Speciale
Creatività
Ha fatto discutere un recente comunicato di Sam Altman, l'amministratore delegato di OpenAI e quindi uno dei principali produttori di Intelligenza Artificiale. La sua dichiarazione lasciava infatti pensare all'apertura di nuove possibilità per la "libertà creativa", cioè di generare immagini e testi anche offensivi, almeno entro certi limiti. In contesti simili "certo" indica il suo contrario, cioè quanto di più malcerto, e l'idea di "libertà" risulta necessaria soltanto in riguardo ad attività lucrose. La libertà prevalente è insomma quella di far soldi in ogni modo possibile, a dispetto di tutte le altre libertà, in particolare di quelle individuali come la libertà di non essere dileggiati, calunniati, deformati a piacimento. Un'altra libertà ancor più generale e connaturata all'avanzamento tecnologico in sé è quella di cui, nella circostanza, Altman approfittava: la libertà di autodeterminarsi e di stabilire da sé i vincoli a cui sottoporre la propria ricerca e i suoi esiti commerciali. Non è infatti una commissione di controllo o comunque un organismo pubblico a decidere come tarare il tasso di bullismo consentito alle future macchine del fango. In campo tecnologico la delega dell'amministratore in capo si estende sino a coprire la legalità generale dei suoi prodotti. Gli stati e gli ordinamenti giuridici nazionali non possono prevenire l'avanzamento tecnologico e quindi al massimo del loro sforzo lo inseguiranno con affanno. Altrimenti lo lasceranno andare, traendo tutti i vantaggi dovuti alla bonomia dei controllori.
Essendo malgrado tutto in una giornata di buonumore si può però rilevare anche un dettaglio che tanto male non è. Nel suo comunicato Altman infatti attribuisce la libertà creativa agli utenti: agli utenti, non alla macchina. È una lieta sorpresa, poiché nella marcia trionfale e apparentemente inarrestabile dell'AI si è già sentito dare per scontato che già oggi essa possa esprimere forme di creatività che finora venivano considerate retaggio esclusivo degli esseri umani.
Creatività? Va detto che nello zoo dei concetti la creatività è uno degli esemplari più bizzarri e la sua gabbia pare dominio assoluto della legge dell'indeterminazione. Ora deserta, ora affollata delle creature più differenti nelle forme e variegate nelle livree e nei piumaggi. Designer, indiani metropolitani, pubblicitari, sarti, jazzisti, docenti di tecniche letterarie, funamboli, commercialisti, pedagoghi, bambini, artigiani, problem solver, cuochi, illusionisti... Tutti creativi. Metterci dentro anche le efficienti macchine di OpenAI non costa nulla, anche perché cosa sia davvero la creatività nessuno lo sa dire. I venditori di creatività scrivono manuali nella cui prima riga è scritto che mai si potrà definire la creatività, perché vendere quel che fa parte del genere merceologico del "un certo non so che" è molto gratificante, e non così faticoso. Cosa sia non si sa, però funziona, dicono loro. Non si sa cosa sia, aggiungiamo, ma alcune cose possono esserne dette. Vediamo solo le principali.
Si può dire con certezza che la creatività attribuisce agli esseri umani una capacità in precedenza affidata in esclusiva a divinità supreme: la capacità appunto di creare, far essere quello che non era. Che anche per questo la nozione di creatività non compare (se non in forme sporadiche) prima della metà del Novecento e soltanto all'interno della società di massa, divenuta sostanzialmente laica. Che la sua traiettoria l'ha portata ben presto al centro di una costellazione di termini: "estro", "mania", "furore", "genio", "ispirazione", "spirito", "invasamento". Sono i termini con cui sin dall'antichità si sono nominati i soggetti putativi dell'azione umana. Il cantore Omero preliminarmente implora: "Cantami o Diva". Prima di cantare è in ascolto, il suo canto è eco, replica, interpretazione simultanea. Del resto sino a tutto il Medioevo l'"auctor" deve il suo nome all'azione di "augēre": aumentare, accrescere qualcosa che si è ricevuto. Ma quindi il tipo di azione umana che noi oggi chiamiamo creativa non implica neppure necessariamente il "fare"? Ha degli aspetti passivi?
In tutte le forme di ispirazione superiore, e almeno sinché e laddove l'arte non ha incontrato il mercato e il pubblico borghese, il soggetto umano bada a che della sua parola o della sua opera lui risulti semplicemente mediatore. Responsabile ne è la Musa, è Apollo che con il fumo ctonio invade il corpo della pizia e lo fa risuonare come una canna d'organo del suo oracolo, è il dio che porta a profetare, è l'angelo che nella rappresentazione scandalosa di Caravaggio muove come un pantografo la mano di Matteo, è l'Amore che, secondo lo "stil novo", fa annotare a Dante quel che gli "ditta dentro". Dettato-dittatura a cui il poeta, profeta o vate così eterodiretto ha il privilegio di soggiacere: la sua parola non sarà più soggettiva ma avrà un marchio metafisico di oggettività.
