Marco Rovelli e l'eterno cercare
L’attesa di nulla
«…tutto si muove all’indietro verso la propria origine; muoversi all’indietro verso la propria origine significa la quiete; trovarsi nella quiete significa scorgere l’‘essere in sé’; l’essere in sé è l’immutabile legge del mutamento; comprendere questo immutabile mutamento significa giungere all’illuminazione» [Tao tê ching].
L’espressione più elevata dell’attesa è comprendere che si può attendere nulla. Che il mutamento è immutabile, ovvero conduce sempre all’originario, a quel che precede ogni sua manifestazione. Il percorso dialogico, tra testi, musica e incontri, che Marco Rovelli ha creato col suo nuovo libro [L’attesa, [l’innominabile editore, 2024], ha le caratteristiche di un esperimento.

I testi e la musica delle canzoni, di cui Rovelli è autore, e in pochi casi coautore, sono messi a confronto con punti di vista diversi, di poeti, studiosi e scienziati, per esplorare il filo conduttore dell’attesa. Non si tratta dell’assenza di qualcosa o di qualcuno da attendere. L’assenza assume lo statuto di una condizione esistenziale, in cui alla fine emergerà chiaramente la matrice di quella intersoggettività che decide dell’evidenza che nessuno diventa qualcuno senza l’altro. L’altro non è la soluzione, ma la condizione. Una condizione di continua ricerca, come nel tempo dilatato dell’Annunciata di Antonello da Messina, che Rovelli assume a icona del suo modo di vivere e sentire l’attesa. L’attesa si propone a Rovelli come una dilatazione infinita del tempo, che annulla passato e futuro. È una condizione di sospensione del giudizio e di presa sul mondo; un modo di lasciare essere il mondo, lasciarlo alla sua pura dimensione del divenire. Del resto come emerge nel dialogo con la poetessa Maria Grazia Calandrone, anche per l’amore vale la disposizione a lasciarsi andare, riuscire ad abbandonarsi per abbandonare la propria ferma identità. Solo a questa condizione è possibile accorgersi dell’esistenza dell’altro uscendo dal guscio soffocante dell’io.

L’esposizione allo sguardo dell’altro, a un altro generalizzato che non è necessariamente lo sguardo di qualcuno, è un altro aspetto dell’attesa, quello di divenire altro rispetto a ciò che già si è. Ciò vale in particolare oggi rispetto alla ricerca delle vie per abbandonare una posizione antropocentrica ed esporsi finalmente alla prospettiva del mondo. Questa svolta del nostro cammino si apre un bivio che riguarda proprio le nostre generazioni. Nessun’altra generazione nel corso della storia umana ha vissuto il rischio di estinzione come la nostra. Solo un salto di specie può intervenire per affrontare una crisi in cui si sta determinando quello che saremo o non saremo nel futuro. Del resto, come dice Armando Punzo dialogando con Rovelli, la meraviglia non ci appartiene, dobbiamo conquistarla. Le vie per riuscirci disponendoci in un modo attivo all’attesa, sono disponibili. Si tratta di praticarle. La pratica è implica la disposizione ad essere scossi dalla realtà, meravigliandosi delle sue manifestazioni, in quanto la meraviglia è un processo di ricreazione, capace di creare nuovamente altra realtà e quindi altre possibilità. Perché quelle possibilità si creino e necessario saperle attendere. Come sostiene Punzo, siamo esseri utopici, esseri che sognano, ma che sognano d’occhi aperti. “Io sto lavorando”, dice Punzo, “con l’idea che invece tutto è possibile, ancora da fare, che bisogna ancora fare tutto, non abbiamo fatto ancora niente, siamo agli albori del nostro essere anche su questo pianeta, e ci resteremo ancora”. È Ubaldo Fadini che nel libro fornisce una chiave per comprendere uno degli aspetti più importanti dell’attesa, quando sostiene che l’attesa si combina con il tema dell’attenzione dovuta, o ancor di più sollecitata; quell’attenzione che accompagna la condizione dell’attesa è una disposizione fondamentale perché comprende una sorta di distacco dello stesso soggetto da ciò che pensa di essere, da ciò che è. È il fascino dell’attenzione che come ricordava Walter Benjamin, è una preghiera dell’anima.
Disporsi all’attesa, quindi, è in primo luogo un particolare modo di porsi all’attesa di sé stessi. Individuarsi è in buona misura attendersi. Considerando ad esempio il tema emergente dell’embodied mindfulness, che pone particolare attenzione alla consapevolezza corporea e motoria e alle connessioni mente-corpo, Luca Chittaro ha inteso occuparsi di fornire una base neuroscientifica allo yoga [L. Chittaro, Neuroscienze dello yoga. Evidenze sulla pratica, Mimesis, Milano-Udine 2025]. Lo ha fatto combinando esperienza diretta e metodo scientifico, studiando le relazioni tra yoga e cervello alla luce delle conoscenze attualmente disponibili in letteratura. L’autore esamina nel libro la principale triade dello yoga composta da posture fisiche, respirazione controllata e meditazione, analizzando le possibilità delle pratiche yoga come ausilio importante per aiutare l’essere umano ad affrontare gravi problemi come lo stress cronico, l’ansia, il trauma, la depressione e il dolore.

