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Ammazzarsi o convivere

30 Marzo 2025

Se esiste una “terra del noi”, come è possibile l’antagonismo, il “mors tua, vita mea”? Sembrerebbe buona cosa tenere aperta questa domanda. Non subendo la tentazione di sottostare all’ennesimo dualismo: buoni o cattivi gli umani? Natura o cultura alle origini della guerra? Fatti per essere “bruti” o per “seguir virtude e canoscenza?” Ci può venire in soccorso uno che dell’animo umano e degli effetti della guerra se ne intendeva, Wilfred R. Bion, quando, distinguendo tra guerra e conflitto, ha sostenuto: “il conflitto ha bisogno di conoscere; il conflitto ha bisogno di negare”. Se la guerra equivale all’antagonismo, il conflitto non si identifica con essa, ma riguarda tutte le situazioni di confronto tra idee, valori, conoscenze e interessi diversi. La gestione del conflitto può portare alla cooperazione, al prevalere del noi, o può portare alla degenerazione distruttiva della nostra aggressività.

È perlomeno interessante e suscita una certa attenzione constatare come nel tempo in cui la ricerca scientifica mette sempre più in evidenza la naturale intersoggettività umana e la relazione come fondatrice dell’individuazione, i venti della politica siano orientati all’esasperazione degli individualismi egoistici, dei localismi esasperati, dei nazionalismi e degli antagonismi che producono distruzione e guerre. La loro alimentazione mediante gli orientamenti di valore e la circolazione di significati può favorire l’emergere di una semiosfera capace di portare al sublime della distruzione e della guerra. Pierandrea Amato ci consegna, ad esempio, recentemente, un’illuminante prospettiva di lettura del mito di fondazione dell’epos occidentale nell’Iliade. Quel mito prende le mosse dal vortice di tensioni, emozioni, scelte, che la straordinaria bellezza di una donna scatena: Elena. “Fare i conti con l’Iliade significa prima di ogni altra cosa tollerare che a fondamento della guerra, dello sterminio di un popolo, dell’affresco glorioso e violento di una cultura, c’è la bellezza; una bellezza, però, come quella di Elena, imparagonabile a nessuna altra, facendo parte, per natura, di un’altra natura. Elena, in fondo, è la donna più bella del mondo proprio perché eccede la bellezza, la sopravanza, l’abbandona persino, a favore di una bellezza talmente grande che non la si può quasi più riconoscere come tale.” [P. Amato, Il sublime e il mostruoso. La tragedia della bellezza assoluta, in K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, N. 13/2024]. Il sublime, come espressione estrema della bellezza, nomina ciò che per principio un nome non dovrebbe averlo, perché semplicemente coincide con un’esperienza che si rivela incomparabile, pressoché indicibile, come è la distruttività della guerra, appunto. Dal punto di vista storico, nel momento in cui una forma di potere politico agguanta e rinforza il fascino del sublime, la distruttività può divenire un progetto di particolare attrazione e coinvolgimento.     

Condizione elementare per riflettere su un’esplorazione delle radici antropologiche della guerra e sul rapporto tra guerra e natura umana, è prestare attenzione all’orientamento che si sceglie nel definire la natura e l’antropologia umane. Connessa strettamente a questa condizione vi è l’epistemologia implicita che si assume. Nella ricerca di Gianluca Sadun Bordoni, Guerra e natura umana. Le radici del disordine mondiale, [Il Mulino, Bologna 2025], la natura umana è considerata implicitamente ed esplicitamente secondo le categorie dell’antropologia e della psicologia evoluzionista, con effetti di determinismo fissista; non solo, ma l’aggressività della specie umana, una distinzione specie specifica come tante altre, è identificata con la distruttività intraspecifica e la guerra è considerata come sinonimo di conflitto. Tutto l’importante impianto del libro e la tesi di fondo ne rimangono ovviamente caratterizzati e condizionati. Valga come indicazione l’ipotesi con cui il libro inizia e si conclude: “…che all’origine del nostro successo evolutivo ci sia stata la competizione mortale con altre specie umane”. La prospettiva dell’analisi contenuta nel libro, insomma, sostiene che i venti di guerra che sono tornati a minacciare l'Europa e il mondo mettono drammaticamente in discussione l'idea che l'umanità sarebbe stata capace di superare per sempre l'orrore delle grandi guerre. I problemi nascono quando si assume in modo acritico che la rivoluzione in atto nelle scienze biologiche e antropologiche sembrerebbe modificare definitivamente la conoscenza delle origini e dell'evoluzione della nostra specie, riconoscendo nella guerra un comportamento con profonde radici nella nostra storia naturale. Cadrebbero dunque assieme due idee fondamentali della nostra epoca: che la guerra sia solo una cattiva invenzione culturale e che esistano tendenze storiche oggettive che muovono verso un suo superamento nella storia civile dell'umanità. Questo sarebbe un cruciale cambio di paradigma, antropologico-politico, tale da richiedere una riflessione unitaria utile ad affrontare con consapevolezza adeguata le sfide politiche e intellettuali che abbiamo davanti. Non mancano certo le fonti per sostenere una tale ipotesi, nel lavoro di Sadun Bordoni, ma la loro selezione finisce per trasformare un’ipotesi robusta ma non inconfutabile, in una tesi che informa l’intero lavoro. In particolare, come vedremo, è l’assunzione di un individualismo egoista come criterio esplicativo dell’umano la questione più problematica, laddove un’ampia messe di studi storici, psicologici, antropologici, filosofici, economici, evidenziano una complessità del comportamento umano in cui, per esempio, il noi prevale sull’io e la cooperazione e la solidarietà prevalgono sull’antagonismo.

