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Il panino: attenti a quei due!
La Stazione Centrale di Milano è la fiera dei panini. Ogni bar espone i suoi, di ogni natura e cultura, forma e contenuto. Aspettando il treno, o scendendovi affamati, la scelta è ampia e variegata. Ci sono quelli con nomi di città italiane, dove dominano salumi e formaggi, ognuno dei quali si propone come specialità regionale. Ci sono i vegani, ma soprattutto i vegetariani o gli ex-etnici, con salmone, guacamole, salsa di soia e chissà cos’altro. Ci sono le botteghe in franchising, con i loro menu rassicuranti per i clienti habitués. Al piano terra c’è un bar coi tavolini che ha l’aria di sentirsi gourmet. Non mancano nei dintorni le più classiche michette del mercato. Se poi si sale sulla carrozza centrale del Frecciarossa, altre pagnottelle ancora.
Stessa cosa in moltissime altre stazioni ferroviarie italiane (Bologna, Roma, Napoli…), e indiscutibilmente negli aeroporti, nelle stazioni di servizio delle autostrade, nelle vie turistiche tutte uguali delle città d’arte, nei centri commerciali, nei bar di scuole e università… Siamo un popolo di viaggiatori impenitenti, di consumatori voraci, di affamati turisti per caso: si parte per divertimento o per lavoro, e sempre c’è la necessità di mettere qualcosa sotto i denti, meglio se accompagnato da una bibita fresca, meglio ancora se, questo qualcosa, riesce a essere un po’ più che mangiabile, se non addirittura saporoso.
Cos’hanno in comune tutti questi panini? È abbastanza evidente: sono segni di se stessi, panini che significano panini, cibo semplice e veloce, orgoglioso di rispettare la sua connotazione tanto stereotipa quanto avvincente: l’italianità. Il panino, si sa, è per definizione italiano, un po’ come l’opera lirica e la pizza, o almeno così si crede in giro per il mondo e, per contraccolpo, crediamo noi abitanti del Belpaese. È il destino d’ogni supposta granitica identità: sono sempre gli altri a donarcela, con più o meno convinzione, ma poi dalle nostre parti ci si attacca a essa appassionatamente, con fiero cipiglio, certezza assoluta.
Se poi si guardano le cose più da vicino, e con uno sguardo attento alla storia e alla geografia, come ha fatto Alberto Capatti nella sua recente Storia del panino italiano (Slow food editore), ecco che tutto appare più complesso e articolato, dunque ben più interessante. Il problema, come sempre, non è affermare la (eventuale) tipicità di un cibo, ma capire come e quando è stata inventata tale o talaltra tradizione, e più che altro comprenderne le ragioni strategiche (Hobsbawm docet). Come appunto fa Capatti, veterano degli studi gastronomici, insieme critico attento ed erudito felice, capace di concentrarsi sul più piccolo dettaglio descritto in dimenticati ricettari, oleosi menu o guide polverose, senza mai abbandonare uno sguardo d’insieme sul senso e le forme della cucina e della tavola.
Scopriamo così che il panino non ha una sola storia ma come minimo due: una popolare e poverissima, l’altra nobiliare, altoborghese e sfarzosa; le quali si sono infine riunite nella tardomodernità a costituire quel tipo sociale che – negli anni Ottanta – fu il paninaro e i suoi spazi canonici, le paninerie, per giungere agli attuali vitrei espositori dei vari luoghi di socializzazione forzata sopra nominati (aeroporti, stazioni, mall e via dicendo), a glorificare un made in Italy assai dubbio, eternamente rivedibile.
La prima di queste storie odora di pane e cipolla, un morso all’uno e poi all’altra, oppure, se andava bene, con una fettina di mortadella da collocare in una pagnottina secata orizzontalmente, a costruire quel che del panino è il suo compare ufficiale, vale a dire il companatico. Le vicende socio-economiche del panino italiano (e no) passano per quello – pane, amore e fantasia –, ossia non tanto per il pane, le farine da cui proviene o i suoi diversi formati, quanto per ciò che lo condisce all’interno una volta tagliato in due. Generalmente si sbatte là dentro quel che c’è a disposizione (verdure, salumi, formaggi, pollame…), di modo che meno si è poveri più si gusta azzannando il panino. È il regno dello street food d’antan (adesso recuperato dalle sfavillanti mode del vintage gastronomico), del lampredotto toscano e della meusa siciliana, come anche, a ben vedere – se si varcano le Alpi e si ritorna, istruiti, chez nous – della pagnottina con polpetta tritata, come dire dell’hamburger tedesco emigrato in USA e da lì, imbellettato, esportato nel mondo intero. Tra street food e fast food, ricordiamolo sempre, il passo è assai breve. Il Big Mac spopola dovunque, e l’extraterrestre di turno che sbarcherà sulla Terra farà fatica a individuarne l’origine, sempreché sia interessato a farlo.
