Dress code 10. Speciale provincia
Sarà deformazione professionale, ma trovo sempre la risposta nell’etimologia delle parole.
Provincia deriva dal latino pro-victa, territorio lontano dal centro dell’Impero Romano, governato da un suo rappresentante. Dunque, un luogo legato a un altro distante, dove abitano persone non avvezze ai costumi della città (provinciali).
In termini giuridici contemporanei, la provincia è un ente territoriale autonomo che fa capo a una città capoluogo. Sul versante culturale, provincia rimanda a pratiche di vita più tradizionali, al limite della grettezza, a una minor offerta culturale, e, come si legge su Treccani, a “mentalità, abitudini, gusti, costumi più semplici, meno evoluti”. Nel metalinguaggio delle scienze naturali è riferito a zone in cui si trovano specie e caratteristiche simili (es. provincia biologica, magmatica, minerogenica come l’Iglesiente in Sardegna). A livello semantico i tratti comuni sono collateralità, specificità, chiusura, dove quest’ultimo assume le pericolose connotazioni di arretratezza e grettezza. Seppur immersi negli “ismi”, dovremmo tenere bene a mente l’insegnamento di Juri Lotman: una cultura per evolvere deve avere confini porosi, aperti allo scambio perché, se, al contrario, vengono “chiusi” il movimento a pendolo tra esterno e interno rallenta inesorabilmente sino a una letale immobilità.
Per tale ragione provincia, provinciale e provincialismo di sovente assumono connotazioni negative riguardanti la mentalità ristretta, il cattivo gusto – nel vestire, nel mangiare, nella musica – e l’ossessione per apparenze e scandali.
Quando scrivo, dopo la consueta consultazione del dizionario, provo a googlare il topic del mio pezzo – questa volta in forma di stringa “vestire da provinciale” – soprattutto per non ripetere inconsapevolmente altri lavori, evitando così possibili accuse di plagio. Ecco, mi soffermo su questa informazione banale perché la ricerca su Google ha fornito dei risultati rilevanti per l’argomentazione del vestire provinciale come forma di vita a sé stante.
Ai primissimi posti ho visto comparire “idee per la mamma dello sposo” o “outfit per la cresima”, confermando che a definire i meccanismi provinciali dell’insieme barthesiano indumento/mondo sono le cerimonie, dove l’abbigliamento mantiene o sovverte l’ordine sociale. Lo si vede bene anche ai funerali, in cui i must sono il cappotto buono e una pessima messa in piega atta a mostrare la disperazione. L’importante è distinguersi senza dare nell’occhio, perché il Leviatano composto dallo sguardo dell’alterità potrebbe giudicare una condotta al di sopra delle proprie possibilità. E così, gli armadi della provincia si trasformano in carcerieri di capi di ottima qualità, confinati per non sembrare di più e troppo. Gli oggetti di consumo lussuosi, contrariamente alle premesse della loro ragion d’essere, vanno preservati e musealizzati in guardaroba-teca.

Essere e sembrare fanno approdare la mia navigazione a una guida su come vestire bene sopra gli anta. Dato che mi sto avvicinando agli anta, clicco spaventata e leggo un articolo del 2017 scritto da una personal stylist che prova a propinarmi il suo ebook gratuito. Dopo aver chiuso dei pop up più invadenti di una vicina pettegola – tipica della provincia –, leggo l’incipit costruito con il tipico espediente narrativo di chi si vuole costruire autorevolezza online: “Quante di voi mi hanno chiesto: ho superato i quaranta, ma non mi sento affatto vecchia: come potrei vestire in modo giovane senza sembrare ridicola?”. E qui troviamo una caratteristica definente del provincialismo: la paura del giudizio altrui, su cui si fondano i consigli della personal stylist. Dopo i 35 non bisogna più indossare ciò che è troppo corto, aderente o vistoso – una bella tunica? Un saio monacale? – però, e qui si chiude con il buonismo che piace, l’importante è sentirsi a proprio agio. Più che consigli sembra una guida al divieto e alla mortificazione corporale. Un’altra lista di dress code proviene da un teatro della provincia di Torino, che tenta di educare il pubblico al giusto abbigliamento per l’occasione d’uso, giustificandola come “pretesto per sfoggiare vestiti eleganti spesso dimenticati negli armadi”. Data la scarsa mondanità del pigro tessuto culturale di alcuni luoghi di provincia, il Teatro in questione vende un’esperienza di consumo tout court, raccomandandosi di non esagerare: non è mica il Teatro alla Scala di Milano!
