Saito Kohei: Marx ecologista
Saito Kohei è un filosofo giapponese. Nato nel 1987, è oggi uno degli intellettuali marxisti più influenti al mondo. Lavorando sulle carte inedite del Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA) – la più vasta collezione di scritti dei due teorici comunisti, alla cui edizione partecipano studiosi di tutto il mondo – Saito ha impresso una svolta significativa all’interpretazione del pensiero del rivoluzionario di Treviri.
Negli ultimi difficili anni di esilio a Londra, che seguirono alla pubblicazione del primo libro del Capitale (1867), Marx mostra un intenso interesse per le scienze naturali (geologia, botanica, agronomia, chimica, mineralogia) e per la storia delle comunità tradizionali (le comunità rurali russe, le associazioni di marca dei popoli germanici). Di questi interessi e degli influssi sul suo pensiero rimane traccia nell’enorme quantità di appunti, taccuini e bozze che Marx compila nelle lunghe giornate di studio alla biblioteca del British Museum, e che Saito si è preso la briga di leggere e interpretare.
Il confronto con la scienza ecologica e con le esperienze egualitarie pre-capitaliste, porta Marx a rivedere molti dei presupposti della proposta comunista sino ad allora formulata con Engles. Come messo in luce da Saito in L’ecosocialismo di Karl Marx (uscito nel 2017), a venire superati da Marx negli ultimi anni di vita sono i presupposti produttivisti ed eurocentrici, aggregati intorno al dogma del primato della crescita economica, e che troviamo espressi anche nel Manifesto del partito comunista. Ad emergere è invece un Marx ecologista, attento al metabolismo naturale della Terra, alla sostenibilità tra lavoro umano e cicli naturali, e pronto a rivalutare le condizioni di equità e le capacità di autogestione comunitaria. La lettura marxiana della storia si complessifica, l’idea di progresso come direzione unilaterale che passa per tutte le società dallo sviluppo capitalistico occidentale (considerato superiore e necessario al dispiegarsi delle forze liberatrici del socialismo) viene messa in discussione, e si afferma la necessità di spezzare il giogo non solo dell’uomo sull’uomo, ma anche dell’uomo sull’ambiente. Marx si veste così di nuovi colori, tornando ad essere una voce utile e fresca per la critica al capitalismo contemporaneo.
Ma è in Il Capitale nell’Antropocene – uscito in Giappone nel 2020 e ora proposto in Italia da Einaudi – che Saito sviluppa appieno queste riflessioni. In questo ultimo libro, che ha già venduto nel mondo oltre venti milioni di copie, Saito tratteggia una proposta politica e filosofica per i tempi caldi della crisi climatica, cercando di riattivare la capacità di immaginare un'alternativa allo status quo. Come (ri)costruire un senso del “comune” di fronte al più grande dei problemi e delle emergenze che ci minaccia? Perché la crisi climatica non ci spinge ad agire insieme, a decidere democraticamente cosa è importante e cosa invece è un inganno, mettendo in discussione individualismi e ingiustizie considerate come “naturali” e immutabili?
Saito ha le idee piuttosto chiare in proposito. Per guarire il mondo dalla febbre del riscaldamento climatico bisogna mettere in discussione il capitalismo; e l’araba fenice della crescita infinita, che del capitalismo è il motore. A partire dalla rivoluzione industriale, e con la grande accelerazione degli ultimi decenni di neoliberismo e globalizzazione – nonostante il crescente impegno pubblico per il clima – le nostre società hanno continuato a bruciare fossili e a scaricare in atmosfera gas serra, oltre alle altre forme di inquinamento, sfruttamento della natura e devastazione degli ecosistemi che il mercato porta avanti nella sua folle corsa. Anche la necessaria transizione verde del sistema produttivo (pensiamo alle auto elettriche) non può che rivelarsi un inganno, se i presupposti rimangono quelli della dittatura del produttivismo, del consumismo e dell’estrazione infinita di risorse.
Saito non ha dubbi: non si potrà mai avere un ambientalismo efficace che non sia esplicitamente anticapitalista. Il mito “riformista” di una crescita verde viene duramente contestato dal filosofo giapponese. Mentre negli ultimi anni le istituzioni internazionali si appropriavano del linguaggio della transizione ecologica – a partire dalla proliferazione del richiamo agli SDG (obiettivi di sviluppo sostenibile) nei piani strategici di governi e grandi aziende di tutto il mondo – il comparto industriale fossile continuava a dettare l’agenda climatica globale, anche attraverso le COP, vendendo la narrazione neoliberale secondo cui il mercato stesso sarebbe stato il motore della transizione verde, e trovando nella crisi ecologica una nuova opportunità per rilanciare la crescita economica.
