Democrazia e solidarietà

28 Maggio 2024

Quando si legge o si sente parlare di «crisi della democrazia» da una parte si ha spesso l’impressione – io almeno ce l’ho – che vi si confondano e si mischino vuoi la descrizione del fenomeno vuoi le sue cause. Faccio un esempio: il disinteresse per la politica, l’astensionismo, la disistima per la classe dirigente, sono elementi della «crisi della democrazia» o la causano? Lo stesso vale per il dominio della tecnica, del mercato globale liberista, neo e ultraliberista, per la crisi del partito politico sostituito da associazioni personalizzate in mano a segretari/influencer, per le carenze di competenza e conoscenza dei candidati politici. La dissoluzione dei partiti politici è una componente della «crisi della democrazia» o ne è la sua causa? 

Dall’altra parte però questa sovrapposizione del fenomeno in sé e delle sue cause mi appare anche significativa di una situazione quasi troppo complessa perché se ne possano districare con spirito cartesiano di chiarezza e distinzione i vari fattori.

Per uscire dall’impasse, spero non per creare ancora maggior confusione, ho immaginato alcune possibilità di uscita dalla crisi della democrazia così come la viviamo in questi primi decenni del secolo XXI. Cercando una definizione che non sia l’affastellarsi delle sue cause chiamerò «crisi della democrazia» il fenomeno praticamente internazionale che vede la scarsa partecipazione dei cittadini alle scelte che li riguardano; l’incapacità (o la non volontà) delle classi dirigenti di superare le crescenti diseguaglianze economiche e sociali e le crisi ambientali (climatica, atmosferica, da eccesso di luminosità, di calore e di rumore artificiali), nonché la carenza di competenze e di conoscenze politiche dei candidati.

Mi soffermerò sul primo aspetto (la scarsa partecipazione), sul quale mi sembra di avere qualcosa da dire più che negli altri casi, e questo anche se temo di cadere nella stessa sovrapposizione di fattori descrittivi (la «crisi della democrazia» è caratterizzata da scarsa partecipazione) e causali (la scarsa partecipazione è causa della «crisi della democrazia»). Ma tant’è, ci provo.

Introduco quindi a questo punto tre fattori a mio avviso importanti e tra di loro interagenti per sopperire alla scarsa partecipazione intesa come effetto e causa della «crisi della democrazia»: la scelta partecipativa democratica; l’individualismo solidale; la solidarietà intergenerazionale. Li affronterò non come se stessi scrivendo un saggio di filosofia politica per una rivista scientifica peer reviewed quanto un articolo nello spirito di Doppiozero: che è rivista culturale, luogo di confronto di artisti, letterati e lettori, scrittori, filosofi, nonché mercato democratico di idee, progetti, critiche, proposte.

La scelta partecipativa democratica

Non mi rifarò ai teorici della democrazia partecipativa, Benjamin Barber o Chantal Mouffe, per le ragioni dette sopra. Il mio riferimento sarà invece il filosofo epistemologo del secolo scorso, Paul K. Feyerabend, del quale si festeggia in questo 2024 il centenario della nascita, come ha fatto Mario Porro su Doppiozero. Feyerabend (autore, tra l’altro, di Contro il metodo (1975), manifesto dell’anarchismo metodologico), viennese, dopo lunghi soggiorni in Gran Bretagna era finito a insegnare a semestri alterni all’Università della California (Berkleley) e al Politecnico Federale (ETH) di Zurigo. Cito i paesi perché si tratta in entrambi i casi di luoghi di azione di comitati civici (la California) e di referendum popolari propositivi (la Svizzera), ovvero di interventi di democrazia partecipativa. A entrambi Feyerabend si ispira per insistere sulla scelta partecipe dei cittadini alle decisioni politiche. Per sostenere la sua tesi Feyerabend cita esempi, casi empirici nei quali la situazione deve essere sì presa in esame da esperti e tecnici e valutata dai politici, ma in ultima analisi decisa dai cittadini perché è su di loro che ricadono le conseguenze. Il coinvolgimento delle persone, è la tesi, li fa interessare all’argomento, li stimola a informarsi e a soppesare i pro e i contro. «Gli esperti sono necessari, assolutamente, c'è chi in un campo ne sa più di altri. Questo non vuol dire che gli esperti siano perfetti, ma che hanno delle informazioni che possono essere false o vere. Però questi esperti devono essere controllati, perché spesso sbagliano ... gli esperti devono venire giudicati da tutti. Supponiamo che in una certa zona si voglia costruire un reattore nucleare. Chi riguarda questo? Naturalmente tutto il paese, perché in caso di esplosione la catastrofe sarebbe generale. Però riguarda ancora di più la gente che abita nella zona, quindi si devono fare degli incontri, dove gli esperti, diversi esperti, danno il loro giudizio. Ma il giudizio definitivo spetta alla popolazione della zona, deve essere una decisione democratica. [...]