Sono molteplici i volti dell’attesa. E sollecitano altrettante parti di noi. Chissà se quando un artista e scrittore realizza un discolibro pensa a chi oltre ad ascoltare deve leggere perché desidera scriverne. Mi trovo perciò in una sinestesia fatta di ascolto/lettura/scrittura da cui non so come ne uscirò. Ma ci provo. Perché questa molteplicità mi coinvolge. Mi coinvolgono i testi, la musica e la lettura e il problema, se ce n’è uno, è la ridondanza da cui estrarre un dialogo con il lavoro complesso di Marco Rovelli, dall’articolazione plurale del suo pensiero e della sua creatività. Ora Rovelli ci consegna, come sempre nel suo caso, materiale per pensarci e pensare il presente.
Ad ogni canzone contenuta nel cd allegato al libro, l’autore fa corrispondere un dialogo che ruota intorno a tredici parole, con altrettanti studiosi, poeti e pensatori. Si va da amore ad attesa, passando per metamorfosi ed empatia, cura e utopia. Ma non mancano diserzione e liberazione, meraviglia e creazione. Per chi conosce Rovelli, non è difficile leggere una specie di autobiografia del suo spirito libero e della sua vocazione creativa. Quello che risulta in controluce e attraversa il libro senza una specifica esplicitazione, se non nel titolo, e forse nelle canzoni, è una particolare atmosfera di sospensione, un sentimento di attesa, appunto, che mette in tensione il presente, verso l’altro e l’altrove. Un’attesa che non necessariamente ha una meta. “La pura attesa è attesa senza oggetto”. La risonanza con le piste corporee, cerebrali e mentali dello yoga delineate da Luca Chittaro si fa avanti in modo chiaro, quando si pensi che la meditazione e le attività dello yoga sono in fondo una via in cui cammino e meta coincidono, dove il soggetto che si cerca facendo di sé stesso l’oggetto cercato, si muove per tornare più pienamente a sé stesso. Lasciare il mondo alla pura dimensione del divenire: “…vigilo l’istante/ con imminenza di attesa…”, recita un verso di Clemente Rebora, citato da Rovelli. Forse è l’altro la fonte principale della nostra attesa; l’altro come condizione della nostra stessa individuazione, come emerge dal dialogo che Rovelli porta avanti con Vittorio Gallese. Proprio quell’altro che è la condizione di ogni vita singola; quell’altro o quell’altra in relazione con cui è possibile la nascita e lo sviluppo di ogni persona. Insomma l’attesa come tensione verso quello che ancora non c’è: “un po' di possibile, sennò soffoco”, diceva Deleuze. Giungere alla meraviglia di sé stessi vuol dire cercarsi e attendersi. La via dello yoga, esplorata con dettagli neuroscientifici da Luca Chittaro, si ritrova nelle piste del cercare sé stessi proposte dalle parole e dalla musica di Marco Rovelli.
Il tema, in entrambi i casi, è l’attesa oltre la superficie, e la superficie è la profondità. Chi, se non Paul Celan, poteva indicare l’utopia concreta della poesia associandola con l’attesa più elevata: “La poesia può essere un messaggio in bottiglia inviato nella convinzione – certo non sempre salda – di potere chissà dove e chissà quando venire sospinto a riva” [Paul Celan, L’antologia italiana, nottetempo, Milano 2020]. Sarà un altro a pensare che l’essenza prima del poeta vada cercata in superficie, non dove ognuno tende a divenire ipertrofico e invadente, ma al contrario nella profondità della psiche, dove la vita è allo stadio primordiale e tutti gli individui sono ancora simili [Giorgio Caproni, Sulla poesia, Italo Svevo editore, Milano 2023]. In quella profondità “l’abile vasaio”, secondo Caproni, deve farsi minatore e visitare finalmente las secretas galerias del alma, come suggerisce Antonio Machado, il poeta che forse più di tutti ha segnato uno dei sensi più impegnativi e coinvolgenti dell’attesa. Se sono le orme il cammino, senza sentiero il cammino di ognuno di noi si crea camminando. Non possiamo attenderci che la strada sia segnata e allora l’attesa si rivolge ai nostri stessi passi, ad ognuno dei passi, dai quali soltanto può derivare il cammino, la sua riuscita o il suo fallimento. L’attesa si concentra sul valore di ogni passo, che non solo potrebbe essere l’ultimo, ma che è irripetibile, non ammette repliche e la cui cura è l’effettivo spazio di azione di cui disponiamo. Concentrare l’attesa su ogni passo vuol dire vivere con rigore e poesia ogni presente.
L’attesa, che non rinvia ad un fine, ancora una volta appare paradossale. La contingenza della parola poetica richiama una delle più chiare concezioni della contingenza stessa, quella formulata con la solita puntuale chiarezza da Stephen Jay Gould: “La contingenza non è una semplice attenuazione della necessità ad opera del caso: è la caratteristica ineludibile dei sistemi complessi” [La vita meravigliosa, Feltrinelli, Milano 1989].
