Specchio: storia simbolica di un’immagine

27 Novembre 2023

Lo specchio è un artefatto antico: ne sono stati trovati esemplari in tutto il mondo, alcuni dei quali risalenti al VI millennio a.C. Oltre allo specchio artefatto, prodotto dall'azione e dall'intenzione di qualcuno, c'è però anche lo specchio naturale, la superficie liquida, l'acqua. Noi che in genere non ci specchiamo mai sulla superficie dell'acqua potremmo considerare sfocata l'immagine che riflette, senza sapere che può dare invece risultati di altissimo nitore e grande precisione.

Ben lo sapeva il giovinetto Narciso, il cui mito ci viene subito alla mente se pensiamo al gesto di specchiarsi nell'acqua e alle sue, per Narciso, terribili conseguenze. Tutti conoscono Narciso, la cui struggente vicenda è narrata da Ovidio nelle Metamorfosi. Forse non tutti sanno però che il suo destino equoreo era in qualche modo predestinato dalla natura dei suoi genitori, un fiume (il Cefíso) e una ninfa acquatica, la cerulea Liríope (dagli occhi sfacciati, da lirós, sfacciato, e ops, opós, femm., occhio). Occhi sfacciati che la madre trasmise in eredità al figlio, dal momento che questi li usò in maniera sfacciata, per innamorarsi cioè della sua immagine riflessa nell'acqua di una fonte. Eppure l'indovino, il cieco Tiresia, interrogato dalla madre se Narciso sarebbe giunto a vedere una lunga vecchiaia, l'aveva avvertita. Ci arriverà, aveva risposto, «se non conoscerà se stesso» (si se non noverit, v. 348).

Narciso, Waterhouse

Ora, l'episodio narrato da Ovidio è due, se non tre volte, speculare: presenta cioè ben tre fenomeni di riflessione: di immagini, di sentimenti, di suoni. Narciso vede se stesso riflesso nelle acque; Narciso si innamora della sua immagine allo specchio, ma soltanto dopo aver rifiutato l'amore di un'altra ninfa, Eco, la cui caratteristica era quella di rimandare i suoni proprio come la superficie dell'acqua rimanda le immagini. Il suono riflesso è ingannevole tal quale l'immagine riflessa. Sembra di ritrovare nel mito di Eco e Narciso un risuonare del tema platonico secondo il quale le rappresentazioni che ci formiamo non corrispondono alla realtà in sé. Qualcosa di simile è detto nel dialogo platonico Teeteto (206d). Quando si traducono i pensieri in parole si dà forma alla propria opinione «nel flusso (roén) che scorre dalla bocca come in uno specchio o nell'acqua». La storia della ninfa Eco si propone insomma come la versione sonora del motivo visivo in Narciso: in entrambe riflesso e ripetizione senza contatto reale.

Le parole della filosofia

L'episodio di Narciso, che Tagliapietra articola sulla mímêsis del desiderio, con queste tre diverse elaborazioni del tema della specularità, ben mostra la densità di senso e di pensiero della cosa-specchio. Così densa e pregnante da aver consegnato al linguaggio della filosofia alcune delle sue parole più pregnanti: speculare/speculazione, riflettere/riflessione, ovvero il tornare a se stesso del pensiero dopo che si è posato su cose e su concetti e idee di cose. Dovendo tradurre i termini greci theoréin e theoría – i quali solamente a partire da Platone avevano assunto il senso di contemplare e considerare (mentre in epoca precedente designavano l'invio di ambasciatori per una festa religiosa) – il latino fece ricorso al verbo speculor, ari, derivato da specio, guardare, nel significato di pensare, meditare (anche se il significato originario di speculor era ben diverso, denotando propriamente lo stare su una specula, ovvero su un luogo elevato dal quale si può vedere) e che comunque si collegava al greco di sképtomai, osservo, da cui scopía e anche sképticos, colui che prima di credere a qualcosa la guarda e ci pensa sopra. Riflessione e speculazione, insomma, termini legati allo speculator, all'osservatore, allo speculum e alla reflexio, definiscono la stessa attività del pensare, il processo mentale del rinviare per riconsiderare. 

