Hai qualcosa da dirci? Non vediamo l’ora di leggerti.

Partecipa al nostro questionario e aiutaci a immaginare il futuro di questa rivista. Bastano pochi minuti per dare la tua opinione.

Il tuo tempo è prezioso, i tuoi suggerimenti ancora di più.

“Malesangue” all’Ilva di Taranto

15 Marzo 2025

È dedicato a Massimo Battista, operaio, sindacalista, guerriero instancabile per i diritti dei lavoratori dell’ex Ilva e per la salute di Taranto. È un libro scritto da Raffaele Cataldi, Malesangue. Storia di un operaio dell’Ilva di Taranto (Edizioni Alegre, collana Working Class, 2025, pp. 142). Battista fu perfino mandato a non fare nulla in un luogo simile alla palazzina Laf resa famosa dal film di Michele Riondino: fu spedito dalla direzione dello stabilimento in un fabbricato del dopolavoro gestito dal sindacato sul Lungomare, “a contare le barche” disse qualcuno, per punirlo della sua combattività. Battista è morto nell’ottobre del 2024 per un cancro contratto lavorando al siderurgico; un cancro simile o diverso per nome e sintomi, ma ugualmente letale di quelli che hanno compiuto un vero e proprio sterminio nella città ionica da quando il mostro venefico fu installato nel 1965, l’Italsider, l’Ilva, la ex Ilva, l’Arcelor-Mittal, le Acciaierie d’Italia, sempre lui, col nome diverso a seconda dei mutamenti della proprietà.

j
Massimo Battista e Raffaele Cataldi, con l’Ilva sullo sfondo.

Sulla questione ex Ilva, sui suoi fumi, sul suo rapporto con una città disintegrata, si possono leggere moltissimi testi, scritti da sociologi, da giornalisti, da attivisti, da osservatori. Dopo il 2012, quando la magistratura pose sotto sequestro gli impianti a caldo, denunciando la proprietà Riva, dopo il 2 agosto, quando gli operai ruppero le coltri del silenzio e dalla connivenza irrompendo con un’Apecar a un comizio sindacale, chiedendo di poter dire la loro in prima persona, tanti sono stati gli scritti dedicati alla questione. Tra gli altri ricordiamo quelli folgoranti, acutissimi, di Alessandro Leogrande, morto troppo giovane nel 2017, capace di contestualizzare la fabbrica nella vicenda di una città governata da forze che in cambio del lavoro chiedevano l’acquiescenza, una città in mano ai populisti di Cito e ai potentati economici che mascheravano il proprio interesse da azione per il benessere generale. Si possono leggere le sue analisi in Fumo sulla città (Fandango 2013) e nel postumo Dalle macerie (Feltrinelli 2018, a cura di Salvatore Romeo). Romeo nel 2019 ha raccontato l’Ilva dal 1945 a oggi in L’acciaio in fumo (Donzelli), e altre sono state le opere di ricerca, di polemica, di contestualizzazione.

Malesangue è un libro diverso, che entra in quella “guerra sul posto di lavoro” con la passione di un operaio che i problemi li ha vissuti sulla propria pelle. È una testimonianza dall’interno di una classe operaia avvilita, marginalizzata, cassintegrata, ammalata a causa del lavoro svolto, ma vitalissima, che non vuole buttare la spugna, che non accetta di diventare accomodante.

Rivela, con la testimonianza diretta di un cittadino qualunque, lavoratore, militante certo, quanto la fabbrica sia penetrata in quella città, sconvolgendola, trasformando vite, incistando esistenze.

j
Raffaele Cataldi.

Cataldi prima del lavoro e della militanza racconta la propria infanzia, la passione per il calcio, per la squadra del Taranto, ereditata dal padre, allenatore di portieri, che spingerà anche lui a impegnarsi ad allenare giovani promesse. Narra di come fin dalle medie per Applicazioni tecniche ai ragazzi si facesse studiare il ciclo dell’acciaio, in una città dominata da quella monocultura. Dichiara la passione politica a sinistra, ereditata dal padre sindacalista. Poi arriva l’età del lavoro, e al primo colloquio per essere assunto all’Ilva dei Riva risponde ingenuamente che in caso di sciopero parteciperebbe. Non viene preso, naturalmente, e deve aspettare un’altra occasione. Parla di mancanza di strutture di socializzazione nel quartiere, di giochi dei ragazzi fatti per strada, di disoccupazione, di come il figlio non sia riuscito a trovare lavoro, se non precarissimo. E quindi ci porta nella passione per il calcio, per il ruolo di portiere in particolare, che assomiglia a quello dell’operaio: solo a difendere il piccolo fortino tra i pali come l’operaio è solo davanti alle macchine. Racconta trasferte calcistiche con gli ultras, con i Taranto Supporters, e di come questo momento di socializzazione, apparentemente disimpegnata, fornirà una base e una sede al movimento di ribellione contro la violenza della fabbrica.

j
Cataldi piccolo col padre allo stadio Mazzola.

