L’invasione dei virtual influencer
I libri di Davide Sisto perseguono solitamente l’obiettivo di esplorare come la tecnologia contemporanea tenda a scardinare i confini che vengono da sempre attribuiti al corpo umano. I confini, ad esempio, tra la vita e la morte, tra la memoria e l’oblio, tra l’umano e il naturale, ecc. Lo fanno generalmente approfondendo in misura limitata le questioni teoriche e privilegiando la presentazione di una impressionante quantità di casi tratti dall’attualità e in grado di spingere il lettore a sviluppare delle specifiche riflessioni sulle questioni toccate. Riflessioni spesso inquietanti, perché il quadro presentato da Sisto in realtà è assai destabilizzante.
Anche lo scenario contenuto nell’ultimo lavoro di Sisto può generare inquietudine. Virtual influencer. Il tempo delle vite digitali (Einaudi) tratta infatti di quei personaggi digitali che si sono fortemente sviluppati negli ultimi anni e che ricoprono sul piano sociale una funzione analoga a quella svolta dagli influencer in carne e ossa. Questi ormai abbiamo imparato a conoscerli: sono dei testimonial come tanti altri, cioè dei personaggi diventati famosi all’interno del mondo dello spettacolo e dei media che sfruttano la loro notorietà per testimoniare la bontà di determinati prodotti per conto delle aziende. I testimonial tradizionali, però, hanno sempre svolto una funzione commerciale esplicita e dichiarata, altrimenti venivano considerati ingannevoli nei confronti dei consumatori. Invece gli influencer odierni rivestono un ruolo decisamente meno definito e, proprio per questo motivo, vengono considerati dalle aziende più efficaci sul piano della capacità di persuasione dei consumatori e dunque degli effetti commerciali ottenuti. Gli Stati hanno dovuto stabilire delle leggi per regolamentare e limitare il loro operato, per stabilire, ad esempio, dei rigidi confini tra la pubblicità e tutto il resto. Tra, ad esempio, la proposta di consumare un certo prodotto proveniente da un influencer e i contenuti di altro tipo. Tali leggi, però, presentano ancora parecchie lacune.
Il libro di Sisto, come abbiamo detto, focalizza invece la sua attenzione su un nuovo genere di influencer: i cosiddetti “virtual influencer”. Si tratta di Lil Miquela, Lu do Magalu, Rozy, Aitana López, Emily Pellegrini, Zaira e molti altri personaggi che sono stati creati mediante i computer e hanno delle sembianze prevalentemente umane. È in atto una vera e propria invasione dello spazio digitale da parte di questo genere di personaggi. Si calcola che oggi siano parecchie centinaia i virtual influencer attivi, i quali si rivolgono di solito a un target di consumatori estremamente giovani. Si tratta però di influencer che operano solamente all’interno degli spazi digitali presenti nei social media. È noto che oggi sono numerosi gli studiosi che, come il filosofo australiano David J. Chalmers, sostengono che ci sono «molte più persone simulate nell’universo rispetto alle persone non simulate» (Più realtà. I mondi virtuali e i problemi della filosofia, Cortina, p. 39). D’altronde, buona parte delle conversazioni che avvengono attualmente online sono generate tramite dei programmi informatici (utilizzati da chatbot, distributori di spam e strumenti usati dagli hacker). Dunque, i virtual influencer possono essere considerati dei robot, ma con la differenza che la materia di cui sono costituiti «non è fisica ma solo digitale, olografica o – in senso lato – virtuale. Sono sciami di bit, non insiemi di cavi e di tubi metallici. Non li possiamo, quindi, mai toccare. I loro corpi non fanno ombra, la loro esistenza non oltrepassa i bordi degli schermi» (Sisto, p. 9). Sono però naturalmente dei personaggi “veri” sul piano degli effetti che sono in grado di produrre, perché possono ottenere nel Web milioni di follower e like, vengono utilizzati all’interno dei messaggi pubblicitari diffusi dalle grandi marche e dunque hanno la capacità di generare delle conseguenze sul piano commerciale e sociale.
Va considerato però che gli influencer possono essere vittime di quello che Oliver Haimson e altri studiosi dell’Università del Michigan hanno chiamato “il paradosso dell’autenticità online”. L’autenticità, infatti, è considerata importante dagli individui nelle relazioni che si sviluppano all’interno del mondo digitale, ma raggiungerla per gli influencer comporta di solito delle difficoltà, perché richiede di dover mostrare il proprio lato umano e anche le proprie debolezze. E questo fatto si rivela essere problematico quando gli influencer incrementano il loro livello di notorietà e successo e si allontanano pertanto dalla condizione che caratterizza le persone comuni. Ne consegue che devono costantemente adottare delle strategie per convincere i seguaci che, nonostante la notorietà ottenuta, continuano a essere esattamente come loro. Gli influencer cioè sono costretti a vivere in bilico tra la professionalità e la spontaneità, correndo però spesso il rischio che la prima tenda a schiacciare la seconda.
A differenza degli influencer tradizionali, i virtual influencer hanno la capacità di evitare questo problema, in quanto sono in grado di dichiarare esplicitamente la loro inautenticità e ciò paradossalmente li “autenticizza”. Esibendo la loro natura di robot “artificiali” si rendono maggiormente umani agli occhi dei loro seguaci. Cioè «non pretendono – come fanno invece quelli in carne e ossa – di esporre una perfezione di cui sono privi» (Sisto, p. 34). Pertanto, non causano delle conseguenze negative sulla loro immagine personale. Questa, anzi, viene migliorata e rafforzata.
Inoltre, i virtual influencer, poiché non esistono sul piano fisico, hanno la possibilità di offrire alle aziende parecchi altri vantaggi: sono più economici, flessibili, manipolabili e duraturi. Soprattutto, però, non sono in grado di adottare dei comportamenti inopportuni e imbarazzanti per le aziende che li hanno messi sotto contratto. Si spiega così quell’intenso impiego sul piano promozionale che ne hanno fatto negli ultimi anni parecchie imprese.
L’elevato successo ottenuto dai virtual influencer comporta però dei problemi sul piano sociale. Gli individui, infatti, tendono ad affezionarsi a questi personaggi e spesso anche a sviluppare un vero e proprio attaccamento affettivo nei loro confronti. Il che li porta a sostituire progressivamente i legami con i virtual influencer, vissuti come non-problematici, a quelli relativi alle persone in carne e ossa, decisamente più difficoltosi. Così, nel corso del tempo, il mondo con il quale ci si relaziona assume la forma di un universo popolato di soggetti artificiali, ma più coinvolgente e piacevole rispetto a quello della realtà. Ne derivano inevitabilmente una crescita della sensazione di solitudine e fenomeni di disagio sociale come quelli che si stanno registrando nelle società avanzate odierne.
In copertina, Lil Miquela, immagine tratta dal profilo Instagram.