Inappropriabili: performance e rivoluzione

9 Novembre 2024

Parla di esperienze viventi degli anni sessanta e settanta un libro di Annalisa Sacchi, di azioni che rompevano i confini delle discipline, mescolando il teatro con la musica, la letteratura, il cinema, la poesia. Si trattava di performance che negavano l’irreggimentazione dei palcoscenici, che si esplicavano in interventi militanti, in atti assembleari che rifiutavano e rompevano le regole. Considera, il volume, come tutta quella pro-vocazione poi spesso sia stata fossilizzata in archivi che ne spengono la vitalità, conservando un pallido ricordo di atti che furono anche ribellione sociale, tentativi di formulare altre realtà; e cerca di ritrovare le ragioni che le facevano dirompenti.

Annalisa Sacchi – studiosa, docente allo Iuav di Venezia, titolare di un progetto che si intitola In-common, performing arts in Italy 1959-1979 – in Inappropriabili. Relazioni, opere e lotte nelle arti performative in Italia (1959-1979) (Marsilio, 2024, p. 284) illustra quel momento storico delle arti dal vivo che si esplicò in movimenti che propugnavano un totale rinnovamento della scena artistica. Lo fa ricorrendo a sei-sette esempi di una creatività che tendeva a rompere i paradigmi, a mescolare, a togliere le arti dalla scena della riproduzione spettacolare.

Inizia raccontando la triste vicenda dell’archivio di Carmelo Bene, una vita di invenzioni e ribellioni compressa in casse nel castello di Lecce quando la studiosa lo visita, ora – forse peggio – costretto nell’ordine suntuario di una biblioteca ben ordinata, con costumi degli spettacoli contenuti in mortifere teche come piccoli cadaveri monchi della vita a essi data dall’artefice. Parte dal giovane Bene che, spudoratamente, chiede a Camus i diritti di rappresentare il suo Caligola, e li ottiene, e ricorda l’identificazione dell’artista salentino con la ribellione individualistica, esistenziale in senso anti-sartriano, del suo Caligola.

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Si sposta a Venezia con l’Anti-Procès, “atto collettivo di opposizione”, organizzato da Jean-Jacques Lebel e Alain Jouffroy, una Dichiarazione dei diritti di insubordinazione della guerra d’Algeria, notando come “anticolonialismo, lotta politica, avanguardia storica e sperimentazione contemporanea si saldano in nome della necessità di un rinnovamento radicale nell’espressione e nel sistema delle arti”.

Un rinnovamento che guardi non solo alle arti, ma anche agli scenari sociali. Ciò interessa all’autrice: il saldarsi di esperienze artistiche che rompono i confini con la lotta politica. E questo, militante diremmo oggi, è il taglio del libro, che salta indietro a Kaprow e all’happening, a quella che viene considerata la prima performance, organizzata da John Cage nel 1952 al Black Mountain College, con letture, danza, film, poesie, musica, diapositive, circondando, scuotendo gli spettatori, coinvolgendoli. Arte vivente, arte per la trasformazione della vita, volta verso l’utopia, un’utopia mai come allora sentita come realizzabile. Arte “inappropriabile”, non contingentabile in categorie note, “imperdonabile” avrebbe detto Cristina Campo, cui il titolo del libro evidentemente si ispira. Arte che guarda oltre, che cerca di scoprire e di inventare piuttosto che di replicare. Arte della trasformazione, non contenibile nella riproduzione.

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A cena dopo la prima della Fabbrica illuminata: Calvino, Nono, Scabia, Toni Negri, Nuria Schönberg, Sartre, Rossana Rossanda e altri.