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Se vi sono conferme ampie e approfondite della validità dell’ipotesi relativa all’egoismo e alla distruttività umani, ve ne sono almeno altrettante che pongono attenzione alla rilevanza della cooperazione per comprendere l’evoluzione di homo sapiens sapiens. Per tutto il percorso di lettura del testo, coinvolgente per l’articolazione dei contenuti e l’ampiezza dei riferimenti, sono stato accompagnato da una domanda: se il libro di Sadun Bordoni sia uno studio sul rapporto tra guerra e natura umana, o se si tratti di un contributo di filosofia morale per affermare che a definire la natura umana è la guerra. Naturalmente qui non discutiamo se vi sia nella storia dell’umanità una violenza originaria; da discutere è se vi sia solo o prevalentemente una violenza originaria. Meglio ancora sarebbe porre la questione in altro modo e cioè: se l’aggressività e la violazione dello spazio e della vita degli altri, che sono costitutive della nostra esperienza di animali relazionali, si traducano sempre e necessariamente in violenza distruttiva organizzata, e come scrive Sadun Bordoni in intergroup coalitional killing, o si esprimano in cooperazione, condivisione, solidarietà e aiuto reciproci. Molto semplicemente si potrebbe sostenere che senza questi ultimi tipi di esiti delle nostre relazioni probabilmente non esisteremmo più. Certo, c’è da considerare il rapporto tra quello che accade all’interno dei gruppi (intragroup) e quello che accade tra gruppi (intergroup), ma la storicità dei modi di elaborare l’aggressività e dell’emergere della distruttività e della guerra, sta proprio in questo. Lo stesso Sadun Bordoni finirà, verso la fine del libro, per mettere la parola “istinto” tra virgolette. Eppure per tutta la lettura del libro è difficile contenere l’aleggiare di una presentazione della guerra come destino, con la sua tremenda ineluttabilità.

L'apparente efficacia della riflessione dell'autore mi pare stia nel dispositivo retorico di stampo dualistico che il saggio propone. Esistono solo la pace e la guerra e la prima, la pace, sarebbe una pausa tra due guerre. Per il conflitto non c’è posto, in quanto viene del tutto identificato e schiacciato nella guerra. Abbiamo, come molteplici esperimenti dimostrano, una spontanea propensione al dualismo per ragioni (solite) di ricerca di rassicurazione. Quella propensione spesso informa di sé, più o meno tacitamente, anche l’epistemologia e gli orientamenti di ricerca. Una questione importante da tenere presente è se un’epistemologia cerchi di porre all'attenzione la relazione tra gli enti invece che la centratura separata sugli enti presi uno alla volta. Se si affronta criticamente il "modello dualistico", entra in discussione quanto costruito ed emerge la relazione interdipendente tra le persistenze e le emergenze che distinguono ciò che vive, e che contengono il possibile; tra l'originario e l'originale che compongono e ricompongono la vita. Il margine generativo della ricerca diventa la relazione ricorsiva tra le componenti del reale, dove cogliere e dar vita alle proprietà emergenti. Se emerge antagonismo, emerge allo stesso tempo cooperazione e la nostra terra, per dirla con Luigino Bruni, diventa anche la terra del noi [L. Bruni, La terra del noi, Il Mulino, Bologna 2024].