Raramente la letteratura ha raccontato questa storia triste del panino, attestando il suo essere cibo di sopravvivenza, come nella Vita violenta di Pasolini, dove due ragazzi che “je lacrimeveno gli occhi de la fame” addentano minuscoli “panini all’olio co’ una fettina de’ salame e un bicchierino di marsala” dopo aver donato il sangue per tirare avanti. Nei Racconti romani di Moravia un panino viene morso con rabbia, e tanta distrazione, da un ragazzo durante una discussione sentimentale con la sua compagna. Fruttero & Lucentini intendono a loro volta il panino come la magra alternativa a un vero e proprio pasto (“non aveva mangiato che un panino al salame cotto”), anche se a un certo punto in La donna della domenica c’è finalmente un tale che “riaddenta con gusto il suo panino al prosciutto”. In L’amante senza fissa dimora, invece, i panini si consumano, a Venezia, come accompagnamento dell’ombra, ossia del bicchiere di vino bianco trangugiato rigorosamente al mattino. Eccone la descrizione: “Sotto una cupola di plastica pochi panini se ne stavano in fila come mogi pensionati ormai estromessi dalla vita”. Sembra di rivedere alcuni banchi della Stazione di Milano, commenta Capatti. A sua volta, il commissario Montalbano e gli uomini della sua squadra non fanno che mangiar panini, ma sempre e soltanto quando sono in servizio: altrimenti li attendono ben altre scorpacciate.
La seconda storia che fonda, leggendariamente, la pertinenza sociale del panino, è forse più nota, non foss’altro perché onomastica. Sembra che nel 1762 (data, dice Capatti, che torna in tutte le versioni dell’evento) il celebre uomo politico John Montagu, quarto conte di Sandwich, non riuscendo a distaccarsi dal tavolo da gioco chiese al suo maggiordomo di preparargli dei piccoli panini ripieni da mangiare durante l’ennesima partita. Nascerebbe così, appunto, il sandwich che, come il Negroni del cavalier Negroni, prende il nome del suo ideatore. Di modo che le “due fette di pane prive di crosta accompagnate da carne fredda e formaggio, da consumarsi con la mano destra” finiscono per assumere un piglio aristocratico, venendo accolte da ristoranti e alberghi di lusso e regolarmente morsicate da gente à la page. Laddove la notazione circa la mano destra indica molto chiaramente che, comunque, si tratta di uno spuntino rapido da consumare mentre si fa – o si sta per fare – dell’altro. Da Londra, dove è nato, eccolo trasmigrare manco a dirlo a Parigi, giungendo ben presto anche in Italia. Artusi, nel 1891, lo inserisce senza tema fra i “princìpi del pasto”. E Pinocchio ne fa strepitose scorpacciate.
Altrettanto leggendaria è la questione del nome che il sandwich prende nel nostro Paese. C’è chi azzarda “piccolo pane ripieno” o, più spesso, “panino gravido”, e se ne trovano a bizzeffe nei ricchi buffet dei teatri d’opera. Se invece destinati all’infanzia diventeranno, importando Disney dagli USA, “panino paperino” da portare a scuola o consumare a merenda. Ai tempi del fascismo c’era il problema del nome inglese da cancellare, e fu così che Marinetti e Fillìa nella loro Cucina futurista del ’31 coniano il termine “traidue”, gravido, è il caso di dire, di ambigue avventure extraconiugali. Il più popolare D’Annunzio, a sua volta, qualche anno dopo propone per un panino torinese di successo la parola “tramezzino” e, sappiamo, ce la spunta: i dizionari accettano di lì a poco la sua versione, e la rivista “La cucina italiana” non tarda a proporne numerose ricette. Spopolando fino a oggi, l’oggetto e il suo nome, fino a diventare, come ha notato Marco Belpoliti nel Tramezzino del dinosauro, un sevizio di catering.