Assunto nel 1997, spiega i ruoli da lui assunti nella catena produttiva, entrando nella complessità del lavoro per produrre l’acciaio. Una complessità che porta incidenti, tanti, e morti: nove dal 2012, inaccettabili, come Francesco Zaccaria, sepolto in mare nella cabina di una gru che prelevava il minerale dalle navi, spezzata da un uragano nel novembre del 2012.

Per uscire dall’isolamento, dal dominio sul lavoro imposto dai dirigenti della fabbrica, acquistata dai Riva nel 1995, cerca compagni, come lui insofferenti di una gestione che, facendo leva sul ricatto del lavoro, porta i sindacati a fiancheggiare in molti casi le richieste della proprietà. Nasce un primo Comitato dei lavoratori in lotta che nel 2012 diventa Comitato dei Cittadini e dei Lavoratori Liberi e Pensanti, con nome che rimanda indietro nel tempo ai circoli della Rivoluzione Francese nota qualcuno. E la prima sede del Comitato sarà proprio presso i Taranto Supporters.

Malesangue, ‘u malesang, il sangue amaro, ripete Cataldi, infarcendo il testo di espressioni parlate, in dialetto tarantino, portandoci ancora più dentro un mondo. Riporta voci, come quella che diceva che il padrone, Riva, passando per la città vecchia in auto avesse esclamato: “Non sapevo che nell’accordo con cui ho acquistato l’Italsider fosse compresa tutta la città vecchia”. Perché? Perché aveva visto le ‘sue’ tute indossate da varie persone, per strada. Molti pescatori o contadini erano diventati operai (i metalmezzadri di cui parlava un articolo di Walter Tobagi); le tute, portate a lavare in casa (e a contaminare mogli e figli con i loro depositi di polveri tossiche) venivano spesso cedute o regalate.

j
Un momento del ciclo produttivo all’Ilva.

Le cappelle del cimitero di Taranto sembrano di marmo rosso: non è la famosa, pregiata pietra di Verona, ma un marmo imbevuto di polveri ferrose, come i polmoni degli abitanti di Tamburi, Paolo VI, Borgo, i quartieri più vicini alla fabbrica. “Lavorare in Ilva significava trovarsi tutti i giorni a giocare alla roulette russa”, scrive Cataldi nel capitolo intitolato La fabbrica della morte, dove ricorda in dettaglio il proprio lavoro, il rapporto con i capetti, le liti, ma anche gli incontri fatti. E i cinici commenti di Riva, in un’intercettazione, alle prime notizie di tumori che stavano per essere rese pubbliche: “Due casi di tumore in più all’anno? Sono una minchiata”. Ma fanno malesangue anche le risate scherzose di Nichi Vendola, allora presidente della Regione Puglia, con il capo della comunicazione Archinà e la sua affermazione “secondo cui in quel momento il miglior alleato nello stabilimento Ilva e per l’ingegnere Archinà era proprio la Fiom” scrive Cataldi.

E qui vale la pena di fare due considerazioni. Prima: Vendola in primo grado è stato condannato per “concussione” con la dirigenza della fabbrica, probabilmente per aver difeso innanzitutto il lavoro, secondo una vecchia logica industrialista e operaista. Seconda: in tutto il libro si racconta la ribellione al sindacato, anche alla Fiom, la sezione metalmeccanici della Cgil, che non avrebbe tutelato interessi e salute di operai e cittadini, sempre sotto il ricatto del lavoro, dei denari da portare a casa. A proposito delle morti cosiddette bianche Cataldi scrive: “Tutto nel nostro paese si muove intorno ai soldi: nella lunga, complessa, intricata vicenda Ilva c’è chi è arrivato addirittura a giustificare le morti in azienda in funzione del Pil (…). Tutto viene giustificato: dagli incidenti sul lavoro alle malattie, fino alle morti in fabbrica”.

j
Corteo con l’Apecar, agosto 2012.

