Eleganza olimpica

31 Luglio 2024

“Essere” e “sembrare” dovrebbero essere due termini contrari, eppure c'è una fattispecie in cui il popolo chiede a gran voce la loro corrispondenza: la rappresentanza della vera identità nazionale in occasione dei grandi eventi sportivi come le Olimpiadi.

Alle uniformi delle Olimpiadi è delegata la rappresentazione in un solo colpo d’occhio della nazione di appartenenza, della sua identità visiva e del sistema di valori. Un’uniforme è un ensemble standard che serve a contraddistinguere chi lo indossa marcando la sua appartenenza. Nel kit distribuito alle delegazioni, sono presenti uniformi di rappresentanza – per viaggiare, partecipare a eventi e premiazioni – e uniformi di gara, normate da specifici regolamenti. Le federazioni internazionali si occupano di disciplinare materiali, lunghezze, taglie, acconciature, marchi ammessi, distanza tra arti e maniche, biancheria intima. Nel Judo, per esempio, bisogna indossare una cintura dallo spessore di 4-5 mm, la cui lunghezza delle “punte” deve essere di massimo 20-30 cm dal nodo centrale. Per non parlare degli indumenti “protettivi” come para-gomiti o ginocchiere che devono essere omologati dalla International Judo Federation e non devono essere visibili.

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Differenziazione e assimilazione procedono in parallelo, perché questo tipo di abbigliamento è codificato per rendere “uguali” delle persone della stessa squadra distinguendole dai team avversari. Le 205 delegazioni composte di 204 nazioni più la squadra olimpica dei rifugiati hanno come prima sfida il match della distinzione, fine ultimo borghese dell’essere alla moda. Devono risaltare tra le altre per meritare inquadrature televisive e citazioni sui media, specie se assicurano quel giusto grado di complessità tale da essere il fulcro di uno storytelling. In inglese si usa il termine “show-stopping”, un’uniforme sensazionale capace di fermare al suo passaggio l’intera macchina mediatica. Durante la cerimonia di apertura di Parigi 2024 è stato un po’ difficile stoppare la navigazione sulla Senna, vista anche la qualità opinabile delle inquadrature, ma, in effetti, nello sguardo d’insieme sono emersi alcuni elementi interessanti. Le uniformi delle olimpiadi 2024 si attestano su quattro varianti, elencate in ordine decrescente di utilizzo: completo formale con giacca, tute spezzate, completo casual con camicia a mezze maniche, o giubbotti sportivi, costume tradizionale. Lo stile formale ha avuto il predominio perché l’estetica dell’uniforme sportiva è stata interpretata in chiave di divisa da lavoro, tanto che i netizen hanno a più riprese criticato la troppa somiglianza di atlete e atleti con assistenti di volo – Francia –, personale d’albergo – Thailandia – e di sala – Cina. Siccome l’uniforme cinese è tematizzata sul “rincorrere i propri sogni”, l’estetica workwear ha innescato una catena di battute di spirito sul fatto che, vestiti così, al massimo gli atleti avrebbero potuto realizzare il sogno di diventare chef de rang in un ristorante francese. Sarebbe stato meglio far indossare alle donne l’hanfu, la gonna tradizionale al centro delle polemiche del 2022 per una goffa appropriazione culturale della maison Dior: almeno questa volta avrebbe vestito il suo popolo.

Se durante le partite siamo tutti allenatori, quando si tratta di moda identitaria diventiamo designer e amiamo esprimere il nostro disappunto sui social, dove predomina il dire assoluto non necessariamente sensato: «Avrebbero potuto fare di meglio, non mi piace», «Non sembra italiana», «La divisa dell’Italia la peggiore di tutte. UNA TUTA. Ma non eravamo maestri della moda?!”». Al netto delle critiche, va detto che i commenti sono, probabilmente, l’unica forma di relazione autenticamente intersoggettiva rimasta nel deserto dei social network. Le persone litigano, si coalizzano, sostanziano l’origine delle ondate d’odio poi riprese dalla stampa nazionale, perché non basta solo il caso in sé commentato da un editoriale, ma è necessario chiamare in causa chi si risente più degli altri. Il “si dice” della chiacchiera priva di fondamento, trova corpo e sostanza nei commenti che, da testo a latere, diventano sovrani, decidendo le sorti della disseminazione e della reputazione. E così ci becchiamo una serie di articoli titolati “Proteste social”, “Il Web boccia” o, in versione internazionale, il format “Netizen says”. Come si evince dai commenti sopracitati, non si è salvata neanche l’uniforme dell’Italia, ideata da Giorgio Armani, ritenuta anonima, troppo piatta per rappresentare a dovere la culla del buon gusto globale. Armani ha ideato una tuta spezzata blu scuro, con “Italia” e “W l’Italia” come scritte visibili e ha preferito nascondere allo sguardo le citazioni dell’inno di Mameli, collocate in fodere e cappucci, a seconda del capo. Un’italianità sobria, sussurrata, quasi mimetica che non ferma lo spettacolo, anzi, passa inosservata. Non basta l’identità visiva, bisogna infondere in ogni elemento dell’uniforme qualcosa della nazione ospitante. La maggior parte delle uniformi ha come base la palette cromatica della bandiera, su cui vengono operate alcune variazioni, come Italia e Corea del sud che hanno rispettivamente scurito e schiarito il tono del loro caratteristico azzurro-blu. L’abbigliamento formale, invece, si attesta su bianco, blu scuro e beige, in completi o spezzati, colori non necessariamente di bandiera che si ripetono anche nella declinazione casual dove sono più frequenti motivi folk e tradizionali, considerati più autentici e rappresentativi.

