Crisi climatica

8 Agosto 2024

Stiamo entrando in un territorio sconosciuto: quante volte abbiamo sentito questa frase negli ultimi tempi? E cosa facciamo adesso che questa che ci sembrava solo una formula retorica, magari un po’ ad effetto, si rivela essere una descrizione realistica, senza un briciolo di enfasi o di concessione metaforica? Come ci comportiamo ora che abbiamo la certezza, giorno per giorno supportata da nuove impressionanti evidenze, che abbiamo alterato l’equilibrio del nostro pianeta, a partire dal suo clima, che della complessa armonia di Gaia è la spia più importante ed affidabile? 

Ogni mese è il più caldo, ogni anno più bollente del precedente. I record hanno vita più breve d’una farfalla. E come sonnambuli scendiamo la ripida scala – lastricata da qualche buona intenzione (affermata solennemente nelle varie Cop) e resa sdrucciolevole dai profitti in crescita dell’industria fossile e militare – che ci sta portando dritti dritti verso l’inferno climatico. Ormai lo dicono in molti: la soglia critica del grado e mezzo è stata infranta, l’aumento della temperatura media globale rispetto al periodo pre-industriale viaggia spedito verso i due gradi. 

Ondate di calore, giorni e giorni di temperature estreme che mettono in forse non solo la sopravvivenza immediata di milioni di persone, ma nel medio periodo la possibilità stessa che in molte zone si possa continuare a coltivare e allevare alcunché. E poi la doppia faccia della crisi idrica, siccità – come in Sicilia, dove l’acqua manca non solo per gli animali e le colture, ma anche per garantire le dialisi dei malati di reni – e alluvioni, eventi improvvisi ed estremamente violenti. E poi, scioglimento dei ghiacci artici, una fusione così repentina da stupire e spaventare anche i più pessimisti tra i ricercatori – negli ultimi 15 anni il circolo polare si è riscaldato quattro volte di più del resto del mondo – e da mettere in moto una serie di effetti globali che gli scienziati stanno iniziando solo ora a comprendere. 

Non solo innalzamenti dei mari e degli oceani, che sono ormai sempre più caldi, ma anche la messa in discussione di alcuni dei sistemi vitali che permettono la regolazione della Terra, quale ad esempio l’Atlantic Meridional Overturning Circulation. Come un nastro trasportatore, l’AMOC attira l’acqua calda superficiale dall’emisfero meridionale e dai tropici e la distribuisce nel Nord Atlantico. L'acqua più fredda e salata poi affonda e scorre di nuovo verso Sud. Questo meccanismo impedisce che parti dell’emisfero meridionale si surriscaldino e che parti dell’emisfero settentrionale diventino insopportabilmente fredde, distribuendo allo stesso tempo i nutrienti che sostengono la vita negli ecosistemi marini. Diversi studi stanno suggerendo che questo sistema cruciale potrebbe essere sulla buona strada verso il collasso, indebolito com’è dalle temperature oceaniche più calde e dall’interruzione della salinità causata dai cambiamenti climatici. E le ricadute del suo blocco, o addirittura della sua inversione, lascerebbero intere parti del mondo irriconoscibili.

Potremmo proseguire con questo infausto elenco, ma sarebbe inutile. Anche perché il riscaldamento globale è solo la faccia più visibile della crisi in cui siamo immersi. E per affrontare questa enorme crisi sarebbe necessario avere a disposizione un pianeta sano, mentre al contrario, sempre per colpa nostra, ci ritroviamo alle prese con un pianeta più malato che mai. Inquinamento dell’aria e dell’acqua, distruzione degli habitat naturali, pesca eccessiva, declino delle popolazioni di insetti, perdita di uccelli, inquinamento da plastica, i nitrati, la perdita di suolo fertile… e via, e via, e via. A questa serie andrebbero associati poi gli impatti sulle società umane – crescita delle ingiustizie, migrazioni, conflitti per le risorse, collasso dei sistemi alimentari e di approvvigionamento, indebolimento dei sistemi politici… – che rendono quella climatica una vera e propria policrisi, sociale e ambientale. 

E torniamo così alla domanda iniziale: se stiamo ormai toccando con mano gli effetti di un clima che abbiamo fatto impazzire, perché continuiamo a portare avanti la nostra vita come se nulla fosse? Perché non siamo già tutti impegnati a modificare le basi della nostra esistenza da cima a fondo, cominciando a cambiare la nostra alimentazione, il nostro habitat, i nostri mezzi di trasporto, di essere turisti, le nostre tecniche di coltivazione, in sintesi il nostro modo di produzione? Perché viviamo collettivamente in questa diffusa, sebbene non riconosciuta, nevrastenia? 

Non è la prima volta che l’umanità conosce il sapore dell’apocalisse e che ciononostante non agisce. Non è la prima volta che le sirene suonano, e che vengono disattivate ad una ad una. Ce ne offre un esempio Italo Calvino nella Nuvola di smog, descrivendo la normalizzazione della minaccia nucleare che incombeva sulle teste di tutti negli anni ‘50 (e che, in realtà, ci minaccia anche oggi), con parole che si adattano perfettamente anche alla nostra situazione.

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Eliot Porter, “Foxtail Grass, Colorado,” 1957/Photo: Museum of Contemporary Photography.