Il libro passa a esaminare alcune altre esperienze fondanti del nuovo tra anni sessanta e settanta. Per esempio, il rapporto tra il compositore Luigi Nono e il poeta Giuliano Scabia, per una scena musicale di poesia che si dilatasse in tutto lo spazio scenico; che riportasse in palcoscenico le storie del tempo, gli scontri politici, il lavoro e l’alienazione degli operai dell’Italsider di Cornigliano ritratti nella Fabbrica illuminata, con le parole trasformate in suoni, rumori, fonemi disarticolati, voci di una violenza produttiva, sociale. Continua poi con l’uscita di Scabia dai teatri con l’esperienza in quattro quartieri periferici di Torino per fare teatro non imponendo testi e spettacoli prodotti al centro, ma creandoli con gli abitanti, sui loro problemi, la fabbrica, la casa, lo sfruttamento, il lavoro alienato, la scuola di classe, selezionatrice, gli scontri politici e sociali. Era il 1969-70, Torino viveva ancora l’eco degli scontri di corso Traiano, tra operai e studenti contro la polizia.

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Intervento di Giuliano Scabia nei quartieri di Torino.

Il capitolo successivo racconta di come Leo de Berardinis e Perla Peragallo abbandonarono le cantine della capitale e portarono la loro sperimentazione a Marigliano, nell’entroterra vesuviano, proclamando un “teatro dell’ignoranza” da farsi con alcuni abitanti del luogo, per confrontarsi con una lingua del “popolo”, “pop”, lontana dalle irreggimentazioni. Era manifesto in questo abbandono un rifiuto di una scena ripetitiva e mortifera, quella della cultura delle istituzioni ma anche quella stessa dell’avanguardia, incartata in sperimentazioni senza respiro. In questo caso non c’era fiducia in una palingenesi sociale, come il Sessantotto da più parti voleva e invocava, ma una contestazione globale che affondava nelle possibilità creative dell’individuo, un individuo insofferente di regole e finzioni sociali. È un teatro provocatorio, del “fallimento” questo, manifestatosi in spettacoli che mescolavano avanguardia e sceneggiata napoletana, Schönberg, il jazz e ‘O zappatore, che aggredivano con titoli come Avita murì, tra vasche da bagno e cessi, che non cercavano consolazioni accettabili nei salotti intellettuali buoni ma aprivano fessure, ferite, contrasti.

Il ritratto successivo è quello di un cineasta anomalo, Alberto Grifi, che prova a filmare il non filmabile, a rivolgere il mirino della macchina da presa nella direzione opposta al soggetto da riprendere, per cogliere aspetti non previsti della realtà. Grifi accoglie il caso nelle sue registrazioni, gli incidenti, e trova una sua dimensione quando il video-tape gli consente di eliminare i costi della pellicola e di filmare di continuo, per ore e ore. Nasce allora, agli inizi degli anni settanta, Anna, ritratto da vicino di una ragazza emarginata, incinta, drogata, vagabonda, sfuggente dai suoi stessi amici e complici, transfuga da ogni pretesa di dominio patriarcale. Saranno più di dieci ore di riprese, poi sintetizzate in un film di circa cinque ore, che continua a basarsi sul principio dell’indeterminatezza, dell’aleatorietà che da Cage in poi domina quegli anni, dell’Opera aperta di cui scriveva Umberto Eco nel 1962. È una dichiarazione contro le ‘buone norme’ cinematografiche, contro la lingua del potere, che prova a raccontare Anna pedinandola (e lasciandosela sfuggire). È un film di incidenti, di rifiuti del soggetto di prestarsi al gioco, perché “Anna parla una lingua che eccede tutto quanto gli altri credono di sapere e di (farle) dire”. Il film diventa una lunga performance registrata, con l’imprevedibilità e l’invenzione continua di un atto di presenza dal vivo, di rottura delle attese, di manifestazione del disagio del vivere in un mondo normalizzato.

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Fotogramma da Anna di Alberto Grifi.

Il capitolo successivo è dedicato alla poetessa Patrizia Vicinelli, compagna di Grifi, da lui ripresa. Vicinelli, schizoide, condannata a due anni di carcere per possesso di due grammi di hashish, latitante nove anni, dipendente dall’eroina, nei suoi testi scritti e nelle sue performance distrugge le strutture sintattiche, alla ricerca di un’arte polivoca, tra la grafica e la voce, “la pagina e la glottide, tra l’immagine e il corpo”. Rompe le strutture del parlare borghese “dilatando e restringendo gli agglomerati verbali non più come segni ma come suoni, privando di significati il testo e annullando la storia, così creando una forma artistica nuova e dirompente” scrive Sacchi.

