
Colto e popolare: ricordo di Roberto De Simone
Quando nei primissimi anni settanta sentimmo la ‘sua’ musica, le villanelle e gli altri ritmi napoletani, interpreti dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, ci entusiasmammo. Poco importava capire a fondo le parole: il Canto dei Sanfedisti ci trascinava con il suo ritmo, indipendentemente dalle parole forcaiole, che esaltavano “’o Rre” e la sua famiglia e gridavano “morte alli giacobini!”. Le serenate, le canzoni più delicate, quelle comiche, con sonorità che sapevano insieme di campagna arcaica, di città raffinata, di Pergolesi e Paisiello, ci trascinavano, con le voci di Giovanni Mauriello, Fausta Vetere, Beppe Barra, e gli inserti, in controcanto, degli altri componenti della NCCP, Patrizio Trampetti e Eugenio Bennato. Era un ritmo puro, quello che Roberto De Simone, scomparso il 6 aprile scorso a 91 anni, era riuscito a ricavare, a reinventare, scavando nella tradizione popolare, semicolta e colta napoletana, facendo volare in alto o in echi profondi le voci, rendendo l’accompagnamento un incalzare dionisiaco.
La magia si ripeteva nei suoi studi antropologici, in quel Carnevale si chiamava Vincenzo, scritto con Annabella Rossi e vari collaboratori per De Luca Editore nel 1977. In esso viaggiava tra i Pulcinella dell’area campana. Non nelle farse di Petito o di Scarpetta, bensì nelle radici arcaiche della maschera, nelle tradizioni carnevalesche, scoprendone la natura ermafrodita, andando a ritrovare collegamenti con l’oltretomba, tra il gallo che razzola tra le zolle snidando abitatori dell’humus come i vermi propiziatori di putrefazione e fertilità, e Ermes, lo psicopompo, il conduttore delle anime. Un Pulcinella che agiva in opere en travesti come La canzone di Zeza, in cui anche i personaggi femminili erano interpretati da uomini e la popolare maschera finiva castrata per consentire alla figlia Nennella di ottenere un marito.
Un altro merito di de Simone è stato quello di far rinascere interesse per le guarattelle, quei teatrini con piccoli burattini in cui Pulcinella combatte contro avversari apparentemente invincibili, il cane, il poliziotto, la morte, e alla fine, con la sua voce chioccia, ottenuta con la pivetta, una sorta di ancia di metallo che il guarattellaro mette direttamente sull’epiglottide, e con il fido bastone vince. Teatro e riti apotropaici, che mirano (miravano) a scacciare il male, ad aprire orizzonti antropologici e soprattutto psichici di rinnovamento.

Il grande, indiscusso successo arrivò con la riscrittura di una favola di Giovan Battista Basile, da quel Pentamerone che poi lui, innamorato del mondo tradizionale e della linga napoletana barocca, avrebbe riscritto e raccontato ai lettori d’oggi. Debuttò nel 1976, La Gatta Cenerentola. La vidi al Comunale di Firenze, quando già era preceduta dalla fama di evento. Ed era davvero trascinante, con il suo “Son sei sorelle, son tutte belle, son tutte belle per fare all’amore”, con l’esaltazione delle grazie, molto carnali, di tutte le figlie della Gatta. In scena al debutto a Spoleto c’erano, oltre agli attori della NCCP, le grandi Isa Danieli e Concetta Barra, recuperata al teatro maggiore con l’occhio d’artista di De Simone. C’erano, indimenticabili, il coro delle lavandaie e quello delle ingiurie. Apparivano personaggi della mitologia napoletana, spiriti come il monaciello. Lo spettacolo girò moltissimo, con vari cast, e portò anche a una crisi nei rapporti tra il Maestro e parte della NCCP.

Ma intanto altre operazioni avevano esplorato il Seicento/Settecento napoletano, come quella Cantata dei pastori di Andrea Perrucci che precipitava lo scrivano napoletano Razzullo nella Palestina di Erode, portandolo là, da bravo leguleio napoletano, per il censimento. Opera dove agivano diavoli che volevano impedire la nascita del Salvatore e angeli che li contrastavano, e dove arrivava pure un’altra maschera, Sarchiapone. Contaminazione, mescolanza di livelli, come in Mistero napoletano, come in tante altre opere successive, di un artista che era soprattutto musicista, compositore. Che fu pure regista d’opera e direttore artistico del San Carlo, il teatro ‘reale’ di Napoli. Che indagò a fondo l’opera settecentesca, specie quella buffa, mostrando la parentela inscindibile della musica popolare con quella colta, arrivando fino a strumentare in modo indimenticabile La rumba degli scugnizzi e soprattutto La tammurriata nera, un’altra iniezione di ritmo che raccontava i figli neri nati nel secondo dopoguerra dopo l’arrivo degli americani: “È nato nu criaturo niro, niro...”.