Il qui ed ora della parola poetica, quello che nasce dall’inabissarsi in sé stessi per scoprire e portare al giorno quei nodi di luce che pure esistono in ognuno, riguarda la via mediante la quale ognuno si cerca e può trovarsi. Allorquando l’immersione in sé stessi, che è anche un allontanarsi da sé, raggiunge profondità inaudite, allora si rinviene in ognuno la profondissima essenza del noi e l’esistenza giunge ad uno dei suoi vertici possibili. Per quella via si realizza anche un’inversione decisiva e l’attesa si rivolge al passato, ad una dimensione anacronistica. L’anacronismo della poesia è particolare: va contro i tempi a favore del tempo presente, in sostanza per creare il tempo inedito. In proposito Caproni scrive: “A me se voglio parlare della luce, non interessa la lampadina elettrica, interessa il fulmine, il lampo che è di tutti i tempi”. L’attesa di quei vertici, la loro ricerca, non ha una chiave fissa. Lo stesso orizzonte che quella chiave può aprire è mobile. Quella chiave, infatti, è mutevole e incerta a sua volta.
A ben ascoltare i percorsi della creazione poetica, emerge la ragione forse principale della loro potenza e del loro valore: la finzione come forma profonda dell’attesa nella ricerca di sé stessi. Nel caleidoscopio dell’attesa la finzione occupa un posto certamente rilevante e la finzione poetica ne occupa uno centrale. Se fingere non è ingannare, e non lo è, allora riguarda il “fare come se”, cioè una delle vie privilegiate con cui semplicemente nasce il pensiero, nascono le ipotesi scientifiche, nasce l’innovazione sociale, nasce la democrazia, nasce la possibilità di proiettarsi oltre l’esistente, verso ciò che prima non c’era. Di questa possibilità suprema della poesia e della letteratura si è occupato Iosif Brodskij in occasione del conferimento del premio Nobel per la poesia e la letteratura:
“Eppure, dobbiamo parlare; e non solo perché la letteratura, come i poveri, è notoriamente portata a prendersi cura dei propri figli, ma più ancora per via di un’antica e forse infondata convinzione, secondo la quale se i padroni di questo mondo avessero letto un po’ di più, sarebbero un po’ meno gravi il malgoverno e le sofferenze che spingono milioni di persone a mettersi in viaggio. Poiché sono molte le cose in cui riporre le nostre speranze di un mondo migliore, poiché tutto il resto sembra condannato a fallire in un modo o nell’altro, dobbiamo pur sempre ritenere che la letteratura sia l’unica forma di assicurazione morale di cui una società può disporre; che essa sia l’antidoto permanente alla legge della giungla; che essa offre l’argomento migliore contro qualsiasi soluzione di massa che agisca sugli uomini con la delicatezza di una ruspa. Dobbiamo parlare perché dobbiamo dire e ripetere che la letteratura è una maestra di finesse umana, la più grande di tutte, sicuramente migliore di qualsiasi dottrina; dire, ripetere che, ostacolando l’esistenza naturale della letteratura e la attitudine della gente a imparare le lezioni della letteratura, una società riduce il proprio potenziale, rallenta il ritmo della propria evoluzione e in definitiva, forse, mette in pericolo il suo stesso tessuto. Se questo significa che dobbiamo parlare di noi, tanto meglio: non già per noi stessi, ma forse per la letteratura. [Prolusione al Nobel di Josif Aleksandrovič Brodskij, dicembre 1987].
Alla finzione poetica si consegna la stessa possibilità di creare e ricreare noi stessi. E crearsi e ricrearsi cos’altro è se non attendersi e attendere che di noi emerga quel che più desideriamo, che da noi si sprigioni quello che più di tutto sogniamo, quella finesse umana che è probabilmente la più importante ragione per vivere. Nella finzione ci muoviamo e continuiamo a perpetuare l’infanzia della vita, simulando e ri-simulando infinite serie di “come se”, non giungendo mai alla fine, ma attendendo, fino alla fine ultima, il “prossimo come se”, quello ulteriore, accorgendoci, non sempre, che non è nelle mete che ci individuiamo e provvisoriamente definiamo, ma nel movimento tra una finzione e l’altra. Il trenino a molla della poesia di Fernando Pessoa, che gira fino al prossimo dolore, genera attesa e come ogni attesa tende a corrompere nella ripetizione e nell’ansia la stessa capacità di attendere. Eppure, a noi umani non è dato che attendere, e quando l’attimo lo concede, di distillare, attendendo, istanti poetici che alcuni, rari, estraggono da sé e altri, come Marco Rovelli; i molti, se aprono alla poesia, rendendo porosa la superficie, possono sentire, lenendo la propria, di attesa:
Giacevo in attesa
tra la superficie di torba e le mura
del regno, tra strati di erica
e pietre aguzze taglienti.
[Séamus Heaney, La Regina della palude, North, in Scavando, Poesie scelte]
Qualcuno può mettersi in testa di individuare “i concetti fondamentali di una vita che voglia dirsi davvero umana”? La mancanza e l’attesa sono buoni candidati in quella lista.