“Anche a me dava ai nervi sentire la signorina Margariti che parlava scioccamente dell'atomica per avvertirmi che anche quel mattino avrei dovuto prendere l'ombrello. Ma certo, aprendo le persiane, alla vista livida del cortile, che in quella falsa luminosità appariva un reticolo di striature e macchie, ero tentato di ritirarmi come se una scarica di particelle invisibili proprio in quel momento stesse abbattendosi dal cielo.

Questo peso di cose non dette che si trasformava in superstizione pesava sui comuni discorsi del tempo che fa, una volta considerati i meno impegnativi. Del tempo adesso si evitava di parlare, o dovendo dire che pioveva o che s'era schiarito s'era presi da una specie di vergogna, come si tacesse qualche nostra oscura responsabilità. Il dottor Avandero che viveva i giorni della settimana preparando la gita domenicale, aveva preso verso il tempo una finta indifferenza che mi pareva del tutto ipocrita, servile.

Feci un numero de «La Purificazione» in cui non c'era articolo che non parlasse della radioattività. Neanche questa volta ebbi seccature. Che non fosse letto però non era vero; leggere, leggevano, ma ormai per queste cose era nata una specie d'assuefazione, e anche se c'era scritto che la fine del genere umano era vicina, nessuno ci badava.

Anche i settimanali d'attualità portavano notizie da far rabbrividire, ma la gente sembrava prestar fede solo alle fotografie a colori di belle ragazze sorridenti in copertina.” 

Abbiamo aperto gli occhi, abbiamo visto, abbiamo saputo, e abbiamo tirato dritto senza fiatare. E non lo facciamo certo solo con la crisi climatica, pensiamo alla strage dei migranti dietro casa o al massacro organizzato di cui siamo complici, poco più a sud del Mediterraneo. Eppure, nell’affrontare il nuovo regime climatico stiamo sperimentando nuove sfumature di negazione e scetticismo, di irresponsabile esaltazione e fede nella tecnologia, ma anche di diffusa depressione. Depressione che colpisce molti di noi nell’osservare le repentine trasformazioni della Terra, sapendo di non potere né ignorarle, né porvi rimedio con alcuna misura radicale. “Sofferenza, tristezza, malinconia, nevrastenia? – si chiedeva Bruno Latour descrivendo questa depressione in La sfida di Gaia – Sì, manca loro il coraggio, hanno un groppo alla gola, a malapena riescono ancora a leggere un giornale; non escono dal loro torpore se non con un accesso di rabbia nel vedere gli altri avanzare in modo ancor più folle. Ma, una volta passati questi attacchi d'ira, finiscono prostrati sotto dosi massicce di antidepressivi. Come facciamo a non sentire su di noi la vergogna di aver reso irreversibile una situazione perché abbiamo semplicemente tirato dritto come se nulla fosse?”

E quindi: come scuoterci e risvegliarci da questo sonno? Naturalmente, non ho una risposta a questa domanda. So però che la lotta è sempre più dura: la repressione dell’attivismo climatico è sistematica e si è inasprita molto, in Italia e non solo, e dall’altra parte le posizioni negazioniste, o comunque a favore del mantenimento dello status quo e del laissez faire, sono oggi più forti. E so anche che gli approcci adottati sino ad ora per risvegliare le coscienze non hanno funzionato. Penso, soprattutto, alla rappresentazione catastrofista della crisi climatica. Mettere in scena i disastri crea un effetto di assuefazione e, alla fin fine, anche una forma di compiacimento. Un’estetica dell’apocalisse, o post-apocalisse, che, come la moneta cattiva, finisce per scacciare quella buona. Inoltre, si finisce per rinforzare un’idea di distanziamento: la crisi climatica è qualcosa di eccezionale, qualcosa che riguarda altri, mentre noi rimaniamo spettatori; o qualcosa su cui, ad ogni modo, non possiamo intervenire. 

Forse dovremmo tentare di proporre un’idea diversa: come possiamo rappresentare un mondo in cui gli effetti del riscaldamento globale stanno diventando una normalità? E siamo veramente disposti a vivere placidamente in questa nuova anormale normalità? Nel momento in cui il Pianeta di cui siamo parte viene sacrificato a un’economia predatoria, che lo considera come un pozzo senza fondo da sfruttare e deturpare, siamo disposti a non far sentire la nostra voce? A rimanere immersi nel consumismo e nell’insoddisfazione indotta dal mercato? Siamo disposti a rinunciare all’azione collettiva, a metterci insieme, aiutarci, lottare anche, per non lasciare che siano i più forti e potenti a decidere per noi? Siamo disposti a lasciare che le ingiustizie si allarghino sempre più, in un mondo che assegna ai ricchi tutte le soluzioni e ai poveri tutti i problemi? Siamo disposti a lasciar fuori dal nostro orizzonte razionale gli altri animali e organismi, a continuare a considerarci superiori, unici e avulsi dal mondo? 

È ancora Latour ad invitarci amaramente a cercare la strada, stretta e tortuosa, per non rassegnarci né alla depressione né alla indifferenza climatica. “Non c'è dubbio, l'ecologia fa dare di matto: è da qui che bisogna ripartire. Non con l'idea di trovare una cura, giusto per imparare a sopravvivere senza lasciarsi trascinare dalla negazione, dalla hybris, dalla depressione, dall'auspicio di una soluzione ragionevole o dalla fuga nel deserto. Non si guarisce dalla condizione di appartenenza al mondo. Ma, a forza di cure, si può guarire dalla convinzione che noi non gli apparteniamo, che l'essenziale risiede altrove, che quel che accade al mondo non ci riguardi.” 

In copertina, opera di Meghann Riepenhoff.

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