con l’organico acquisendone le proprietà caratterizzanti. Il corpo vestito può riplasmare narrazioni.

È il corpo femminile a usare l’abito per dissentire dai ruoli imposti.

Come nel caso di Lady Diana e del suo Revenge Dress. Il 29 giugno 1994 Diana ha in agenda la partecipazione al party di Vanity Fair presso la Serpentine Gallery, ma proprio quel giorno suo marito — oggi Re Carlo III — confessa in televisione la relazione con Camilla Parker-Bowles, con la quale, nell’aprile 2025, ha festeggiato vent’anni di matrimonio a Roma, durante una visita di Stato. Diana non è nelle condizioni di rispondere con le parole, e sceglie di farlo con un abito: corto, scollato, aderente, in totale dissonanza con il cerimoniale di corte. Una creazione inedita della stilista greca Christina Stambolian, realizzata per lei già qualche anno prima.

Non serve dire nulla: basta aprire l’armadio e trovare l’outfit giusto. Quel corpo vestito riscrive la narrazione pubblica — da moglie tradita a donna libera.

Il corpo cessa di essere oggetto del male gaze e diventa soggetto di uno sguardo nuovo, consapevole, sovversivo.

Ma non sempre la liberazione parte dalle donne. All’inizio del Novecento, Paul Poiret immagina un guardaroba femminile senza costrizioni, a partire dall'eliminazione della sottoveste. Con Confucius (1905), il primo kimono occidentalizzato, inaugura una nuova idea di morbidezza e movimento, ispirata all’estetica giapponese, anche se si potrebbe obiettare che la denominazione e i motivi richiamino più la Cina e la Corea.

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La Principessa Diana, @GettyImages.

È pur vero che, in egual misura a Oriente e Occidente, si tende a sincretizzare troppo le culture riunendole per vicinanza geografica e, all'epoca, Poiret non aveva accesso a chissà quali informazioni. Nel 1906 Poiret continua a ridefinire il vestire femminile con l’abito Lola Montes, indossato da sua moglie Denise Boulet per il battesimo della loro prima figlia: elimina il corsetto per non ostacolare l'allattamento, alza il punto vita sotto al seno e riprende le linee del chitone greco. La donna torna a respirare.

L'utopia dura poco e la libertà del corpo femminile viene ostacolata da una decodifica aberrante di Poiret dell'orientalismo: nel 1910 introduce la jupe entravée, gonna lunga e stretta che costringe le donne a camminare a piccoli passi, con un incedere simile a una geisha giapponese. Dopo un anno, segue la jupe culotte, i primi pantaloni femminili da casa da indossare sotto una tunica lunga al polpaccio. Gli echi della jupe culotte smuovono mari e monti e arrivano anche al Vaticano, dove Papa Pio X chiede a Poiret di ridimensionarsi. E così il corpo viene liberato da una gabbia per entrare in un’altra, più elegante, chiamata gonna abat-jour, rigida come il paralume, capace di deviare i semi della rivoluzione.

In quello stesso decennio si riflette anche sulle costrizioni dell’abbigliamento maschile con Giacomo Balla, artista futurista, che crea, nel 1914, una tuta antineutrale: un abito politico, colorato, asimmetrico, pensato per aiutare l’uomo moderno a riappropriarsi della sua corporeità individuale, in barba agli imperativi di cautela, solennità, e seriosità. Nel Manifesto futurista, Balla proclama che gli abiti devono essere aggressivi, agilizzanti, dinamici, gioiosi, igienici, illuminanti. L’abito, qui, è un atto politico: il corpo vestito non serve solo a coprire, ma a combattere, a correre, a incendiare lo spazio pubblico.

La vera svolta arriva con le donne. La libertà vera, non solo sognata o sfilata, comincia con Coco Chanel. Il suo abito à la garçonne cancella il punto vita, adagia la cintura sui fianchi, elimina la rigidità. Chanel inizia il suo percorso di semplificazione chic con il charming chemise dress in jersey, reso famoso nel 1916 da Harper’s Bazaar, che ingloba nella moda il fare del corpo femminile, restituendo dignità al quotidiano, liberando dall'essere mero oggetto di osservazione.

A Chanel segue, in una linea più tagliente e ideologica, Elsa Schiaparelli. All’inizio degli anni Trenta, veste la donna come una guerriera urbana: spalle imbottite, linee verticali, abiti come divise. La hard-chic silhouette è una dichiarazione di forza, una risposta alla città moderna e al bisogno di abitare luoghi e occupare spazi. Se Chanel libera, Schiaparelli dichiara. Se Chanel conquista il comfort, Schiaparelli conquista il simbolo. A cui segue Frida Kahlo che conquista il tempo.

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Frida Kahlo by Guillermo Kahlo.

Nel 1942 Vogue America le dedica un editoriale intitolato Local Colour Mexican, celebrando il suo stile fuori dalle mode e dai canoni occidentali. Capella ricorda come l'immagine di Frida — con i suoi abiti della tradizione Tehuana, i profumi, i colori, i rebozos — abbia sedotto anche le borghesie americane, affascinate da quella “ventata d’aria messicana” portata da una donna che, per scelta estetica e politica, si rifiuta di cedere alla moda del momento.

L’abito, per Frida, non è travestimento né folklore, ma presa di posizione. Kahlo ha un'immagine pubblica codificata secondo la sua cultura, usata, al contempo, come costume sociale e abbigliamento personalissimo: un sistema-outfit composto dalla casacca di tela con pattern geometrico huipil, la gonna voluminosa heunaga, la corona di merletti holans, i sandali huraces, il tutto avvolto dall'iconico rebozo, la sciarpa-contenitore, di oggetti e neonati. Per Frida, il vestito è identità, resistenza, politica. I suoi abiti tradizionali non sono folklore, ma scelta radicale, affiliazione alle donne indigene e rifiuto dei dettami della moda occidentale. Frida non segue il tempo: lo indossa. Attraverso abiti e accessori, Frida impone uno stile personale e insieme collettivo, in cui l’indipendenza individuale coincide con la memoria culturale e con la solidarietà politica. È un caso esemplare in cui la moda non è solo espressione del sé, ma una presa di posizione nel mondo.

Dall’abito di carne al cappotto kimono, dalla jupe entravée alle spalline imbottite, dal rebozo al jersey di Chanel: il corpo attraversa la storia non solo come oggetto sociale, ma come discorso. Indossare qualcosa è sempre un gesto. Talvolta minuscolo, a volte silenzioso, ma mai neutrale.

Che si tratti di un red carpet, di una passerella o di una strada qualunque, ci sono abiti che fanno molto più che vestirci.

Ogni volta che un corpo veste fuori norma, mette in discussione un ordine. E questo, da sempre, è il vero potere dell’abito.

Gli abiti non cambiano il mondo, ma ci aiutano a starci dentro — e, a volte, a sfidarlo.

Indossare è sempre un atto culturale. E, in certi momenti, può diventare rivoluzionario.

Perché non è l’abito che fa la rivoluzione. Ma senza l’abito, la rivoluzione tende a restare invisibile.

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