
Speciale
La rivoluzione wok
Recentemente ho comprato una nuova macchina del gas. Oltre agli abituali elementi in ghisa sopra cui poggiare pentole e padelle, era compreso nel prezzo, senza che lo chiedessi, un adattatore per wok. Il wok, ricordiamolo, è il tradizionale tegame cantonese di forma conica o semicircolare buono per tutti gli usi: friggere e soffriggere, saltare, cucinare a vapore, bollire e così via. Anche grazie alla sua versatilità, dalla Cina meridionale s’è presto propagato in gran parte del Sud-Est asiatico e, col diffondersi dei cinesi nel mondo, è divenuto popolare pressoché dovunque. È, potremmo dire, emigrato con loro, e come tutti i migranti ha avuto vicissitudini d’ogni sorta, traducendo e tradendo, adattandosi alle cucine locali e, spesso, contribuendo alla loro trasformazione. Così è arrivato anche da noi: al punto che, più o meno inaspettatamente, si prevede che debba essere utilizzato di default da comuni mortali non per forza amanti di gastronomia etnica. Un arnese da cucina come tanti altri.

Ho tenuto in un armadietto in alto l’adattatore per molti mesi, sinché, riordinando la stanza dei fuochi in uno sprazzo di noia, è saltato fuori. Mai usato, splendente, lui sereno, io perplesso. Più che immaginarmi un modo per utilizzarlo qui e ora (basta chiederlo a Google o ad Alexa), ho provato a capire se, come e cosa il wok abbia modificato la cucina del Belpaese: la quale, nella sua granitica sicumera, di trasformazioni radicali ne ha subite parecchie. Ho interrogato amici e parenti ottenendo risposte dissimili: c’è chi lo usa regolarmente, benedicendo il supporto che lo tiene in equilibrio sul fornello, e chi non sa nemmeno che cosa sia. Ascoltando gente del mestiere, è venuto fuori di tutto, cioè assai poco. L’idea diffusa è quella più ovvia: per quanto la cucina cinese si sia diffusa dalle nostre parti, si è comunque poco ibridata con la nostra. L’ottima Garzantina della Cucina curata da Allan Bay descrive bene il tegame cinese, spiega come pulirlo, ma non dà ricette che ne prevedano l’uso domestico. Insomma: questo supporto che mi hanno rifilato sembra costretto a ritornare, vergine, nello scaffale superiore dello stipo.
L’illuminazione mi arriva di colpo, e come tutte le illuminazioni per caso, andando a pranzo in un piccolo ristorante del centro città, a Palermo, dove ordino busiate al tonno. (Le busiate, per chi non lo sapesse, sono un formato di pasta trapanese presenti da tempo nei menu di molte zone dell’Isola, specie di grossi spaghetti avvolti su se stessi, come fusilli allungati ma più spessi e insieme più leggeri). Quel che colpiva, in quel piatto, era l’aspetto visivo, il gioco di camouflage che si innescava fra ciò che si vedeva e ciò che si assaporava o, meglio ancora, fra il nome della pietanza, la sua immagine esteriore e i sapori che effettivamente emanava. Il nome era referenziale: era quel tipo di pasta là, e c’era del tonno appena scottato, ancora molto rosso, a condirla. I sapori rispecchiavano più o meno il nome: ma alla fine emergeva un contrasto inaspettato fra il gusto di quel pesce, freschissimo, e il gusto del burro che imbiancava le busiate. Quanto all’aspetto visivo, quel piatto ricordava piuttosto gli spaghetti della nonna: serviti nature con una cucchiaiata di sugo di pomodoro sopra. E poco importa stabilire se il cuoco abbia volontariamente indirizzato questa strizzata d’occhio alla storia della gastronomia nazionale o quanto, invece, questa si sia creata per così dire da sola, grazie a meccanismi culturali profondi, inconsapevoli e proprio per questo più forti. Ecco l’immagine del piatto in questione:

Oggi la pasta viene portata in tavola già amalgamata col suo condimento, di modo che, in ogni piatto, pastasciutta e intingolo arrivano ben mescolati. Ma si ricorderà che, fino a una ventina d’anni fa o poco più, gli spaghetti, e in generale la pasta, venivano serviti bianchi in tavola, con un po’ di salsa di pomodoro al top, e spettava al singolo commensale mescolarli a piacere prima di gustarli. Molto a lungo s’è fatto così, e in alcune famiglie più legate alla tradizione accade ancora. Le giovani generazioni non lo sanno, e quando glielo si racconta scatta, da un lato, l’incredulità e, dall’altro, una latente nostalgia, un vago senso di bel tempo andato.

