Spregelburd: il teatro contro il destino
Il cavallo di Troia, fatto di grandi palloni rossi gonfiati, occhieggia da dietro un sottile tendaggio: il muso e le orecchie, che spuntano fin dall’inizio, sembrano un enorme fallo di plastica. Dietro i sottili veli rossastri si intuisce un mondo intero di oggetti, che saranno rivelati a mano a mano che la commedia (o tragedia?) si snoda e si riannoda su sé stessa, moltiplicando le biforcazioni, le direzioni, i colpi di scena, i rovesciamenti, dimostrando la tesi che il teatro è diverso da ogni forma di consolatorio spettacolo, dalla fiction televisiva unilineare, dai film che accumulano cause per raggiungere conseguenze, dalle più rassicuranti trame che anche sui palcoscenici hanno un inizio definito, uno sviluppo che confonde qualche carta e un finale necessario, insomma quei lavori in cui effetti speciali ci distolgono dall’inevitabile precipitare dalla tosse nel primo atto alla morte per tisi finale.
Diciassette cavallini porta la firma Rafael Spregelburd, non solo drammaturgo ma teatrista argentino, ossia una di quelle personalità che pratica la scrittura, la recitazione, la concertazione teatrale, e continuamente la riflessione sull’atto del teatro. Parte dalla guerra di Troia e dal mito di Cassandra, naturalmente materializzati, dato che l’autore viene dalla patria contemporanea della psicanalisi, in alcune sedute analitiche, in uno studio che presto diventa caotico luogo di intersezione tra storie diverse, sogni, nevrosi, incontri, visioni, scontri.
Chi sono i “cavallini”? Sono i greci che uscirono dal cavallo stolidamente portato dentro le mura della città dai troiani: sono quelli che aprirono le porte della rocca, favorendo l’ingresso dei guerrieri achei, il massacro degli uomini di Priamo e la schiavitù delle donne, tra le quali Cassandra, la principessa amata da Apollo che, a causa del rifiuto opposto alle brame del dio, ebbe il dono della profezia ma la maledizione di non essere creduta. In quello studio di psicanalisi, intorno al quale brulica un mondo trash fatto di cucine economiche, orologi, tanti orologi, cesti da pallacanestro, vecchi grammofoni, lampade, sedie, il cavallo di grandi palloni, manichini spogliati o vestiti con slip, tanti manichini, e molto altro, Troia e Cassandra sono shakerati in una storia che continuamente genera dal suo ventre nuovi personaggi e fa deragliare lo spettatore. Chiama in causa il tempo, la sua misurazione, la sua alterabilità; la fisica di Archimede e quella quantistica; i labirinti del linguaggio, che diventano membrana che separa dalla realtà; i punti di vista multipli, pronti a rovesciarsi; Robert Graves e i miti dei greci; Fidia, l’idea di bellezza e la sua materializzazione sul burrone dell’orrore; l’identificazione tra attore e personaggio e gli slittamenti continui che ne dividono la sovrapposizione, che frangono le personalità e le possibili identificazioni. Siamo in un universo esploso in cui l’effetto rimodella e fa svaporare le cause, in cui la paura si intesse di desiderio, in cui niente è come appare.