La nozione di creatività ha ammodernato, reso laica, mercificato questa dinamica. Ci ha prima convinto che tutti possiamo essere creativi e poi che essere lo dobbiamo. Per decenza, per igiene personale, per non cadere nella melma della banalità. Il grande motto di Gianni Rodari diceva: "Tutti gli usi della parola a tutti: non perché ognuno sia poeta ma perché nessuno sia più schiavo". I social network hanno realizzato la prima parte ma capovolto la seconda: non perché nessuno sia più schiavo ma perché ciascuno si distingua (in poesia, o in politologia, criminologia, giurisprudenza, epidemiologia, cosmologia).

Gli esseri umani hanno sempre avuto l'istinto di spostare la scaturigine delle loro idee fuori dal loro ambito e la loro massima hýbris è quella di inventare un Ente più intelligente di loro (e magari capace di sterminarli, vuoi con diluvi universali, vuoi con stragi di innocenti, vuoi con funghi atomici e escalation algoritmiche verso l'Armageddon). Inventare, o meglio creare: far uscire dal Nulla il Creatore che si supporrà averli creati, e a propria immagine e somiglianza.
È la funzione simbolica, quella che la creatività svolge quando la si evoca in ambito artistico, e si attiva su due livelli. L'artista si trova in rapporto simbolico con la figura della divinità creatrice, perché la potenza espressiva della sua ideazione e della sua tecnica si mostra capace di generare quanto non esisteva. Ma la creatività attraversa tutta la piramide sociale, tutti possiamo essere creativi: nel senso che in qualsiasi attività umana si può ambire a emulare non la divinità creatrice ma l'artista stesso. L'artista non può essere dio, se non in senso simbolico; è in senso simbolico che la persona comune può essere considerata artista (nelle attività elencate sopra, in ogni altra, e infine su TikTok).
Ma per essere detti creativi basta davvero saper produrre qualcosa di nuovo? E nuovo in che senso? Automi letterari capaci di comporre testi inediti sono stati immaginati da molti autori, il più delle volte a fini parodico-grotteschi (da Jonathan Swift a Primo Levi). Raymond Queneau ha pubblicato un libro intitolato Centomila miliardi di sonetti e il titolo non è iperbolico bensì fedelmente descrittivo. Il libro contiene infatti dieci sonetti i cui quattordici rispettivi versi sono interscambiabili in modo che è possibile comporre un numero di sonetti pari a 10 alla 14sima potenza, quindi 10 seguito da quattordici zeri, quindi centomila miliardi. La creatività sta nell'aver inventato questa macchina testuale o in ognuno dei sonetti potenzialmente risultanti? Amico di Queneau, Italo Calvino nel 1967 parlò dell'eventualità di una macchina capace di scrivere opere letterarie e si chiedeva che stile avrebbe adottato. Propendeva per l'adesione a moduli classici. Moduli, comunque.
Ora l'AI mette a disposizione la possibilità di generare testi linguistici, visivi, audiovisivi "nuovi". Ma, ancora una volta, "nuovi" in quale dei molti sensi della parola? È indubbio che si possano far produrre alla macchina testi di genere, puntate di serie, illustrazioni nello stile di. Ma bisognerebbe anche chiedersi se queste prestazioni testuali non siano state e non siano già abbastanza macchiniche pure quando la loro produzione è umana. Lo sceneggiatore e l'illustratrice che, sotto scadenza, sono capaci di consegnare quantità prodigiose di pagine e tavole a volte saranno visitati da idee innovative ma altre volte si rivolgeranno a quello che si chiama "mestiere" e che è proprio ciò in cui la macchina potrà eventualmente sostituirli. Si tratta soltanto di capire se anche questa parte ricada sotto l'ombrello della creatività o non sia più opportuno limitarsi a chiamarla "produttività".
Come già per il concetto stesso di intelligenza, estendere il dominio della creatività è possibile a patto però di restringere il dominio stesso. Dobbiamo cioè limitarlo al nuovo di serie, al nuovo come ricombinazione del già esistito, al nuovo modulare. Noi però sappiamo – sino a che lo sapremo – che sulla scena del mondo non esistono soltanto le produzioni che si limitano a riassemblare moduli già noti e produzioni già avvenute. Ne esistono altre che cambiano le regole del gioco, introducono nella combinatoria dei possibili (e negli attuali dataset) ciò che non vi aveva mai fatto comparsa. Esiste cioè il nuovo di rottura e di riconfigurazione, il cambiamento di paradigma, la rivoluzione scientifica, l'evento statisticamente imprevedibile, l'invenzione di codice.
La nozione di creatività è risultata sinora tanto duttile e poliedrica da farne ipotizzare la sostanziale inservibilità, se non a fini di suggestione e come mythologie barthesiana. Oggi però potrebbe risultare utile affidarle un compito specializzato: quello di distinguere dalla produttività dei sistemi algoritmici (non importa che a metterli in opera siano intelligenze umane in modalità esecutiva o dispositivi di generazione AI) le opere e le procedure produttive che comportano innovazioni, oltrepassano i codici già noti, scardinano le abitudini percettive e interpretative.
Prompt, Chi parla? Voci raccolte da Stefano Bartezzaghi, speciale in collaborazione con MAgIA, Magazine Intelligenza Artificiale. Leggi la rivista qui.
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