Quella pietanza, quel giorno là, era perciò stata realizzata sotto il segno del vintage, ma soltanto nell’impiattamento, nell’aspetto visivo. La pasta era bianca, il burro intensificava questo colore, a suo modo però condendola. Il tonno stava sopra, spolverata d’un rosso assai forte, separato dal resto ma pronto a esser mescolato alle busiate secondo il gusto e le fisime del singolo convitato. Perché tutto ciò? questa composizione stava influenzando il gusto del piatto? stava favorendo la creazione del cuoco? serviva a dettare un preciso modo di degustazione? Pare proprio di no. La risposta è un’altra: si trattava d’un gioco, soltanto un gioco di camuffamento, è ovvio. Non sappiamo se voluto o inconsapevole, da parte del cuoco, ma comunque evidente agli occhi di un commensale, diciamo, agé.
Comincia allora un’altra inchiesta: a che cosa è dovuta questa trasformazione – estetica e gastronomica – così epocale? chi e quando ha deciso di mescolare la pasta in cucina, o nella zuppiera, e non più nel piatto? Si tratta della scelta di un cuoco di alta ristorazione che s’è poi diffusa o, viceversa, è un’abitudine anonima che è nata per caso e s’è propagata pian piano? Pare non ci sia una risposta univoca, molte supposizioni, nessuna certezza. Un’ipotesi, supportata da alcune recenti ricerche di Dario Mangano (Ikea e altre semiosfere, Mimesis 2019), è che sia stato proprio il wok, una volta sbarcato nella Penisola e adattato agli usi locali, a favorire questo passaggio, non a causarlo, certo, ma a contribuirvi considerevolmente. Non però il wok cinese tale e quale ma quella sua traduzione italiana che è il cosiddetto saltapasta, l’arcinota padella non più piatta, come tutte le solite padelle, ma tendente al semicircolare, come è appunto il wok.
L’ibridazione fra la padella tradizionale italiana e il wok cinese ha generato il saltapasta, oggetto già da un po’ di tempo adorato dai cuochi domestici dilettanti che ha reso possibile quel gesto teatrale – o ancor più televisivo – che è lo spadellare, gioco di polso non facile che garantisce una mescolanza ben riuscita tra la pasta e il suo condimento, gli spaghetti e il sugo, le farfallette e il salmone... Grazie al saltapasta, significativa innovazione fra la batteria familiare delle pentole, si fa della cucina un teatro (pronto a farsi gastromania) e si fornisce alla pasta una dimensione più elaborata. Trasferendo dal commensale al cuoco il gesto del mescolare sugo e spaghetti, il piatto italiano per eccellenza diviene una pietanza gastronomica a tutti gli effetti, senza più quella informalità popolaresca che ha conservato a lungo grazie alla figura sgraziata del mangiamaccheroni. E se pure, come è lecito pensare, a mescolare gli spaghetti in cucina è stata prima la cucina professionale e poi quella domestica, come suggerisce Mangano, il risultato non cambia. Anzi forse si accentua la dimensione spettacolare assunta in casa e da lì proiettata sui teleschermi dell’ora di pranzo.
Non so se è realmente accaduto così, ma è un’ipotesi ragionevole. La quale ci ricorda alcune cose di varia natura. In primo luogo, apprendiamo che anche (soprattutto?) nella dimensione culinaria vige il principio per cui non migrano solo soggetti ma anche oggetti, non solo umani ma anche non-umani. È l’idea della cultura materiale, che non è soltanto roba da folkloristi impenitenti ma da etnografi del contemporaneo. A generare dinamismo nella sfera antropologica è l’azione sensata che l’uomo trasferisce agli oggetti, più o meno tecnologici, e che da questi ritorna, tradotta da una catena di mediazioni, alla sfera umana. Quel supporto di ghisa custodito in alto nell’armadietto ce lo dimostra senz’ombra di dubbio. In secondo luogo, questa piccola vicenda che abbiamo raccontato sottolinea ancora una volta l’idea che, nella ricostruzione storiografica e antropologica, non occorre cercare rapporti univoci di causa ed effetto ma reti di relazioni in presupposizione reciproca. Non sappiamo chi causa che cosa, e forse non è interessante stabilirlo. Il nuovo oggetto arrivato chez nous ha contribuito a trasformare la gastronomia locale modificando innanzitutto se stesso, e agendo altresì sul gusto delle persone, sulla professionalità dei cuochi, sulle abitudini alimentari, sull’estetica visiva dei piatti, sulle mode televisive e no, sui valori e sui metavalori che sono implicati in tutto questo. Rete di intercessioni che possiamo riordinare a piacimento, dove a contare non è appunto la causalità ma le relazioni reciproche entro un sistema – una struttura si sarebbe detto un tempo – dove tutto si tiene; e dove non è individuabile alcun Autore (artista o chef poco importa) come glorioso responsabile dell’accaduto. Detto ciò, resta il fatto che una volta costituito faticosamente un simbolo alimentare (la pasta come napoletanità divenuta italianità), non solo lo si può cambiare di fattura (riarticolandone le sostanze) ma anche di valore (da piatto popolare a pietanza semi-gourmande). Quel quasi-oggetto che mi hanno omaggiato insieme ai fornelli è portatore involontario di una formazione assai complessa di significazioni. Dio sta nel particolare. Con buona pace dei gastropuristi.
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