Ma il capitalismo non è solo l’assassino nascosto nella stanza. Si presenta anche come l’Omino di burro di Pinocchio, che ci tiene in scacco con le sue lusinghe. La nostra narcolessia è garantita dall’invisibilità delle disuguaglianze e dei divari tra Nord e Sud del mondo, con le società del centro (vale a dire le nostre società) che possono permettersi una vita prospera e consumista, mentre la periferia viene depredata e usata come ricettacolo dei costi e degli effetti negativi di questa nostra ricchezza. È quello che Saito, rifacendosi alle ricerche dei sociologi tedeschi Brand e Wissen, chiama il modello di vita imperiale.
Siamo tutti vittime del fascino della nostra vita attuale, ci accomodiamo nell’ingiustizia e non riusciamo a staccarcene, depotenziando così i germi di rivolta verso l’inazione climatica delle élites. Quanti di noi, tanto per fare un esempio pratico, sono disposti a rinunciare a viaggiare in aereo? Uscire dalla suicida economia dei fossili passa anche dalle nostre scelte, e quella di non volare è certamente tra le più impattanti. Eppure, non riusciamo a superare, neanche cognitivamente, il modello del low cost e del last minute, e rimaniamo attaccati come patelle allo scoglio predatorio del turismo mordi e fuggi (e non stiamo parlando di convertirsi a stili di vita monacali).

Le lusinghe, però, non finiscono qui. Il capitalismo ci ammalia anche con la promessa di miracolose soluzioni tecnologiche, risolutive e deresponsabilizzanti, che sembrano rispondere perfettamente al vecchio motto gattopardesco: tutto cambi perché nulla cambi! Nuove tecnologie verdi che scaturiranno dal sogno prometeico della geoingegneria (fino ad improbabili colonizzazioni di Marte) o dal soft power della dematerializzazione (salvo scoprire con stupore il peso crescente dei consumi idrici ed energetici dei data center). Intanto, in attesa di questa bacchetta magica, le condizioni che alimentano la crisi climatica permangono e si rinforzano, al punto che quelle nuove tecnologie potrebbero non solo non essere più sufficienti, ma nel complesso la crisi ambientale sta via via peggiorando. E come ci avverte la comunità scientifica, ormai afona e a sua volta repressa dal potere politico, stiamo ormai raggiungendo punti di rottura e di non ritorno nel complesso equilibrio di Gaia. La strada dell’estinzione è lastricata di buone intenzioni, e di molte furbe promesse.
E così, dispersi, narcotizzati o sconfortati, non riusciamo neanche a coalizzarci contro le classi agiate – di cui i tech bro, seduti in prima fila all'incoronazione del nuovo principe, sono la manifestazione più estrema – che con i loro stili di vita osceni alimentano il riscaldamento globale e pesano enormemente sull’ambiente. Ma la fonte del peggio non è mai secca: dalla narcolessia si scivola in scenari politici da incubo, che con l’anarcocapitalismo di Trump e Musk mostrano tutta la loro portata e crudezza.
Scriveva profeticamente Saito cinque anni fa da oggi: “davanti al diffondersi della paura e di una sensazione di crisi tra la gente, a prendere sempre più piede sono i movimenti xenofobi. Il populismo di destra utilizza il cambiamento climatico come propaganda. La crisi alimentare, quella energetica, il problema dei profughi ambientali, sono tutti argomenti capaci di nutrire un nazionalismo fondato sull'esclusione. Così si creano divisioni all'interno della società, aggravando la crisi della democrazia. Quando, in conseguenza di questo, un leader autoritario riesce a raggiungere una posizione di dominio, ecco che fa la sua comparsa un regime totalitarista che potremmo chiamare «fascismo climatico»”.
Come reagire a questo fascismo climatico dei nuovi padroni del vapore, che sono ormai oltre al negazionismo, avendo iniziato (tra le altre) una guerra senza quartiere alle agenzie e ai progetti scientifici che hanno solo l’ardire di nominare il cambiamento climatico? Saito dà alcune risposte in proposito – intorno all’idea di comunismo della decrescita – ma bisogna riconoscere che la pars construens di Il Capitale nell’Antropocene è la più debole del libro (ma non era così, in fondo, anche nel Capitale originale?).
Rifacendosi all’eco-socialismo dell’ultimo Marx, Saito propone di smetterla con la rincorsa alla produttività, alla velocità e al consumismo, per dare priorità a ciò che è veramente necessario alla riproduzione sociale, riducendo la produzione di beni superflui e i lavori privi di significato (se non dannosi per il bene comune, i bullshit jobs di cui parla David Greaber). Ciò permetterà di ridurre l’orario di lavoro, migliorare la qualità della vita e del lavoro (rendendolo più appagante, creativo e riconosciuto, pensiamo ai settori cruciali ma sviliti dell’assistenza e dell’’educazione) e democratizzare il processo produttivo. Questa transizione verso un'economia sociale, rallentata e basata sui beni comuni, ha dei diretti effetti positivi sull’ambiente, essendo questi settori a basso contenuto di carbonio e a basso impatto.
