Dress code 11: Tempo di guerra
In tempo di guerra, il dress code non è solo forma: è sostanza simbolica, trincea di significati. Ecco perché da quando Volodymyr Zelensky ha messo piede alla Casa Bianca non si fa che parlare della polo con il tridente come violazione del dress code istituzionale. Mentre la moda predilige il cambiamento e la distinzione, nella sfera militare domina l'uniforme: un segno immediato di appartenenza e categoria, ma anche un modo funzionale e senza variazione di compattare i ranghi, che, in tempo di esplosioni impreviste, è rassicurante. Il semiotico russo Lotman, nel saggio «Moda, abbigliamento», ricorda che “La ricercatezza nel vestire, l’eleganza militare è un modo di contrastare le circostanze, un comportamento individuale che sottolinea la marzialità, il coraggio”. Qui emerge l’importanza nella cultura russa di un dress code marziale elaborato, considerato alla stregua di altre tattiche belliche.
Putin sembra incarnare perfettamente questo principio: i suoi completi di sartoria pregiata, le tute d'allenamento in cachemire Loro Piana, il sovra-abbigliamento come esibizione di potenza.
Zelensky, al contrario, propugna un'economia di segni che parla di combattimento permanente, una sobrietà bellica che si oppone alla mondanità dell'avversario. Lotman fornisce ancora una volta uno spunto utile quando osserva che, nel momento più critico, Stalin, dopo aver rinnegato a lungo la moda, inizia a cedere al suo fascino, abbandonando l’ostentata sicurezza e facendo trasparire l’insicurezza dell’uomo preoccupato del proprio aspetto.
La polo con collo alla coreana (!) di Zelensky diventa segno di una postura morale, consolidata dal tridente ricamato sul petto che riattualizza un simbolo di potere nato nel X secolo con Volodymyr il Grande e bandito sotto il regime sovietico perché “troppo nazionalista”. Dal 2022 in poi il tridente diventa una costante su felpe, t-shirt e polo “da soldato” di Zelensky, così come la croce delle forze armate, scambiata dagli haters per la croce di ferro nazista e usata come prova della narrativa putiniana sulla "denazificazione" dell’Ucraina. La polo della discordia, o, meglio ancora, dell’accentramento su questioni “futili” per allontanare lo sguardo dell’opinione pubblica da problemi più gravi, reca il nome del brand ucraino Damirli, costa 170 euro e fa parte di una collezione “presidenziale” e patriottica, composta da capi decorati con il tridente, disponibili in verde militare o in giallo e blu Rus’.

Se riflettiamo sullo statuto del capo polo, verrebbe da pensare che la versione Damirli è una variazione sul tema per materiale e colletto. La polo rimane tale se ha un colletto di qualsiasi foggia chiuso da bottoni o zip, e una composizione a maggioranza cotone. In quanto camicia “a metà”, specialmente in USA, si predilige per i dress code ibridi, né casual né formali, né black tie, né smart. Tutto insieme allo stesso tempo.
Nella sua semplicità la polo rinuncia alla dimensione mondana in favore di una grammatica della resistenza, criticando implicitamente i trattati di potenza del lusso ostentato degli avversari.
Mondanità e marzialità hanno regole e codici, che però sul campo di battaglia diventano, come ha scritto Maria Pia Pozzato, “non vestiti”, soprattutto se messi a confronto sulle pagine di Vogue con capi più strutturati.
Già, perché la lotta tra mondanità e marzialità si gioca anche su un altro fronte, quello mediatico. Nel luglio 2022, Annie Leibovitz ritrae per Vogue America Olena e Volodymyr Zelensky in Ucraina. Un photoshoot divisivo che all'epoca infiamma l'opinione pubblica, accusando la coppia di due peccati capitali: glamourizzare la guerra con abiti e accessori eleganti (di brand ucraini) e veicolare un’immagine patriarcale, con Volodymyr in posa protettiva-dominante sulla fiduciosa Olena. Patriarcato o protezione? La retorica della guerra su Vogue, in ogni caso, sensibilizza persone al di fuori dei circuiti informativi tradizionali, giustificando il mezzo con il fine. Vogue, con la sua estetica granitica, trova una mediazione tra moda e cronaca di guerra, contribuendo anche a promuovere il made in Ukraine. La questione si esaurisce a ridosso dell’uscita della rivista, inghiottita dalla fame di nuovi scandali. Perché allora Musk la riesuma su X a febbraio 2025, quasi tre anni dopo?
Per delegittimare Zelensky e erodere la sua immagine pubblica in vista delle trattative con USA e Russia, similmente a quanto già accaduto in passato con il video rubato – guarda caso – durante una call con Elon Musk, diventato virale perché prova regina della dipendenza da cocaina del presidente ucraino.
Attenzione, il video coinvolge Musk, ma non è pubblicato da lui. All'epoca il fake viene attribuito alla Russia. Ma una connessione c’è: il patron di X non confeziona direttamente le sue accuse, preferisce destreggiarsi nella combo citazione/approvazione di opinioni altrui, meglio se provenienti da illustri sconosciute del senso comune come @TeslaBoomerMama (177k followers).

Riposta ciò che pensa il suo popolo, trasformandolo nel perno di un'argomentazione induttiva senza valenza dimostrativa. Mi ricorda lo stile comunicativo di Fabrizio Corona che, durante il suo “Gurulandia” dal vivo al Teatro Alfieri di Torino, ha annunciato la morte di Papa Francesco, pronosticando l’ufficialità tra qualche settimana. Un atteggiamento da scommettitore, così come da sponsor alle sue spalle, che maschera l’azzardo con l’onniscienza.