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Anche in un processo ci sono giurati che sono cittadini normali. Gli esperti espongono ai giurati il loro giudizio sul processo; ma il giudizio definitivo viene dato dai giurati, dai laici che sentono che cosa dice un esperto, cosa dice l'altro esperto e poi si riuniscono per decidere. Ma il giudizio definitivo viene dato loro, sotto la guida di un'altra persona, un conoscitore della legge, per cui sono i cittadini a giudicare, e non gli esperti. E così dovrebbe essere dappertutto! [...]. Certo che anche i cittadini possono commettere errori nei loro giudizi, ma sono loro gli interessati e solo i loro eventuali errori possono decidere della loro vita e non gli errori di altri» (dall’intervista di Paul Feyerabend da parte del giornalista della RTSI Guido Ferrari, 1990).

Individualismo solidale

Si adduce spesso tra le cause (o le caratteristiche) della «crisi della democrazia» la chiusura individualistica: l’individualismo, parola ormai quasi blasfema, renderebbe le persone autocentrate, narcisiste e incapaci di confrontarsi con gli altri e di agire in maniera comunitaria e solidale. Io vorrei qui invertire la tesi e appellarmi al principio dell’individualismo, in particolare dell’individualismo solidale come espresso in un aureo omonimo libretto a cura di Ferruccio Andolfi (Individualismo solidale. Una nuova immagine dell’utopia, Monte Università Parma Editore, 2023). Nei saggi, uno dei quali di mia mano, si saluta come un valore la nascita dell’individuo moderno, libero, autonomo e autocentrato, responsabile e portatore di diritti appunto «individuali», ma si ammette e si promuove la possibilità di conciliarla con istanze sociali di generosa reciproca dedizione. Una coesione sociale dunque che va di pari passo con la cura di sé di individui emancipati, in una sorta di nuova utopia, come spiega nell’Introduzione Ferruccio Andolfi. Invece di dissolversi in una trama di relazioni da molti auspicata, l’individuo rimarrebbe centrale, e con lui la più forte protezione che abbiamo contro i soprusi degli altri individui, della comunità e dello Stato. Il tutto nello spirito di Simmel per il quale è vero che l’individualismo può degenerare nell’ipertrofia dell’io, ma può anche rendere possibile l’emancipazione e il rafforzamento effettivo degli individui grazie all’allargamento e alla moltiplicazione delle cerchie sociali di appartenenza e della loro interna ed esterna solidarietà. Io penso che questo tipo di posizione, lontana da quegli slogan che fanno tanto oratorio: relazione, fare comunità, gli altri, esiste soltanto il noi etc., sia maggiormente in grado di catturare lo spirito di quelli, e sono tanti, che nel suo intervento Paolo Costa ha chiamato i «socievolmente asociali». Sono coloro che amano la «libertà scontrosa», che si compiacciono della loro condizione e della loro «socialità selvatica», che onorano i doveri di solidarietà ma in fondo in fondo sono un po’ selvatici, come quelli che stanno in fondo alla campagna, nella loro terra di luce e di follia, che Genova e il mare li immaginano da soltanto (da Genova per noi, musica di Bruno Lauzi, parole di Paolo Conte).