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Patrizia Vicinelli e Alberto Grifi.

L’ultimo ritratto è quello di Aldo Braibanti, intellettuale divenuto famoso alla fine degli anni sessanta perché processato per plagio, usando un articolo del fascista codice Rocco, inquisito con quel pretesto a causa della sua omosessualità, per riportare nel seno dell’istituzione famiglia il suo più giovane compagno. Di Braibanti il libro illustra gli studi sulle formiche, su quel grande corpo senza organi che è il formicaio e sui suoi metodi di comunicazione; ne narra l’ispirazione nella filosofia di Spinoza e gli umori che anticipano una visione ecologica e non specista del mondo.

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Aldo Braibanti al processo per plagio.

Questo studio, ricco di riferimenti a studi recenti, a teorie della scena a partecipazione, della performance ‘indisciplinare’, compie, in fondo, un’azione già nei suoi presupposti aporetica. Fa storia della performance, ferma atti viventi, pur interrogandosi sulla loro non riducibilità a reperti d’archivio (Peggy Phelan). Apre squarci su un pensiero divergente, sperimentatore di altre forme di socialità e di arte, costringendolo nei limiti di un ventennio, imposti dall’ipotesi scientifica della ricerca che lega trasformazione artistica a ribellioni e mutamenti sociali, con la convinzione che con la fine degli anni settanta si sia chiusa un’età di esperimenti propiziata da una stagione politica. Accenna, in realtà, a qualche opera che continua sulla strada della ricerca continua, oltre quei limiti cronologici, ma non sviluppa il discorso. Postula, a ragione, una trasformazione generale dello spirito di sperimentazione, testimoniata dall’ironico, disincantato e un po’ disperato titolo di un numero della rivista bolognese “A/traverso”, voce intellettuale e politica di Radio Alice, che nel 1978 gridava: “La rivoluzione è finita. Abbiamo vinto”.

Apre, sicuramente, rievocando quegli anni e quelle temperie, squarci, panorami, questioni per la riflessione odierna. Sarebbe da studiare, continuando la ricerca, quello che è stato chiamato “riflusso”, le sue ragioni, la sconfitta sociale dei movimenti antagonistici negli anni ottanta, il ripiegarsi delle arti in confini più ‘sicuri’ ma anche in sperimentazioni non così strettamente legate alla politica, proprio per mantenere un’autonomia e una forza di analisi, di visione, di azione a fondo trasformatrice. Bisognerebbe, cioè, censire quanto è continuato, e con quali mutate modalità, di quegli atteggiamenti di esplorazione, di cosa essi hanno generato di ancora vivo.

Alla fine la vita della performance qui è un po’ come rinsecchita in una nostalgia. Attiva, euristica, ma pur sempre malinconica osservazione di qualcosa che si dà per smarrito in un passato che si vorrebbe rinnovare. Ogni capitolo, scrive Sacchi, si chiude con un richiamo alla rivoluzione. E quella rivoluzione ci fu, ma anche non ci fu. Non fu qualcosa di simile alla rivoluzione sovietica, ma, come il Sessantotto, lasciò più di una traccia significativa. Lo riconosce l’autrice quando ricorda la propria frequentazione del Dams, vent’anni dopo, notando come nel “ricordare il segreto appuntamento tra le generazioni” Scabia “vedeva una possibilità di futuro, una festa ininterrotta, l’invenzione della gioia”.

Perciò chiudo con una frase di Sacchi, scritta poco prima di quel pensiero finale: “La conclusione di queste vicende artistiche non è però un’allegoria della disperazione, ma al contrario un’irriducibile risoluzione a mantenere, in un’esistenza segnata irreversibilmente dalla repressione, il rifiuto ad accettare quella presente come l’unica realtà possibile”.

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Leo e Perla, zappatore

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