Qualche notizia su questo spettacolo ad alta densità psicotropa, che parte, per l’appunto, dall’osservazione di Graves che all’origini di miti e riti greci c’erano esperienze rituali con droghe, confermate da recentissime scoperte scientifiche (di questi giorni è l’annuncio di uno studio coordinato da Enrico Greco, professore di chimica dell’ambiente e dei beni culturali presso l’Università di Trieste, che annuncia il ritrovamento di tracce di sostanze capaci di alterare la coscienza in vasi egizi di età tolemaica, usati probabilmente in rituali simbolici e trasformativi legati alla fertilità femminile). Spregelburd, frequentatore ormai abituale dei nostri palcoscenici (si ricordano alcuni allestimenti di testi della sua Eptologia con la regia di Ronconi e varie altre incursioni, tra le quali una a Udine nell’ambito dell’École des Maîtres del Css della città friulana), ha lavorato a Diciassette cavallini con attrici e attori di Fondazione Teatro Due di Parma, in un lungo processo di ideazione e messa in scena sviluppato con la collaborazione degli stessi interpreti. Lo spettacolo è stato presentato in prima assoluta in una rassegna dedicata alla nuova drammaturgia nell’ambito del Reggio Parma Festival, le Giornate d’autore, che hanno incrociato diverse poetiche e pratiche di scrittura per il teatro, con la presentazione di opere di Marius von Mayenburg, di Ivan Vyrypaev, di Tiphaine Raffier, di Fausto Paravidino, e incontri con registi e operatori. Accanto a Diciassette cavallini, tradotto da Manuela Cherubini, sono state inscenate altre due opere del prolifico autore argentino: Inferno, ispirato a Hieronymus Bosch, e il monologo di Andrea Garrote Pundonor, in un vero e proprio focus su un artista che usa la libertà che offre il teatro per scuotere convenzioni e ribaltare certezza.
Diciassette cavallini si divide in due parti: la prima, L’oracolo invertito, sotto l’egida di Apollo, l’altra, I diciassette cavallini, sotto quella di Dioniso. La situazione sembra semplice, all’inizio: in quello studio di cui si parlava una donna che si crede Cassandra, o affetta dal complesso di Cassandra, chiede pillole per superare l’angoscia e dormire meglio al suo analista, recalcitrante. Il problema della donna è che vede (o crede di vedere) il futuro, ma solo quando è fosco, brutto, orrendo. Subito, però, un’intrusione rompe il tempo, inaugurando una specie di compresenza tra passato, presente e futuro, indistricabilmente incastrati: irrompe Boris, ludopatico, in crisi nevrotica, che non riesce a dominare il linguaggio, paziente che non è lì perché è appena uscito. E presto quella stanza sarà invasa da altri personaggi: attori che, prima di rivelarsi per tali, forniscono una replica mitica, in costume e parrucca, della storia di Cassandra e Apollo, accompagnati, in disparte, da Robert Graves, il mitologo, autore di uno dei libri che prova a tracciare un atlante delle storie elleniche, I miti greci (Longanesi). Comparirà anche un altro psichiatra, che racconta la tesi di Graves, delle sostanze psicotrope alla base dei rituali e della mitologia.
Si tratta, insomma, di visioni, di alterazioni di una realtà comunque instabile, che viene riassunta nelle biforcazioni che casualmente ha assunto (e avrebbe potuto svilupparsi in modo differente). Vengono evocati altri stati instabili della realtà, gli influssi esercitati da un osservatore sulle particelle subatomiche; i traumi che fanno nascere il bisogno di controllo; i supereroi che sono la forma moderna degli dèi, persone in preda a stati di alterazione della loro normalità; l’anarco-capitalismo che tutto domina, i corpi, le relazioni, le coscienze.
Il tutto avviene tra parrucche, ciaffi, finzioni, esagerazioni, battute argute, scene erotiche e omoerotiche, minacce, ripulsioni, ombreggiature, in una scrittura scenica sempre brillante, continuamente cangiante, sovrabbondante, a volte esasperante nei suoi loop, in un rifiuto dello sviluppo rettilineo, in un continuo rovesciarsi indietro, riprendere daccapo, alterare quello che appare destino.
Apollo dovrebbe essere il vincitore, con la sua luce, contro Dioniso e le sue intermittenze (“un momento è verità, un momento è farsa”). Ma il finale, ancora, scompiglia tutto. Cassandra scioglie l’ipnosi con cui ha avvolto tutti: è lei l’analista e l’analizzato è Antonio; quello che sembrava lo l’osservatore, il curatore, è l’osservato, il curato. Una scena di abuso che lui ha rievocato non era il destino: “Non è stata colpa tua (…) È successo. (…) nessuno ha un destino. Tranne in teatro, dove comincia in un modo e poi finisce in un altro e quella linea… in un certo senso… quella linea… a volte è… più o meno retta. E a volte no”.