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Con un cesello degno di un fine orafo, Luigino Bruni seleziona le ombre e le luci dell’economia della Controriforma, mentre in realtà, allo stesso tempo, parla dell’oggi. Di particolare importanza è il riconoscimento dell’intarsio tra forme individualistiche basate sull’esaltazione dell’egoismo autointeressato e forme diffuse di cooperazione e di solidarietà basate su strumenti finalizzati ad affrontare le disuguaglianze e la povertà e a migliorare le condizioni di vita. L’autore porta alla luce un pluriverso di esperienze che spesso rimane silenzioso e nascosto. Come accade nel rapporto tra il rumore delle armi e l’evidenza eclatante delle manifestazioni distruttive della guerra da un lato, e l’umile e silenziosa rete di attività cooperative o per cercare di prevenirla, di evitarla, o di lenirne gli effetti dall’altro. Come si verifica, inoltre, quando l’attenzione è rivolta ad una forma di vita tutta risorse e fitness, o si tiene conto delle molteplici vie di ricerca del significato, della combinazione tra beni relazionali e simbolici, del ruolo del sacro nella costruzione non violenta dei legami sociali. Analizzando le caratteristiche e l’incidenza di quello che l’autore chiama “pessimismo antropologico”, emerge “in controluce il significato della tradizione italiana e latina dell’economia civile, che dal Settecento a oggi è restata ancorata all’etica delle virtù, convinta che negli esseri umani ci siano due ‘forze’, entrambe primitive, quella più auto-interessata e quella pro-sociale”. Emerge con chiarezza nell’analisi di Bruni il ruolo delle istituzioni, della loro funzione di contenimento e mediazione, di vincolo e di possibilità, della loro natura “meticcia” fatta di un intreccio inestricabile di economia, sociale, mercato e dono, contratto e gratuità, solidarietà e impresa. Una solidarietà “del durante”, che accadeva e può accadere mentre si svolge la vita economica ordinaria, anzi come modo di accadere della vita economica, sociale e culturale insieme. La comunità che Bruni analizza e descrive è ambivalente, ha luci ed ombre, “è sempre vita e morte, fraternità e fratricidio, amicizia e conflitti, abbracci e lotte, lacrime di gioia e di dolore, insieme”. La profondità dell’analisi conduce fino ai nostri giorni e alla nostalgia di comunità in un’epidemia mondiale di solitudine, dove non sappiamo se la “terra del noi” conoscerà ancora un’aurora. Quell’aurora possibile è, tra l’altro, subordinata ad un ulteriore fattore che sconvolge ogni equilibrio precedente. Come evidenzia Giuseppe Riva [Io, noi, loro. Le relazioni nell’era dei social, Il Mulino, Bologna 2025], oggi disponiamo di mezzi che possono potenziare le nostre capacità mentali, filtrando e organizzando le informazioni in modo efficiente. La capacità dell’intelligenza artificiale cosiddetta, di anticipare i bisogni e automatizzare l’elaborazione di grandi quantità di informazioni potrebbe liberare preziose risorse cognitive. Ne potrebbe derivare sia un miglioramento delle decisioni immediate del sistema 1, secondo Daniel Kahneman, il sistema del nostro modo di pensare che agisce in modo veloce, che delle scelte del sistema 2 che procede in modo riflessivo e razionale. Se chiamiamo sistema 0 quello artificiale, il problema è come integrarlo al servizio dell’emancipazione umana. La soluzione non è, quindi, rifiutare il sistema 0, ma governarlo e integrarlo con meccanismi di trasparenza che permettano di capire come sono influenzate le nostre decisioni. Mentre è in gioco l’integrità del nostro processo cognitivo siamo di fronte a una nuova frontiera del noi.

Considerando una rivisitazione dell’idea dell’uomo razionale, tutto calcolo costi/benefici, e riconoscendo l’intreccio di ragioni ed emozioni, Sadun Bordoni, nella seconda parte del suo libro sembra riconoscere almeno in parte la complessità dell’esperienza umana della guerra e della cooperazione. Che la guerra appartenga all’uomo fin dalle sue origini non vuol dire che essa sia il codice dell’esperienza umana. Il dilemma se siamo pacifici o violenti forse è mal posto: siamo sia pacifici che violenti, probabilmente, e a noi è data la possibilità di un processo di civilizzazione in cui la cooperazione e la solidarietà prevalgano sull’avversione dell’uomo per l’uomo.              

Nel cammino della specie umana, che ha iniziato la sua dominazione sulla natura con l’invenzione del fuoco, con l’invenzione della Bomba termonucleare cambia radicalmente l’ordine delle cose e degli eventi. Il timore dell’estinzione reciproca e totale ha introdotto una deterrenza alla distruttività che è necessario tenere in considerazione, anche per le analogie con la lunga storia profonda. Quando la politica “pro-life” prende il sopravvento un po’ ovunque nel mondo, è osceno vedere la distruzione del vivente messa in atto su ogni scala. La conoscenza e il pensiero critico sono strumenti per decostruire queste ideologie dominanti e dannose. La storia non ci insegna molto, se non che cambia, che i regni non durano mille anni e che la vita non ha miglior alleato del pensiero critico. Quello stesso pensiero critico che, per dirla con Foucault, può esprimersi come forma di resistenza al potere politico dominante a partire da pratiche etiche e da un lavoro su sé stessi come trasformazione della propria esistenza.

In copertina, Bruce Conner, Bombhead, 2002, MOMA© Conner Family Trust, photo Courtesy Magnolia Editions, Oakland, CA.

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