Così, da un lato, si diffonde l’uso di donare ai poveri gli avanzi delle michette consumate a quintali nelle osterie di periferia per assorbire al meglio il vinaccio nello stomaco già in fiamme. E, dall’altro, il tramezzino o comunque lo si chiami diviene il sostituto del pasto quando si è fuori casa, in viaggio o in gita (protagonista per esempio della famigerata colazione al sacco), ed è il companatico a stabilire il livello di scala sociale cui si attesta. Il pane si abbina a tutto tranne che a se stesso, dalla porchetta alle panelle, dalla frittata al caviale, dal crescione ai tartufi, sempre mantenendo una leggera sfumatura di trasgressione, di rifiuto temporaneo dei legami familiari. Inutile dire che gli emigrati portano il panino con sé in giro per il mondo, e si moltiplicano le versioni ibride, come la muffuletta di New Orleans (rabberciata traduzione della mouflette francese), ripiena di carne trita e cipolla (eccola ancora, immancabile) che ritorna in Sicilia come muffoletta da farcire però con ricotta e caciocavallo. E tutti a rivendicarne l’origine locale.
Si arriva così a conciliare le due storie del panino, facendone un segnalatore al tempo stesso del reddito e del gusto del suo consumatore, abituale o meno. L’apoteosi di questo cibo rapido e insieme saporito si ha, s’è detto, coi paninari degli anni Novanta, la cui estetica esteriore e il cui stile di vita sono di un’estrema coerenza complessiva: vestono con jeans Armani, felpe Best Company, cinture El Charro, giacconi Moncler, scarponcini Timberland; si fanno la lampada fino a bruciarsi; giocano a flipper, ascoltano i Duran Duran, inventano un gergo tutto loro (sfitinzia, gallo e, ovviamente, paninando), nonché, appunto, mangiano panini con hamburger nei fast food senza alcun interesse per il loro sapore: giusto per darsi un tono, per essere “giusti” (da cui, poi, la nota catena di panini però italianissimi). E non è un caso che se devono segnalare la loro noia esclamano “che pizza!”. È la reazione qualunquista e borghese alla vecchia sinistra extraparlamentare e agli hippies dei Settanta, che arriva riappropriandosi del simbolo più sicuro dei proletari d’un tempo: il panino. Una Milano da addentare prima che da bere. Idem dappertutto, anche e soprattutto in provincia.
La capriola c’è già tutta: il resto è cronaca quotidiana, trovate di marketing (a caccia di golosità a buon mercato), acrobazie degli chef (Marchesi che dà il nome a un paio di prodotti di McDonald’s, Sadler che riprende il traidue), vaghi tentativi di istituzionalizzazione (l’Accademia del panino, magazine dedicati). Così alla taverna (non caverna) di Platone si riuniscono cuochi e storici dell’alimentazione, golosi e tiratardi, tutti a discettare sul senso e il valore di un’opposizione troppo rigida: quella tra hamburger e panino, fast e slow. Circola una poesia:
In taverna si discetta
Del pan la doppia fetta
Come debba combaciare
E che cosa conservare
Ma nessuno ha cognizione
Del panino di Platone.
Di Platone il panino
Alle idee fu già supino
Che illuminano i cuochi
E sconvolgono i loro giochi
Perché la fetta doppia
È la sintesi e la coppia.
A cui fa eco Capatti, che ne propone diverse alla fine del libro. Riportiamo quella, un po’ lunga ma ne vale la pena, intitolata “Panino sostenibile”:
Non è quello che meglio si regge
Né l’altro di Dop farcito
Né quello di cui si legge
Che è dallo chef insignito.
Perché l’aggettivo sostenibile
Riguarda tutto lo scibile
Economico ed ambientale
E suona oggidì fatale.
Ripartiamo dal panino
Vegetariano oggi frequente
E vediamo da vicino
Che l’ortaggio è presente
Poi formaggio o creme
Che mi fanno pensare
Che l’animal non lo teme
E torna a pascolare.
Mentre se mordo la carne
La morte è consumata
Di una bestia macellata.
L’ambiente presente non è quello futuro
E l’animale oggi vivente
Ha da brucar men sicuro
Quando la popolazione
Crescerà in proporzione.
Cos’è oggi accettabile?
Il mio pensiero arranca
Alla ricerca computabile
Di una panineria stanca
Di conflitti e di misure.
Ricordiamocelo quando andiamo a prendere il treno.
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