Esiste il destino?
Che cosa è mai il destino, e soprattutto, esiste qualcosa come il destino? Persino Donald Trump ha citato questo termine, nel discorso inaugurale del 20 gennaio scorso. Lo ha fatto a proposito dello spirito di conquista, del «destino manifesto» degli Stati Uniti, che li condurrà all’espansione del territorio nazionale verso nuovi orizzonti, fino a portare tra le stelle la bandiera a stelle e strisce piantandola su Marte. È un destino (dal lat. de-stinare, stabilire, decretare), cioè una legge predeterminata, suprema e immutabile; ed è manifesto, a tutti chiaramente rivelato (dal lat. manus festus, talmente evidente che si può toccare con mano). Trump proclama insomma un’estensione siderale del «destino manifesto» che ha guidato e legittimato la conquista del West e lo sterminio dei Pellerossa e molto altro in seguito.
Noi però non continueremo con l’analisi di questo passo trumpiano, anche se decisamente interessante in quanto conferma la nozione, assai diffusa negli Stati Uniti, del presunto «eccezionalismo» americano. Ci occuperemo invece molto più dottamente di destino, degli antichi e dei moderni, sulla scorta del saggio di Stefano Poggi (Individuo e destino. La Germania e i suoi filosofi tra due guerre, Bologna, il Mulino, 2025, pp. 162).
Destino, parte e merito
L’idea di sorte o destino è fortemente presente nel pensiero greco. In Omero per es. è espressa con vari termini, i più frequenti dei quali sono μοῖρα (moira) e αἶσα (aisa). Entrambi i termini richiamano sia il concetto di parte, sia l’idea di equità e di giustizia, la parte che spetta a ognuno. Il termine moira ha uno stretto rapporto col verbo greco μείρομαι (meiromai), e il lat. mereor, ottenere una parte, ricevere ciò di cui qualcuno è provveduto, perché gli è riservato, impartito, destinato. Ciò che ha «meritato», si potrebbe credere e invece no, non completamente. Perché nel significato originale è contenuta soltanto, del merito, la parte del talento, ovvero di ciò che uno riceve in dotazione. Ma il moderno significato di merito implica anche la nozione di sforzo, che sarebbe l’aggiunta al talento innato di impegno e lavoro conquistato con la volontà, tant’è che l’odierna equazione del merito dà: merito=talento+sforzo. Senza lo sforzo rimane soltanto il talento immeritato, quello che ti è destinato e riservato e che, come tale, è puro dono della sorte e del caso. Nessuno merita di essere nato bello e magro e maschio e bianco nonché in un paese felice e progredito e da una famiglia che ti sprona e ti incoraggia a moltiplicare il tuo talento.
Anche Trump, nel discorso inaugurale, ha parlato, anzi urlato e sbraitato di merito, ripetendo due volte la parola: «Forgeremo una società basata sul merito, sul merito!». A parte il fatto che la società americana di era pre-trumpiana non era proprio fondata sulla assegnazione di cariche e posti di prestigio in base al privilegio del sangue, Trump sembra ignorare che una grossa parte del merito, il talento, non è affatto meritata da chi lo ha ricevuto dal caso, dal destino, senza sforzo e senza impegno.
Il destino degli antichi
La nozione di destino è implicitamente legata alla necessità (in greco Ananke), ovvero al fatto che un certo evento non può non compiersi: è assoluto, ineluttabile. Non è un caso che, come racconta Platone nella Repubblica, le figlie di Ananke siano proprio «le Moire dalle bianche vesti, coronate le teste di bende sacre, ciascuna seduta su un trono: Láchesi, Cloto e Átropo». Il destino è la parte, la porzione, l’esperienza che il singolo si vede toccare; poi c’è la parte/sorte comune a tutti gli umani, la morte, che li differenzia dagli dei immortali. È destino che Odisseo ritorni a Itaca, è destino che Enea giunga ai lidi del Lazio dove nascerà Roma. Ora, è vero che il destino è inteso come un’esperienza che ha da verificarsi necessariamente, ma questa è inserita in una serie di fatti non assegnati incondizionatamente da un fato cieco e assoluto; c’è una parte di libertà e di scelta, di esercizio di atti voluti e responsabili. Per gli antichi greci l’esperienza della sorte è la percezione dei limiti del proprio esistere, ma all’interno di questi limiti è presente in ogni caso un’aspirazione alla libertà.