C’è un destino? È retta o non è retta, la linea, questa volta? Ne parliamo alla prossima seduta di analisi.
Ma la prossima seduta, la seconda parte, dionisiaca, è ancora di più una nuova Hellzapoppin. L’attrice Assunta ora è Zoraide, una vecchia signora campagnola che fa testamento; Boris, il ludopatico, è suo figlio che non è riuscito a laurearsi e vive modellando palloncini gonfiabili; l’altro attore fa il notaio che scrive pagine e pagine di testamento; Cassandra, su un letto che ingombra la parte destra della scena, è diventata la seconda moglie di Ugo, che è un po’ anche Graves, e lo tradisce con un poliziotto che si candida alle elezioni, pronto a sparare tutti, mentre un idraulico manovra l’altro elemento fluido oltre l’aria dei palloncini, l’acqua di una vasca da bagno. In questo bailamme, che ripete senza tregua situazioni, come in una nuova schematica commedia dell’arte, e che molte volte si riavvolge su sé stesso all’incontrario, scorre un testo registrato che puntualizza, una volta di più, alcuni dei temi portanti, il tempo, la sua misurabilità e alterabilità; la costituzione della figura con le sue essenza e con la sua apparenza riconoscibile, stereotipa, data dal nome; il mito di Fetonte e della caduta per giovanile imperizia; Archimede, la fisica classica e quella della complessità; Fidia, la bellezza e l’orrore, la celebrazione dei trionfi e l’oblio per i vinti; la notte dei guerrieri e bruciarono Troia…
Come evitare il cammino in linea retta verso il nulla? Come evitare quello che chiamiamo destino?
Sotto tutti gli strati che si sovrappongono, dietro il kitsch che deborda, in questo teatro grottesco, che accosta e fa deflagrare tensioni diverse, filosofico, eccessivo, ripetitivo fino a momenti di noia e poi pronto di nuovo a slanciarsi in un salto mortale, a guizzare vorticoso, intimo, stereotipo, coinvolgente, emerge un desiderio radicale di lotta alla riproduzione della realtà, di evasione dalle galere del di-vertimento spettacolare, della riduzione del mondo a una semplicità controllabile, dominabile, facilmente vendibile. È un divertimento diverso, che apre vie di fuga, che suggerisce e non intima, che offre la possibilità di essere continuamente risucchiati altrove, e di scoprire altre possibilità.
Magnifici sono gli interpreti di questo folle burlesque dai tratti meta-fisici, che superano l’apparenza fisica e per accumulazione di maschere provano a scavare altre realtà: Valentina Banci, come Cassandra e come Imene (nella seconda parte) e voce fuori campo di Cassandra, scatenato, perfettamente oliato, motore della macchina; Luca Nucera, il compunto, smarrito pseudo-psicanalista e poi l’idraulico, ‘meloniano’ agente di caos; Massimiliano Sbarsi, il debordante altro psichiatra e il poliziotto pronto a sparare e uccidere e veder rinascere; Alberto Astorri, l’ombra misteriosa, sottile e ingombrante di Graves e l’umbratile marito di Imene; Laura Cleri, l’attrice, la finta ingenua, la maschera, la popolana Zoraide che cita dolorosamente Il giardino dei ciliegi; Davide Gagliardini, un Apollo dai molti travestimenti e poi il notaio, altro agente di caos; Pavel Zelinsiy, il nevrotico ludopatico e il figlio studente fallito, borderline del desiderio represso. Le scene baroccamente post-moderne, deliberatamente un accumulo di paccottiglia e di elementi simbolici, sono di Alberto Favretto, i costumi cangianti e fantasiosi di Giada Masi, le ombre e le luci di Luca Bronzo, le punteggianti musiche di Alessandro Nidi, per la regia dello stesso Spregelburd.
Le fotografie sono di Andrea Morgillo.