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Secondo Bogatyrëv il costume popolare è il contrario dell’abbigliamento alla Moda, non cambia periodicamente per seguire le tendenze, bensì rispecchia le funzioni che gli vengono attribuite dalla cultura e dalla natura in base a motivazioni pratiche, estetiche, magiche, regionali, sociali. Il costume folklorico è una questione di orgoglio nazionale, veicola ideologie e trasmette memorie storiche. Quasi ogni testata ha pubblicato classifiche delle uniformi e la vincitrice, per plebiscito, è la Mongolia, che ha fornito l’interpretazione più suggestiva dell’identità nazionale con divise ricamate in oro mutuate dal costume tradizionale. Storicamente nomade, per la popolazione mongola gli oggetti di moda rientrano tra i pochi beni materiali e perciò sono possedimenti molto preziosi.

I motivi etnici e folklorici rendono l'uniforme un programma condensato della cultura e dei suoi valori, pronto per essere tradotto dalla disseminazione mediale. Si attiva così processo di costante negoziazione con l'alterità, dove gli assetti identitari vengono fatti salvi con tratti apparentemente insignificanti come ricami, scritte, stampe, colori, cappelli. Non a caso le mascotte di Parigi 2024 "Olympic Phryge" e "Paralimpic Phryge" è una versione cartoon del berretto frigio, simbolo di libertà a partire dall'Antica Roma perché indossato dagli schiavi liberati, poi inglobato nella Rivoluzione Francese come emblema della stessa, tanto che lo si vede sempre indosso a Marianne, personificazione dei valori Liberté, Égalité e Fraternité e della nazione, sin dall’opera La Libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix (1830). La città della moda non poteva che scegliere un oggetto vestimentario per racchiudere la propria forma di vita. Nella lunghissima e tanto criticata cerimonia d’apertura, alla moda è stato delegato il potere dell’inclusione, con l’installazione sulla Senna di una passerella multietnica, multigenere e multietà, che ha visto sfilare ed esibirsi diverse identità poi riunite intorno al desco all’arrivo di Dioniso, divinità della liberazione dei sensi e padre della divinità fluviale Sequana, che abbiamo visto cavalcare le acque fino alla Tour Eiffel. Sulla paternità di Dioniso ho qualche dubbio e poche prove, mi limito a riportare quanto affermato da Thomas Jolly, l'ideatore della cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Parigi 2024.

L’oggetto di moda filtra la cultura e diventa un luogo in cui sviluppare una forma proattiva di autocoscienza identitaria, valorizzando le differenze in maniera costruttiva. Ne sono un buon esempio le uniformi da gara della Sierra Leone che presentano un pattern ispirato alla conchiglia di ciprea, simbolo di prosperità e prestigio. Uno degli omaggi più significativi al cultural Heritage, lo troviamo nelle divise di Haiti, paese in piena emergenza umanitaria, devastato dalle gang criminali. Create dalla designer italo-haitiana Stella Jean, le camicie sono in karabela, il tessuto chambray haitiano, mentre gonne e pantaloni sono decorati con stampe del pittore Philippe Dodard, fondatore della scuola della bellezza (École de la Beauté).

L’interesse verso le uniformi delle olimpiadi, oltre alle ovvie ragioni di mercato, dimostra che il dinamismo della moda è efficace se correlato al sistema di traduzione/citazione di motivi e figure delle nazioni di appartenenza, e al suo conseguente adeguamento allo spirito dell'epoca contemporanea. Potrebbe essere visto come un peculiare esercizio di memoria collettiva, che parte dal passato per riscrivere le tradizioni del presente. In tale prospettiva, ho trovato interessante il tentativo di creolizzare cultura rappresentata e quella ospitante, nel segno dei valori olimpici di amicizia, uguaglianza e internazionalismo: la Cechia ha scelto i soprabiti balonak perché molto in voga in Francia, e il Brasile ha bricolato alcuni segni rappresentativi in una divisa casual composta da giubbotto di jeans ricamato con are, giaguari e tucani, infradito Havaianas e maglia marinière, indumento tipico della Normandia e dell’estate. Nonostante Havaianas sia veicolo di brasilianità in tutto il mondo e i ricami siano stati realizzati in modo inclusivo e sostenibile da una comunità di donne della regione del Rio Grande del Nord, i netizen non hanno gradito, capeggiati dalla cantante con 64,5 mln di follower Anitta. Il problema è l’eccessiva modestia dell’ensemble – addirittura le ciabatte – che sminuisce il valore della comunità atletica di una nazione dove sembra essere importante solo il calcio. Per di più Peak, lo sponsor tecnico delle uniformi da gara, non è brasiliano, bensì cinese. Nell’economia delle uniformi olimpiche è molto importante realizzarle nel paese che rappresentano, soprattutto in tempi di ignobili sfruttamenti di persone e risorse naturali a opera del sistema moda. Per sembrare brasiliano deve essere fatto in Brasile, vale per tutti. L’importante è non sembrare altro da sé perché l’archivio Netizen è sempre pronto a snocciolare somiglianze: le uniformi mongole per i connazionali assomigliano troppo agli abiti tradizionali della Manciuria cinese, secondo i netizen cinesi gli eleganti completi sudcoreani ricordano le divise russe delle Olimpiadi invernali di Beijing, o addirittura l’uniforme indossata in carcere da Yeon-jin, antagonista nel k-drama The Glory. In gioco non ci sono solo medaglie, ma una rappresentazione identitaria che oscilla tra molteplicità e unità, le quali garantiscono la riconoscibilità e allo stesso tempo convalidano lo status di unicità, il vero traguardo da raggiungere.

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