In effetti Corona e Musk condividono il titolo di guru, che non è sempre indice di competenza esperta, anzi, probabilmente più spesso del suo contrario. Entrambi convinti di essere superuomini, Musk è meno prolisso di Corona, lapidario nelle risposte – “Yeah”, “True” – dissemina barlumi di opinione, lasciando che il dubbio germogli spontaneamente. Il caso Vogue è solo un puntino nella costellazione di insinuazioni che dovrebbero svelare la “vera” natura di Zelensky. È il modus operandi della cospirazione, al netto delle effettive conclusioni, validate da dati, meglio se presentati in forma di grafico come da repost dell'immaginifico account The Rabbit Hole – emblema della scoperta — che ricorda la perdita di fiducia nei media tradizionali. Musk osserva che lo meritano eccome, rimarcando implicitamente di aver comprato il social media del citizen journalism per liberarlo dai poteri oscuri.

La verità si trova nella tana del Bianconiglio, o nell’omonima Truth di Trump. Una volta instillato il dubbio, basta rincarare la dose con testimonianze su una sedicente dittatura a caso – vedasi Romania, notizia in Italia riportata solo da Nicola Porro, supporter di Vance – frammiste a qualche repost sulla cattiva gestione del Covid-19.

In questo gioco globalizzato di specchi digitali, ogni post è un nudge, un pungolo che attiva emozioni primarie come paura, rabbia e tristezza. E qui il trigger è scontato: famiglie decimate e bambini rimasti orfani mentre i potenti si sollazzano. Noi vs loro, deboli vs forti. La tendenza contrastiva del movimento MAGA si riflette anche in un certo fare giudiziario, penso al caso Usaid, per cui la Corte Suprema Americana – composta da 9 giudici di cui 6 repubblicani – ha discusso sull’erogazione di due miliardi di dollari a sostegno di progetti umanitari già concordati con partner internazionali. Sorprendentemente la Corte ha sentenziato a favore del rispetto degli accordi, ma il parere dei giudici contrari ha invocato la sovranità del popolo americano, unico a scontare il prezzo degli aiuti.
Il meccanismo è sempre lo stesso, a ogni livello: innalza barricate su sospetti e fake news. È la stessa retorica che ha alimentato i movimenti no-vax, no-mask e anti-5G, fluendo agevolmente nella propaganda anti-Ucraina, come ho dimostrato in passato qui.
In questo clima di sospetto, il dress code diventa un campo di battaglia. Il sistema moda riflette lo stato di cose del sistema sociale. Il video Trump Gaza, aka i 30 secondi più cringe della storia contemporanea, sembra confermare questo schema narrativo canonico: le donne sono oggettificate e dunque mezze nude – da notare che le odalische hanno la barba, spero per una beffa dell’IA alle posizioni trumpiane anti LGBTQIA+ – e Musk sembra essere impegnato solo a mangiare, anzi a fare scarpette su pietanze intonse (un controsenso, no?).
L’IA a cui è stata affidata la creazione del video lo raffigura in camicia, capo emblematico di uno stile classico e istituzionale. In queste scene Musk indossa una camicia bianca per inzuppare pane in un panino (giuro), una camicia nera per mangiare la pizza (non me ne meraviglio), una giacca scura per ricevere una pioggia di soldi. Al contrario di Trump che brinda in costume con Netanyahu, all'uomo più ricco del mondo non è concesso l'ozio pigro a bordo piscina, ma solo un godimento necessario al sostentamento come il cibo.

Osservando la sua evoluzione da nerd a dominatore del cielo e della terra, ci si rende conto che Musk non è uomo da camicia, piuttosto ama delegare messaggi alle t-shirt: lo dimostra l’immagine che lo celebra quale Dogefather mentre imbraccia la motosega di Milei, in cui sfoggia pure il baseball cap MAGA.

Camicia o t-shirt, ogni outfit risponde a un codice, come la cravatta blu stripes al Congresso accanto alla rossa di Trump, per fare il paio a mo’ di bandiera.
Il linguaggio vestimentario si fa vessillo, manifesta potere e fazioni, e assurge a tattica per direzionare consensi e attenzione. L’abbiamo visto anche nel parterre dei 97° Academy Awards, dove Adam Sandler, già embodiment della sciatteria cool, siede con una hoodie blu cielo al posto della black tie richiesta, attirandosi lo scherno del presentatore della kermesse Conan O’ Brien che lo punzecchia per non aver rispettato il dress code. Sandler, indignato di essere giudicato dalla “copertina” e non dalla bontà del vero essere, minaccia di lasciare la sala, non prima di aver abbracciato Timothée Chalamet in completo giallo grano, completando la palette Rus’.

Per un attimo sembra di stare in sala Ovale con Trump, Vance e il giornalista che chiede a Zelensky perché non indossa un completo. Se la guerra è teatro, l'uniforme è il costume di scena. Zelensky conosce bene il copione e i suoi effetti sui pubblici. Come in certe parti d’Italia la borsa di Hermès fa la donna libera e imprenditrice, così la polo fa il combattente. Barthes direbbe che la significazione è sottomessa all'evento in atto.
Il potere stordente dei segni si somma a quello annichilente dell'oligopolio, in un mondo dove la memoria collettiva si sfilaccia tra polo e borse, macchine di consenso o dissenso.”
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