Ecco, forse qui si può cogliere il nucleo centrale del densissimo e ricchissimo saggio di Andrea Tagliapietra (La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica dell’immagine, nuova edizione rivista e accresciuta, Roma, Donzelli, 2023, pp. 464), sul quale il suo autore gira e rigira da decenni, arricchendo e perfezionando le intuizioni di base, come se lavorasse su un pilpul ebraico ai limiti della pensabilità. Come se sul pensiero centrale, che è quello del ruolo dell’immagine presentato con la metafora dello specchio, girassero in maniera concentrica altri pensieri e testi di tutta la tradizione filosofica riflettendosi su altri testi e fornendo materiali alla speculazione. Lo specchio, scrive Tagliapietra, è la porta dell’immagine, immagine e specchio nascono insieme. È stato grazie all’impiego della metafora dello specchio – assevera Tagliapietra – che Platone inventa la metafisica e il vocabolario ontologico e estetico dell’immagine. Anzi la metafora dello specchio è la metafora stessa della filosofia che riflette e specula sulla totalità delle cose, É la figura della persona che si guarda e che «con la vertiginosa fuga dell’autoreferenza, riassume, con la potenza che è propria dell’immagine, la ricorrente ambizione del pensiero filosofico per un sapere assoluto e senza resti, totalizzante e autofondato» (p. 25). 

Specchio greco

 Lo specchio in mano alle donne

Un destino «alto» attendeva quindi lo specchio, oggetto peraltro considerato frivolo perché sempre in mano alle donne. Scriveva Rilke in un Sonetto a Orfeo (II, ii)

...gli specchi catturano sovente
quel raro e casto sorriso di fanciulle... 

Lo specchio è cosa da donne, chi dice specchio dice donna, tanto nella cultura classica quanto in quella giudaico-cristiana – «gli specchi si affacciano nella Bibbia portati dalle mani delle donne», scrive Tagliapietra, e lo confermano le immagini, che illustrano con accortezza questo testo, da quelle della Grecia classica, a quelle della pittura europea medioevale e moderna. Come è possibile che, nonostante questa connotazione femminile, quindi di per sé svalutante, esso sia andato a designare nozioni così elevate come la conoscenza di Dio, del mondo, di sé? Io credo che siamo di fronte a un ennesimo caso di applicazione del «paradosso di Arianna». Il «paradosso di Arianna» è una nozione da me ideata e proposta per designare situazioni in cui l'oggetto femminile e l'attività ad esso legata sono considerati indegni dell'uomo (maschio), come il fuso e il filo, o proprio lo specchio; questi stessi oggetti e attività sono però accettati nel caso in cui abbiano subito un processo di purificazione, per esempio attraverso la metafora, che li rende astratti, quindi degni di designare attività virili: vediamo infatti nel mito del labirinto un filo di lana arrotolato su un gomitolo diventare il filo del logos e della ragione, come assistiamo alla trasformazione metaforica di uno strumento da toeletta in specchio della natura, o meglio nella filosofia come specchio della natura. Anche se proprio contro questa metafora della mente come un grande specchio che contiene rappresentazioni più o meno accurate della realtà si scagliò il filosofo americano Richard Rorty nel suo La filosofia e lo specchio della natura, del 1979. L’intera epistemologia moderna, cito Tagliapietra che cita Rorty, «non si discosta molto dallo sviluppo di una metafora originaria, quella del miglioramento di “una facoltà quasi visiva, lo Specchio della Natura». «Fu la fissazione su questa nostra presunta «essenza rispecchiante» (glassy essence), fatta di una sostanza «più pura, più fine, più sottile, e più delicata di molte altre...qualcosa che condividiamo con gli angeli», afferma Rorty, che portò i primi filosofi e poi tutti i loro discendenti a interpretare la conoscenza in termini di rappresentazione del mondo accurata, sempre più accurata, come nella versione contemporanea del realismo di John Searle da lui criticato; quest'ultima afferma che tanto più lo specchio della mente sarà pulito, chiaro e senza macchie, tanto più esso permetterà di cogliere la verità nel suo adeguarsi progressivo alla cosa. Purtroppo il paragone della mente umana con lo specchio impoverisce secondo Rorty l'attività della mente assegnandole una dimensione contemplativa, di riflessione e registrazione passive di dati, e cancellando la dimensione poetica, attiva, creativa, immaginativa, inventiva. E tutto perché ai primi filosofi greci venne in mente di concepire l'attività della mente come uno specchio riflettente.