De Simone aveva ritmo, era un jazzista della tradizione potremmo azzardare. E aveva fantasia: le sue regie, portavano in mondi fantastici e carnali, arcaici e meravigliosi, entusiasmanti.
Nato nel 1933 era entrato ragazzino in conservatorio, affascinato dall’opera lirica ma impastato di tradizioni popolari, che aveva incontrato quando la famiglia era sfollata a Somma Vesuviana durante la guerra. Concertista dal 1957, si iscrive alla facoltà di Lettere dell’università Federico II di Napoli, rivolgendosi poi principalmente all’attività di compositore e studioso delle tradizioni popolari.
Personalità complessa, sarebbe complicato ricordarlo in tutte le sue molteplici attività senza un qualche aiuto.
Allora ricorriamo per un suo ritratto più completo a Mariano Bauduin, che è stato a lungo suo assistente, regista collaboratore e coautore.
Ci racconti Roberto de Simone?
Era nell’aria che se ne sarebbe andato. Non era stato bene. Da un po’ di tempo non riconosceva le persone.
Quali erano le sue principali qualità?
Aveva la capacità di far convivere mondo popolare e mondo colto creando una terza zona, nella quale non capivi dove finiva il popolare e dove iniziava il colto, e viceversa. È stato, per me, in grado di raccogliere e trasfigurare in arte il linguaggio di una società in forte trasformazione, come quella napoletana e quella italiana, con un orecchio sempre attenti alle lingue, ai suoni della transizione alla modernità. Capiva cosa si stava trasformando e cosa si stava perdendo.
Cosa ha insegnato?
A me a non avere mai paura della contaminazione dei generi, mantenendo il rispetto per l’identità di ogni stile e di ogni forma. E poi il coraggio. Era un artista coraggioso, non aveva paura di dire quello che pensava. Per esempio ha osato affermare che di Eduardo De Filippo si faceva un uso distorto, quando Eduardo era sugli altari. Ma con grande rispetto per l’artista: era l’unico di cui avesse una foto in casa.
Le sue opere più importanti?
Per me è fondamentale Mistero napoletano. Dopo la Gatta Cenerentola uno avrebbe potuto fermarsi o ripetersi. Lui non si è lasciato condizionare dal successo. Ha esplorato il mondo colto gesuita barocco, insieme a quello popolare. La Gatta non è stata per lui un punto di partenza, ma di arrivo. Dopo ha ricominciato daccapo. E sicuramente va ricordato il Requiem in memoria di Pier Paolo Pasolini, una delle più importanti composizioni del Novecento, secondo me. E questo è stato poco capito.
Come compositore non è stato inteso bene. Per lui la regia non era un lavoro, ma un po’ un ripiego. La sua ispirazione, anche nelle invenzioni teatrali, era da compositore. Al festival del Teatro antico di Siracusa ha cominciato a rimettere in musica i cori della tragedia greca. Ha riscoperto Raffaele Viviani, fino a lui considerato oleografico. Ne ha messo in luce l’espressionismo, reinserendolo nel grande teatro europeo. Ha affrontato senza reverenze D’Annunzio inscenando La figlia di Iorio, con critiche notevoli da parte di amici di sinistra, con il coraggio di fare un’operazione critica da vero artista”.
Hai il rimpianto per qualche lavoro che non siete riusciti a realizzare?
Una riscrittura di Mahagonny di Brecht che avevamo intitolato Colera. Doveva andare in scena nel 2003, ma ci furono problemi con la produzione, che si ritirò.
Il tuo lavoro con lui?
Da assistente siamo passati a creare insieme. Ho scritto, per esempio, uno dei testi su Gesualdo da Venosa pubblicati in un volume Einaudi e l’ho seguito in progetti e imprese.
Cosa ha lasciato?
Con la NCCP ha plasmato un modo di condurre la voce in teatro. Negli ultimi venti anni ha portato molti giovani a ripercorrere il metodo e le forme che era andato sperimentando, puntando molto, ancora, sul lavoro culturale sulla vocalità. Aborriva i microfoni. Lavorava in modo accurato sulla concertazione delle voci. Con me, Patrizia Spinosi, Antonella Morea ha elaborato un metodo che ha cercato di farci calzare come un vestito.
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