Il rischio, però, è quello di fermarsi alla denuncia del capitalismo come male assoluto, senza dotarsi di strumenti concreti per superarlo. Saito manca di visione politica nell'individuare le forze collettive in gioco, cioè i soggetti collettivi capaci di muovere il cambiamento o la conservazione – sia sul piano storico-hegeliano, sia su quello egemonico-gramsciano – e rimane inchiodato nel bozzolo dell’intenzione e della denuncia. Se adotti un approccio marxista, non puoi non porti il nodo delle forze sociali. Le idee di Marx, anche se vaghe sulla società futura, avevano la loro solidità nell'individuare i soggetti collettivi capaci di muovere il cambiamento o la conservazione. Anche se questi soggetti hanno cambiato notevolmente di natura, questo aspetto del marxismo rimane valido e necessario. E Saito su questo è troppo evanescente.
Ma forse questa critica è ingenerosa, perché il merito principale di Saito è un altro: chiamare le cose con il loro nome. E se quello che abbiamo di fronte è un distopico fascismo climatico, sta a noi rispondere con un nuovo antifascismo climatico. Bisogna cominciare a guardare il mondo da un altro punto di vista. Che parta dalla capacità di immaginare un’altra società, liberando quella forza creativa collettiva che adesso è sopita e umiliata, nei mille rivoli delle nostre paure. Saito ci invita a scrollarci di dosso questo sconforto, a spezzare gli inganni e raddrizzare le enormi ingiustizie (sociali e ambientali) alimentate dal capitalismo. Per riconoscere insieme le priorità, assegnare nuove scale di valore, affrontare fermamente, collettivamente un problema comune, e rifondare un sistema economico che minaccia la nostra stessa esistenza, presente e futura.
Filosofia e razionalità, tuttavia, non sono sufficienti a trovare il coraggio per fare questo salto. Perché nessuna rivolta, o conversione, ha mai potuto contare solo sulla testa. È quando le emozioni, il cuore, si mettono in moto che la montagna si smuove (anche quella montagna che sta dentro di noi, non solo la grande montagna del collettivo). E così, permettetemi di concludere con un movimento di scarto, con un’incursione nel campo della letteratura e dell’immaginazione: con Italo Calvino.
Nel Barone Rampante si trova una considerazione che ci può essere molto utile, perché riesce a tenere splendidamente insieme la testa con il cuore. A metà esatta del romanzo, Cosimo si trova a fronteggiare un nemico che mette a rischio l’intera esistenza del regno arboricolo a cui il ragazzo ha deciso di appartenere. Una serie di improvvisi incendi minaccia il bosco di Valleombrosa: il fuoco – di origine dolosa, anche se favorito dalla siccità e dal vento – brucia veloce di ramo in ramo, si propaga come un passaparola da un albero all’altro, minacciando non solo le piante spontanee ma anche gli oliveti verso il mare, curati dai contadini.
È allora che il Baroncino supera la sua naturale ritrosia sociale e si mette alla testa di una squadra di spegnitori, anzi di un sistema complesso di più squadre, vere e proprie milizie di guardia, avvistamento e intervento, che in caso d'allarme sono pronti a passarsi di mano in mano i secchi d'acqua. Mettersi insieme per un obiettivo comune, cooperare per il bene di tutti libera forze inedite e sopite tra i valligiani d’Ombrosa, e lo stesso Cosimo scopre una propria attitudine ad associare la gente, organizzarla e dirigerla (virtù, questa, cruciale per il successo dell’iniziativa, ma che, come ci avverte Calvino, può facilmente scivolare in dannazione, se si è portati ad abusarne). Ma non è tanto questo inaspettato carisma che si svela alla mente del ragazzo in quell’estate d’impegno: come sottolinea lo scrittore ligure, in questa esperienza Cosimo comprende una verità sociale più profonda.
“Capì questo: che le associazioni rendono l'uomo più forte e mettono in risalto le doti migliori delle singole persone, e danno la gioia che raramente s’ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace e per cui vale la pena di volere cose buone (mentre vivendo per proprio conto capita più spesso il contrario, di vedere l'altra faccia della gente, quella per cui bisogna tener sempre la mano alla guardia della spada).
Dunque questa degli incendi fu una buona estate: c'era un problema comune che stava a cuore a tutti di risolvere, e ciascuno lo metteva avanti agli altri suoi interessi personali, e di tutto lo ripagava la soddisfazione di trovarsi in concordia e stima con tante altre ottime persone.”
Mentre scrive, Calvino ha forse davanti agli occhi le esperienze ancora fresche della Resistenza e della ricostruzione; come che sia, in poche righe riesce a condensare una delle odi più belle alla solidarietà e alla cooperazione. È di quella forza e di quel coraggio che abbiamo bisogno oggi. Come Cosimo, che è salito su un albero e non ne è più disceso.