Magritte

Conoscenza di Dio e conoscenza di sé

Nel caso della conoscenza di Dio e del mondo, è la mente (o l'anima) che si fa metaforicamente specchio, al fine di assorbire la luce emanata dalla divinità o la struttura della realtà esterna. Per quanto riguarda la conoscenza di Dio, a partire da Platone e dai neoplatonici l'anima come specchio della divinità, che riflette la luce che da essa emana, è un tema costante del pensiero religioso. Luce e specchio catturano le fattezze sia attive sia passive della mente/anima, si legge nell'Alcibiade Maggiore di Platone (133 C). «C'è una parte dell'anima», dice Socrate interloquendo con Alcibiade, «in cui risiedono il conoscere e il pensare...». Questa parte dell'anima, continua Socrate, è come uno specchio chiaro e puro, più luminosa dello specchio dell'occhio, più luminoso e più puro del quale c'è solamente il dio, che altro non è che «lo specchio migliore».

In quegli specchi portati dalle mani delle donne si articola anche gran parte del pensiero ebraico e cristiano, con quell’umanità creata a immagine e somiglianza del Creatore, dove peraltro, nel pensiero cristiano, anche Cristo è immagine di Dio, è icona del dio invisibile. Da Platone al'ellenismo neoplatonico, alla teologia protocristiana di Paolo della Prima lettera ai Corinti: «Videmus nunc per speculum in aenigmate» (adesso vediamo come in uno specchio, in immagine, 1 Cor 13, 12), ove compare l'idea della visione indiretta, a sottolineare il fenomeno per il quale ciò che lo specchio ci dà è l'immagine della cosa, non la cosa stessa. 

Oltre a ciò, lo specchio mostra un'immagine finché l'originale gli rimane davanti. Se l'immagine rimanesse in qualche modo fissata sullo specchio come sulla cera, l'originale non servirebbe più, sostituito dalla copia. Fenomeno che si è infatti verificato con la fotografia e tutti gli strumenti successivamente inventati per fissare e riprodurre immagini e suoni, e che fanno sì che noi uomini e donne globali viviamo in un mondo di copie e non di originali. Nel mondo degli specchi invece non era così, ed era quindi possibile distinguere tra originale e immagine, tra Urbild e Bild, e vedere in questo qualcosa di nuovo e diverso rispetto a quello.

Se poi gli specchi sono più di uno e si riflettono tra di loro, il numero di immagini riflesse potrà diventare infinito rispetto all'originale. È così che il potenziamento del riflesso serve, in Plotino, Porfirio, Macrobio, nello Pseudo-Dionigi come pure in Nicolò Cusano, come modello mentale di un'ontologia noeplatonica, in cui gli ordini di realtà si presentano come riflessi sempre più tenui dell'inaffebile luce divina. Nello Pseudo-Dionigi i fedeli di Dio e ancor più gli angeli sono «specchi, chiarissimi e immacolati», pronti a ricevere tutta la bellezza dello splendore divino (Dionigi Areopagita, De coelesti hierarchia, III, 1 [164D] e De divinis nominibus, 22 [210][724B]). In Cusano lo specchio primo della verità (il Verbo che permette di cogliere Dio) trasmette la sua chiarezza a un numero indefinito di altri specchi, gli intelletti umani, coi quali «la nostra mente rispecchia la verità». La verità di Dio, la verità del mondo da lui creato in cui, come illustra Tagliapietra, c’è concordanza di tutte le cose nella diversità di tutte.