Il destino dei moderni
La vulgata dominante vuole che il concetto di destino si sia da noi congedato, che su questo punto come in tanti altri la modernità abbia abbandonato le tracce del pensiero antico. Le cose però non vanno così lisce. La domanda sul destino ritorna nella modernità, e Stefano Poggi ne individua e ne studia alcuni aspetti nella Germania tra due guerre. È una domanda che investe il singolo così come la comunità. È una domanda filosofica che si innesta su «quel singolare tipo di attività umana che è rappresentato dalla riflessione filosofica». È la domanda intorno all’essere dell’uomo nel mondo che riguarda la tensione tra l’individualità del soggetto, la sua volontà e libertà, e l’impersonale necessità dei fenomeni di natura. Interroga sul significato, il valore, il fine per chi vive la vita e gli eventi del mondo in un rapporto segnato dal caso.
Negli autori del trentennio 1910-1940 studiati da Poggi: Simmel, Dilthey, Lukàcs, E. Bloch, Spengler, Th. Mann, Otto, Jaspers, Rosenzweig, Benjamin e altri, il concetto di destino si articola in definizioni originali: da una parte, benché si sappia di essere nel destino, la vita continua a essere retta dal senso quando coglie il concatenarsi degli eventi nei quali si è coinvolti e dei quali si può diventare partecipi (Simmel); dall’altra, prevale il fascino del necessario, dell’ineluttabile, del «demoniaco» (Jünger, Schmitt).
Una posizione a parte occupa Spengler con il suo Tramonto dell’Occidente (questione che, mutatis mutandis, ancora ci attanaglia). Per Spengler il destino, radicato nella natura umana – spiega Poggi – rende possibile, detto con linguaggio aristotelico, la traduzione della possibilità in realtà: individuiamo e fissiamo rapporti di causa e effetto proprio perché è l’idea di destino che vi ci conduce. Ogni civiltà comunque, Occidente incluso, ha la propria idea di destino, che si comprende non tanto concettualmente e razionalmente quanto tramite l’arte e la religione: Spengler sa di essere dipendente da Nietzsche, dall’eterno ritorno e dal destino anche se, precisa Poggi, il fatalismo indifferente alla sorte degli individui di Spengler non ha nulla a che fare con il tragico eroismo della scelta di Nietzsche.
Accanto a Nietzsche, altro nume ispiratore – per non parlar di Goethe – è Kierkegaard. Per il pensatore danese la concezione cristiana del destino ha compiuto grandi passi avanti rispetto al mondo pagano, ove domina la necessità del caso. Nel cristianesimo paolino di Kierkegaard la fede che porta alla verità e alla libertà elimina l’angoscia introducendo la provvidenza. È un’idea forte, vincente: nessuno ama ammettere che la propria vita sia retta sempre e solo dal caso, dalla fortuna e dalla sfortuna, soprattutto nel caso di eventi positivi. Ognuno ritiene preferibile immaginare di vivere in un mondo dotato di senso, senso come significato e senso come direzione, e su una linea retta, non su un cerchio che si avvoltoli su se stesso come l’uroboro e stia a indicare una ripetizione del destino nella vita dei singoli o nell’esperienza di vita dei molti.
Dalla necessità alla libertà
In fondo è questa la concezione semplificata e semplicistica della vulgata odierna: un destino di necessità assolutamente vincolante per i Greci, una storia di libertà e responsabilità per gli eredi del pensiero cristiano. Poggi ci spiega che non è così per i moderni, almeno per alcuni di essi, tra i quali Walter Benjamin che si ispira a Goethe. Goethe ha esercitato nel pensiero tedesco sul destino l’influenza più forte. Benjamin lo nota nel saggio del ‘22 su Le affinità elettive di Goethe (nella raccolta Angelus Novus). Sui personaggi di questo romanzo pende qualcosa di mostruoso, di demonico: la manifestazione del caos della natura. Come nell’ambiguità del lago assassino dal nome innocente (Lustsee, lago del piacere) sul quale regna appunto un destino demonico.
Ispiratore del modello del destino per Heidegger è invece Hölderlin: l’essere dell’uomo è in sé un destino. La vita ne è limitata e costretta, come un fiume dagli argini. «Il Reno è un destino», canta Hölderlin e Heidegger lo riprende. All’inizio corre verso est, verso l’Asia, verso la Grecia, verso il passato, e poi, in un punto preciso, cambia repentinamente il corso e sciogliendosi dai compagni Ticino e Rodano si rivolge a nord, nella destinazione che è il suo destino. O per meglio dire viene mandato dal destino a nord, già che il termine tedesco principale per destino è Schicksal, e schicken significa mandare, inviare, spedire. La modernità, se ne deduce, tende a un ritorno impossibile all’antichità, dove cadrebbe nel caos di un destino imprevedibile e incontrollabile. Che ha però l’inconfessabile vantaggio di liberarci dalle nostre responsabilità: è così, si nasce così, è il destino, non ci si può far niente.