Il libro procede rievocando dall’interno fatti che hanno calamitato l’attenzione dei media, da quel 2012 in cui la magistratura chiuse gli impianti. I tentativi di bloccare la città per liberare gli altoforni, mossi da Riva e sindacati conniventi, la ribellione di una buona parte degli operai, la fondazione del Comitato, l’irruzione al comizio sindacale del 2 agosto con l’Apecar diventato simbolo della lotta, con i Cittadini Liberi e Pensanti che presero la parola su quel mezzo a tre ruote dopo il rifiuto sindacale a concederla sul loro palco. Il programma esposto dal Comitato era “nitido e preciso”, riporta Cecilia Mangini in un articolo uscito in quei giorni sul “Manifesto”: no alla violenza, sì al diritto al lavoro, sì al diritto alla salute, sì alla bonifica dell’Ilva a carico non dello Stato ma dei responsabili di un inquinamento che si è perpetuato nell’indifferenza e nel silenzio. Continuarono le manifestazioni, con un tentativo di occupare la fabbrica insieme alla cittadinanza, per porre forte l’esigenza di chiuderla. Ma intanto l’autore rievoca anche i passaggi successivi riguardanti la proprietà: la gestione commissariale, i tentativi di vendita e l’acquisto di Arcelor-Mittal, le deroghe imposte all’Aia, piano integrato ambientale, la richiesta di scudo penale per acquistare la fabbrica, i licenziamenti, la cassa integrazione, la continuazione della produzione, gli insufficienti interventi di riqualificazione ambientale.

Dopo un “diario di lotta”, arriva una parte che tratteggia ritratti dei compagni di impegno, quelli con cui l’operaio rompe il proprio isolamento e si impegna per un cambiamento della situazione. Vite, che spesso rivelano negli anni seguenti fughe dalla fabbrica, come quella di Aldo (Cataldo) Ranieri che con un altro operaio usa lo ‘scivolo’ ottenuto per lasciare il posto di lavoro per aprire una rosticceria in centro. Quindi troviamo una parte dedicata a un altro momento che tende rompere l’isolamento, coinvolgere la città e il Paese tutto: l’iniziativa del Primo Maggio Libero e Pensante, diventato un appuntamento di rilevanza nazionale che ha coinvolto artisti come Michele Riondino e Antonio Diodato, schieratisi decisamente con il Comitato, per il rinnovamento della città. Con la consapevolezza che “i cantanti, lo spettacolo e la musica dovevano rappresentare la cornice, ma la protagonista doveva essere la lotta, i contenuti che tutti i giorni portavamo nelle strade, nelle piazze e nelle scuole”.

La conclusione è duplice: una riflessione sulla solitudine dell’operaio e su come quella si può vincere, collegandosi con i cittadini e con altre situazioni di lotta nazionali e internazionali. E ancora un pensiero per Massimo Battista, che chiedeva di pretendere un futuro diverso.

j
L’Apecar sul palco del Primo Maggio Libero e Pensante.

Alla fine di questo documento palpitante troviamo un testo di Stefania Barca, docente di Storia ambientale e di Storia di genere, che definisce questa vicenda che si svolge in una città operaia del Sud Italia “una storia di rabbia e sangue amaro, di amore e amicizia, di passione politica e calcistica, di grandi speranze e grandi delusioni, e di solitudine: quella non soltanto di un uomo, ma di un’intera classe operaia lasciata a districarsi da sola con ingiustizie gigantesche, vecchie e nuove – la più grande e invincibile delle quali sembra essere quella del ricatto occupazionale, o anche dell’ingiustizia ambientale”. E rimanda agli sviluppi successivi agli anni degli scontri e delle dismissioni, citando il Piano Taranto, un articolato progetto di riqualificazione dell’ambiente e del tipo di occupazione, che postula, come vuole il “malesangue” di Cataldi, la chiusura del siderurgico e la riconversione verso la bonifica ambientale e l’economia circolare. Si consiglia di leggere quel documento, creato dalla collaborazione tra il Comitato e ricercatori e ricercatrici di varie università europee, per vedere come un’alternativa alla fabbrica che uccide sembri praticabile, di come “un’altra Taranto è possibile – non quella che vogliono le banche o lo Stato, ma quella che vorrebbero i suoi abitanti – e che per realizzarla c’è bisogno di una politica che prenda le loro parti. Perché quello che distingue questo piano da qualunque altro è il suo carattere di parte: il suo esprimere i dolori, le perdite, le speranze, le delusioni, le rivendicazioni di chi ha vissuto la monocultura dell’acciaio sulla sua pelle e chiede ora giustizia”.

Si può scaricare dal sito del Comitato all’indirizzo https://www.liberiepensanti.it/home/chi-siamo-2/piano-taranto/; mentre a un altro indirizzo potete trovare un “Case-study ex Ilva Taranto”, rivolto alla Commissione europea, una proposta per la giusta transizione, a Taranto e nei siti industriali contaminati.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO