Dress code 9. L’abito non fa il monaco… ma l’effetto comico?

25 Gennaio 2025

Sul palco della stand-up comedy si gioca una battaglia antica come la tauromachia (cit. Fabio De Luigi d’antan): quella tra la persona pubblica e il giudizio collettivo, tra la fragilità dell’animo svelato e la potenza del riso. In questo duello apparentemente nudo – un microfono, una luce impietosa, il pubblico – c’è un elemento spesso sottovalutato, ma cruciale: l’abito. Non è solo stoffa, ma un’armatura invisibile, un linguaggio parallelo che racconta ciò che la voce tace. Jeans e maglietta parlano di autenticità, un completo elegante sfida le convenzioni del palco o, meglio ancora, del genere. Ogni scelta sartoriale è una dichiarazione, un ponte o un muro tra chi parla e chi ascolta. Perché, sotto la risata, anche il tessuto ha il suo peso.

Nel regno della parola e del carisma, l’abito è un co-protagonista silenzioso. Scegliere cosa indossare per affrontare un pubblico non è una questione di vanità, ma un gesto retorico.

Se la comicità è un’arte, il dress code è la sua cornice.

Sul Web delle liste si trovano varie risorse sul dress code adatto agli spettacoli comici, spalmate tra il mascheramento da cabaret, assetti clowneschi e l’assenza di orpelli della stand-up comedy. Anche la comicità è soggetta alle mode e la stand-up comedy sembra essere al culmine della sua popolarità, in Italia e nel mondo. La stand-up comedy è di moda perché ci dice esattamente dove e come guardare: ne abbiamo un gran bisogno.

Considerata una delle più universali e significative espressioni dell’umorismo, la stand-up comedy, per la sua spontaneità, arriva velocemente al pubblico con cui stabilisce una relazione di complicità. La stand-up si contraddistingue per l’assenza di supporto scenico e della quarta parete: lo spazio si riempie solo della presenza comica dell’artista. In genere, si è soli al centro del palco, sotto un riflettore solo con sipario o background, in piedi o seduti su uno sgabello in presenza di pubblico. Lo spettacolo è segmentato in routine, la cui struttura sviluppa una narrazione riassunta dal titolo che, secondo il comico Filippo Giardina, (podcast Muschio Selvaggio 4 novembre 2024) deve racchiudere un paradosso. Nelle routine sono incassate una serie di battute: le set-up line che informano sul contesto, le punchline dirette allo scroscio di risa, le tagline la cui funzione è di sottolineatura dell’elemento comico. I temi sono volti a favorire un processo di identificazione, elemento che rende la performance corporea e sonora, in modo da innescare un’immediata sensazione di riconoscimento nel pubblico: si ride perché si comprende quella situazione. L’humour incarnato della stand-up comedy non prevede, come nel genere slapstick, situazioni assurde dove ci si deve cimentare in prove fisiche, o acrobatiche: il corpo è ugualmente protagonista, ma, seppur grottesco e sofferente, non viene deformato dal travestimento, è statico, non dinamico.

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Stefano Rapone.

La prima regola del dress code della stand-up comedy è che non si usa la maschera teatrale, bisogna apparire come nel quotidiano (o quasi). L’eccezione alla regola è confermata da Lo Sgargabonzi, al secolo Alessandro Gori, che sceglie di esibirsi a volto parzialmente coperto, a mo’ di maschera neutra, per “abbinare” il cortocircuito di significazione delle routina alla sua persona pubblica. In teoria, chi fa stand-up comedy deve abbigliarsi privilegiando comfort e neutralità per non distrarre il pubblico. Uno stile “mimetico”, dunque, che concerne, in termini di linguaggio verbale, un riflesso diretto della realtà, e, sul versante vestimentario, un camouflage della normalità. L’intento mimetico compare di frequente nei testi dei comedian italiani, che amano calarsi nei personaggi da mettere alla berlina, incarnando il loro punto di vista. Un buon modello di stile mimetico declinato in letteratura comica è il libro dello stand-up comedian Stefano Rapone Racconti scritti da donne nude (Rizzoli 2024), titolo che rinnega la retorica di genere e i vestiti, resi poi protagonisti di una lucida disamina degli stereotipi del senso comune più miopi e gretti. In uno dei racconti Rapone dissacra i canoni estetici esaltando la moda per conservatori come ultimo baluardo “del glamour minacciato dall'uscita di poster con modelle dai tratti antiestetici, pelle a buccia d’arancia, donne dai membri maschili e persone obese che si iscrivono alle sfilate principalmente per il buffet”. La moda si veste di umorismo politicamente scorretto nel mondo finzionale di Rapone abitato da Carmelitane con le calze a rete, pellicce di animali in via d’estinzione e gonne di latex non volgari. Nel suo camouflage surrealista Rapone attua – direbbe Umberto Eco – una maieutica dei possibili perché risemantizza la struttura della stand-up comedy aggiungendo maggior spazio al silenzio performativo. Il silenzio di Rapone coincide con la punch-line, la battuta che colpisce. Se l’innesco della risata in genere è una forma di scarto del regolare ordine delle cose, silenzi e mimesi assumono una funzione ritmica mirata a creare il paradosso che sovverte le regole di composizione della stand-up comedy, ben codificate nella scena internazionale. Rapone, per via del suo tono di voce e della gestualità, rende comiche anche le set-up line, cioè gli enunciati di contesto, ma qui ci interessa il suo stile ordinario di conversazione e di abbigliamento, spesso bizzarro, o, addirittura di cattivo gusto. Gli stand-up comedian sono noti per vestire rinnegando dress code, tendenze e buon gusto, incarnando l’assoluta assenza del senso di moda.

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Nikki Glaser.

Rapone ci aiuta a tratteggiare un punto di incontro tra i costumi di scena della comicità classica e i dress code della stand-up comedy: è inelegante, indossa pantaloni troppo casual e, da bravo Millennial amante di citazioni nostalgiche, predilige sneakers colorate che, seguendo le analisi sul clownesco di Giovanni Manetti rappresentano un tratto tipico dell'individuo medio. Sostituisce la giacca colorata del clown con una felpa con la zip, stesso modello declinato in cromie diverse, capo preferito dai mediomen. In “Tintoria”, dove Rapone intervista ospiti insieme all’ideatore del podcast e stand-up comedian Daniele Tinti, spesso quest’ultimo apre l’episodio con un commento all’outfit del collega, in genere incentrato sulle sneakers o sulla felpa, in pendant con le luci, o che lo rende elegante, seppur arancione. 

L'overdressing o l'understatement costruiscono un dialogo implicito con il pubblico, stabilendo un comune terreno di intendimento essenziale per la ricezione dell'umorismo. A onore del vero, i primi spettacoli di stand-up comedy a cavallo tra Ottocento e Novecento prevedevano completo e cravatta, look poi sovvertito negli anni Settanta da comedian che decidono di calcare il palco con abiti del quotidiano per essere più realistici (es. George Carlin, noto per il monologo Seven Dirty Words, scomparso nel 2008).

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Daniele Tinti.

La regola fondante si riassume con stand-up without stand-out, stare in piedi senza spiccare troppo. Il contrasto tra imporsi e mantenere un profilo basso, il prendere posizione con la propria voce, però senza distinguersi, in modo da preservare un’integrità morale non inficiata dall’“esteriorità” è interessante, fotografa lo spirito della comicità contemporanea, attaccata alla testura del mondo, intrecciata alle sue fibre per esprimerne al meglio i suoi stati interiori. E allora si va sul sicuro con jeans e maglietta, manifesto del quotidiano, meglio se monocolore, al massimo con l’aggiunta di una giacca-camicia rigorosamente aperta per assumere l’aria di chi sta facendo qualcosa. Difficile non pensare alla camicia bianca e “performante” di Edoardo Ferrario, comedian che ha sdoganato le risibili tattiche di comunicazione dei guru dell’Internet. Chi fa stand-up comedy dovrebbe rifuggire dalla logomania per non fare la figura da influencer foraggiato dai brand, o, soprattutto, per non associarsi a un sistema di valori sin troppo codificato nella sua dimensione commerciale. 

Il dress code della stand up è un codice incassato nel codice perché contribuisce all’intensità del ritmo delle battute, descrivibile attraverso una curva il cui apice corrisponde al congiungimento con la risata e alla rottura del silenzio che dà forma all’intervallo tra la punchline e il suo effetto.

Una scelta sartoriale carica il corpo di significati, definendo la soglia tra comicità e pubblico, che traccia il limite tra umorismo e ridicolo. Nell’accezione classica, la maschera comica deve essere brutta per far trionfare il narcisismo del pubblico, che si diverte poiché prova – come afferma Hobbes – un sentimento di superiorità sul comico. Si ride perché l’altra persona ha commesso un errore di stile, o delude un’attesa su un codice del vestire.

Cosa fa ridere? Sicuramente una violazione di una regola a cui assistiamo senza prendere parte, meglio se commessa da una persona che si presenta in modo da essere sottovalutata, perché non deve innescarsi – dice Eco – alcun sentimento di empatia. 

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Giada Biaggi.

Il dress code è inglobato nelle nostre pratiche secondo usi codificati; perciò, il suo rispetto o la sua violazione crea una prima condizione di efficacia comica, soprattutto se costruisce strutture narrative parallele che riflettono questioni politiche e sociali da mettere alla berlina.

In tale prospettiva, anche la trasgressione della norma vestimentaria costruisce l’effetto comico e, al contempo, l’uso di determinati capi e accessori diventa anche espressione di un “sentimento” del contrario, che compie una critica sociale perché gioca con il far sentire e patire, non solo sull’ilarità. Ad esempio, ci si aspetterebbe un abbigliamento casual e “sottotono” dalle stand up comedian donne, sulla falsa riga dei loro omologhi al maschile, anche se, fortunatamente, negli ultimi anni, sui palchi si susseguono scelte stilistiche raffinate che mirano alla valorizzazione del corpo, come nei casi delle comedian americane Ali Wong, Taylor Tomlinson con i suoi iconici giubbotti di pelle, Nikki Glaser (Comedian dell’anno 2024 per il The New York Times) la cui cifra sono gli abiti di paillettes, oppure, in Italia, su tutte Michela Giraud e Giada Biaggi, che calcano il palco in lunghezze mini, in barba agli stereotipi maschili della combo jeans e maglietta. Le donne della stand-up si avvalgono di uno stile metonimico perché sovvertono le attese del contesto, negando i codici. Non a caso l’etimo di metonimia significa scambio di nome, in questo caso scambio di ruoli e di senso del vestire comico.

In copertina Michela Giraud.

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