Voglio dire che soprattutto nei nostri tempi bizzarri di persone chiuse in casa davanti a schermi piccoli e grandi non ha molto senso supplicarle di uscire e organizzare feste di caseggiato o di quartiere, magari multietniche: meglio rispettare il loro bisogno di essenzialità, il loro, scrive Paolo Costa, «desiderio sano di essere lasciati in pace» (e ciò detto da uno che si occupa di filosofia della montagna e in montagna ci va per godere della pace e della solitudine e della risonanza – per usare il concetto valorizzato da Hartmuth Rosa –; una buona proposta per cercare di realizzare i suoi e i nostri bisogni simmetrici di indipendenza (individuale) e dipendenza (collettiva).

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La solidarietà intergenerazionale

Chiudo col principio di solidarietà intergenerazionale, da esercitare per uscire dall’impasse della crisi di partecipazione della democrazia. Lo faccio partendo da due casi recentissimi, entrambi verificatisi in Svizzera.

Il primo caso ha avuto luogo il 3 marzo 2024. La Svizzera è una democrazia semidiretta, nel senso che molti problemi vengono risolti facendo decidere alla popolazione tramite referendum propositivi (mentre in Italia vige soltanto il referendum abrogativo). Uno di questi referendum chiedeva l’istituzione della tredicesima mensilità per le pensioni, e i pronostici non erano per nulla favorevoli. Si diceva che le persone di età matura e soprattutto i giovani avrebbero votato contro in quanto sarebbe toccato a loro pagare tutte quelle pensioni, e addirittura un mese in più. Invece il referendum è passato, in tutta la Svizzera, con il 58% dei voti, ed è stato anche un referendum molto partecipato. È passato perché le giovani generazioni sono state solidali con i vecchi. Forse hanno pensato ai loro nonni, forse hanno pensato a loro stessi, o forse semplicemente hanno agito – voglio sperare che sia così – per solidarietà con gli anziani.

E gli anziani hanno risposto con una forma di solidarietà ancor più stupefacente. O meglio, hanno dimostrato di essere anch’essi, anche esse, le anziane, in grado di agire in maniera solidale con le generazioni più giovani. E hanno anche dimostrato che con l’ostinazione si vince. Mi riferisco a un movimento di 2500 donne anziane, dal nome Anziane per il clima che hanno citato a giudizio lo stato elvetico perché non fa abbastanza per istituire misure concrete di contrasto ai cambiamenti climatici, che minacciano il loro diritto alla vita. Il 9 aprile 2024, la Grande Camera della Corte Europea per i Diritti Umani (CEDU) di Strasburgo ha riconosciuto il diritto umano alla salute minacciata dal cambiamento climatico. La salute dei vecchi per il periodo di vita che loro è ancora concesso, la salute dei giovani per un periodo molto più lungo, visto che è a loro, diceva già Aristotele, che spetta il futuro. La sentenza è storica in quanto per la prima volta, un tribunale transnazionale specializzato in diritti umani sostiene esplicitamente il diritto alla protezione del clima. 

Benché l’azione sia stata intrapresa da un gruppo di donne dell’età media di 75 anni, ci vuol poco a capire che siamo di fronte a un gesto di solidarietà intergenerazionale di grande spessore. Sarebbe interessante che iniziative come queste non rimanessero confinate tra le montagne elvetiche ma si estendessero ad altri paesi. Entrerebbe nel nostro comportamento una venatura di logica del dono e della restituzione. Una forma di circolo virtuoso come nella raffigurazione delle tre grazie. Dare, prendere, ritornare. 

Bisognerebbe ispirarsi a questa antica logica del dono per trasmettere da una generazione all’altra forme di solidarietà, restituendo quello che si è ricevuto, o come le Anziane per il clima, restituendone di più, che è un segno di grandezza. Potremmo concludere la nostra riflessione sulla solidarietà generazionale richiamando le parole del filosofo contemporaneo, il mio caro grande amico e grande filosofo Remo Bodei, che se ne è andato nel 2019, il 7 novembre e ci ha lasciati soli, orfani del suo pensiero: «Se ciascuno di noi fosse capace di godere del poter dare di più di quello che si ha, la nostra società sarebbe migliore». E la democrazia verrebbe aiutata a superare la sua crisi.

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