La seconda accezione del provincialismo la trovo in un articolo di agosto 2020 pubblicato su MowMag a firma di Ray Banhoff, esplicitata dal titolo “Perché la gente in provincia si veste di mer*a?” e dall’incipit:
Un morbo silenzioso attraversa la provincia italiana: la perdita di gusto. Eravamo il Paese dello stile, del bello, avevamo quel patrimonio di “italianità” e lo abbiamo barattato in cambio di: capannoni, infradito e pinocchietti. Abbandonata Milano ormai sono avvezzo a girare le province toscane, tutte uguali, devastate da uomini in ciabatte contromano in bicicletta.
Tutto il mondo è paese, o, meglio ancora, provincia.
Banhoff descrive un panorama vestimentario che conosciamo sicuramente meglio di quello glamour e patinato. Le Crocs che tanto fanno inorridire Banhoff dal pavimento di casa sono trascese all’apice delle tendenze (si veda Marrone sulla pantofola) e le magliette o i cappelli con i loghi delle imprese di costruzione o dei falegnami locali funzionano come segno di appartenenza. Dunque, orrido vs decoro, cattivo gusto vs buon gusto, provincia vs città.
A mio parere il non plus ultra del cattivo gusto della provincia si manifesta nelle festività: sabato sera, domenica, Natale, Capodanno, Pasqua: sembra di assistere a una rappresentazione delle norme di comportamento in uniforme, sintagma al maschile di camicia bianca, cappotto cammello (cit. Napoli Centrale su IG), pantaloni alla caviglia e mocassini senza calzini, oppure, al femminile, borsa firmata, stivali, ecopelliccia d’ordinanza, trendy in città come a Roccaraso, la Courchevel di TikTok Napoli. L'ecopelliccia si avvista anche al supermercato, dove ci sono più borse di Michael Kors e Louis Vuitton che mozzarelle di bufala nel banco frigo. Meglio se abbinate a leggings con la cucitura sulle natiche in vista e Ugg boots ultra-mini che, nell’eterna traduzione delle repliche, si trasformano davvero in pantofole imbottite (true story). Qui il chiaro modello di riferimento è una qualunque influencer milanese durante le sue commissioni post Pilates, replicato fedelmente da mamme che occupano il tempo tra l’ora di ingresso e uscita dalle scuole. In realtà anche la provincia genera tendenze, tra giovani e meno giovani, diffuse da coloro che sono considerati socialmente più performanti o che hanno la fortuna di farsi toccare dalla grazia della metropoli. Che poi questo discorso di gap tra provincia e città è anacronistico se pensiamo all’alta velocità e alla facilità di spostamenti, ma poi mi ricordo che dalla provincia di Salerno in giù spostarsi è un incubo, si fa prima ad arrivare a New York grazie alle valide infrastrutture italiane (penso alla ricognizione di Caporale del 2016). Eh no, il problema non si risolverà neanche se Salvini commissiona una capsule di felpe con su scritto “Provincia di …”.

Le micro-tendenze riguardano forme di vita, o specifici capi e accessori. Nel primo caso si annovera un raro fenomeno di influenza inversa tra provincia e città che riassumiamo nel “tamarro” (coatto, zarro, cuozzo, ecc.). Il tamarro lampadato, depilato, palestrato, griffato e tatuato è l’avo di Fabrizio Corona prima e dei tronisti di Uomini e Donne poi, da cui poi discendono i giovani trapper. Tatuaggi e griffe sono due forme di marchiatura che accomuna, almeno nell’apparenza, queste forme di vita in realtà neanche troppo distanti. Il tamarro nasce in provincia marchiandosi proprio per attirare l’attenzione, ritagliarsi una nicchia identitaria. Basta pensare che, ancora oggi, le boutique di provincia spesso hanno un’offerta molto più varia delle metropoli, forse per via di una più alta propensione alla spesa vestiaria proporzionale a un minore costo del quotidiano. È più facile trovare la collezione di Undercover dedicata a Twin Peaks a Sant'Anastasìa (NA) che a Roma. Oggi il tamarro è un bene esportato globalmente con l'etichetta di macho latino, penso a Michele Morrone e a Dolce e Gabbana, nonché al voler apparire delle foto profilo su social media, Tinder e similari. Capi e accessori si diffondono grazie ai punti vendita di riferimento, ma soprattutto anche in base all’ossessione per le apparenze. La mia ricerca si chiude con un “Elogio (moderato) della provincia”, testo di un lettore di Sette del Corriere della Sera, pubblicato nella rubrica dedicata Settebello. Alessandro Balduzzi individua le passioni che caratterizzano la provincia “rabbia, meraviglia e comunità”, che la rendono “un porto sicuro” difficile da lasciare, ma dove è ancor più complesso rimanere.
La meraviglia dovrebbe essere esportata al posto del tamarro perché è l'unica emozione che può ancora farci indignare.
In fondo, nell'era degli -ismi, forse il problema è proprio la chiusura a tenuta stagna mutuata dal provincialismo.
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