Peter Christus

Conoscenza e cura di sé

Nelle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio e nelle Favole di Fedro si racconta che Socrate esortasse i suoi discepoli a guardarsi nello specchio per conoscere loro stessi. Lo strumento è materiale, ma la conoscenza di sé che si acquista guardando il proprio viso allo specchio non è più soltanto materiale bensì sta alla base di ogni progresso morale. La conoscenza allo specchio conduce alla cura di sé. «Esamina i tuoi atti – dice il saggio in un frammento presocratico attribuito a Biante, uno dei Sette Sapienti, vissuto nel VII-VI secolo a.C. – come se ti guardassi in uno specchio per dare onore a quelli nobili e nascondere quelli che ti procurano vergogna» (Diels- Kranz 10,3 [I, 65, 2]). 

Come l'antico sapiente, anche Socrate raccomandava l'uso dello specchio in vista di perfezionamento morale, perché guardarsi nello specchio è il mezzo più sicuro per trionfare sui vizi e dominare le passioni. Così Socrate «invitava i giovani a guardarsi spesso, affinché, se erano belli, se ne rendessero degni, e se erano brutti, nascondessero a loro disgrazia con l'educazione». Diogene Laerzio ricorda ancora che Socrate raccomandava lo stesso rimedio agli ubriachi: guardarsi allo specchio sarebbe stato sufficiente perché si allontanassero da un vizio che tanto li sfigurava (Diogene Laerzio II, 53 e III, 39). 

Pure Seneca, l'amico degli stoici, mise in rilievo l'importanza dell'esame di sé condotto allo specchio a scopi morali: gli specchi, scriveva, sono stati inventati perché l'uomo conosca se stesso. L'insegnamento stoico incoraggia l'uso dello specchio nel caso di passioni che deformano il volto e l'anima, come l'ira. Se l'anima potesse apparire agli occhi nera, schiumante, sconvolta, chi si contempla ritornerebbe al buon senso. Anche perché, conclude Seneca con toni alquanto moderni, «ricorrere allo specchio per guarire vuol dire essere già guariti» (Seneca Nat. quaest. I, 17, 4 e De Ira, II, 36, 1).

Non poteva mancare, nelle potenti pagine di Tagliapietra, l’autore che riprese e ripropose il tema cinico-stoico dell'occuparsi di sé. Mi riferisco a Michel Foucault e a quello che fu l'interesse teorico che caratterizzò l'ultima fase del suo pensiero, ovvero l'analisi delle forme e delle modalità del rapporto con se stesso. Foucault ritiene che nel pensiero greco il precetto di prendersi cura di sé sia prioritario al conoscersi. Per i Greci, scriveva Foucault, era necessario «occuparsi di sé, aver cura di sé, e questo al fine di conoscersi e al fine di formarsi, di andare oltre se stessi, per padroneggiare dentro di sé gli appetiti che altrimenti rischierebbero di prendere il sopravvento». Ma forte è anche l’interesse per il primo Foucault, quello di Le parole e le cose (1966), con la sua analisi della rappresentazione della rappresentazione nel gioco di specchi de Las meninas di Velázques, che genera in Tagliapietra l’occasione per studiare altre immagini riflesse negli specchi, e per ribadire il concetto centrale, quasi la sua metafora assoluta: lo stacco del sé da sé stesso nel guardarsi allo specchio e il ritorno della mente/anima su se stessa nel processo di speculazione e riflessione.

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