Orlando, la musica del desiderio

27 Dicembre 2024

La luce invade un prato verde dal quale si erge un enorme tronco, simile a zampa di animale preistorico. Un prato sintetico, come quello indimenticabile di 1980 di Pina Bausch, luogo di rivelazioni e mascheramenti. Un tronco teatrale, gigantesco, senza rami e fronde, che si perde nella soffitta del teatro Astra di Torino, tra proiettori e “americane”. In quella piena luce, perfettamente, chiaramente distribuita, inizia Orlando, da Virginia Woolf, nella nuova traduzione di Nadia Fusini, con l’essenziale, musicale adattamento drammaturgico di Fabrizio Sinisi, la regia di Andrea De Rosa e l’intensa interpretazione di Anna Della Rosa.

In quel prato, nella luce che non vuole nascondere alcun dettaglio, sta una sola donna, un corpo sottile, fragile, vestito quasi da collegiale. È rincantucciata, a scavare dentro di sé le zone d’ombra che il chiarore dell’illuminazione disegnata da Pasquale Mari nasconde. È il personaggio, Orlando, l’uomo del Cinquecento che vivrà quattrocento anni trascorrendo identità, trasformandosi in donna, il viaggiatore dei sentimenti e degli stati dell’anima, ma è anche la scrittrice, Virginia Woolf. La scrittrice concepisce questo romanzo – che inizia con la bellezza del giovane orlando nel sole e che presto diventerà abbacinante nel bianco della glaciazione inglese degli inizi del Seicento – per il suo amore “proibito”, Vita Sackville-West. Le scrive, in una lettera del 1928, l’anno di pubblicazione del libro: “Supponi che Orlando si riveli essere Vita e che sia tutto su di te e la lussuria della tua carne e la seduzione della tua mente… ti secca? Di’ sì o no”.

Quella che esce dalla penna della grande autrice è una storia di desiderio, di mascheramenti, di assenza, di mutazioni, di sentimenti contrastanti, notturni, vissuti nello struggimento al chiaro di luna. Perciò in quella luce totale l’attrice all’inizio se ne sta accartocciata su sé stessa, in attesa di farsi esplodere per la passione nell’incontro con la fascinosa aristocratica russa Sasha, aspettando di lanciarsi in un balletto di felicità pronto a mutarsi nell’urlo della delusione del tradimento quando si accorge che l’amata si fa abbracciare da un altro, quando scopre che ha abbandonato Orlando.

Faranno in tempo le ombre a dilatarsi dall’interno del corpo dell’attrice, e dai suoi toni, sempre come distanziati, epici, ma allo stesso tempo tendenti al vortice del coinvolgimento, ribollente e raffreddato, teatrale. Le ombre lentamente invadono il palcoscenico, creando angoli dove nascondere il notturno dolore, di Orlando e di Virginia, il loro disincanto, la loro perdita di consistenza. Ma un altro bianco, a poco a poco, irrompe in scena. Dall’inizio piove dall’alto qualche foglio, che può sembrarci un’immagine di questa lunga lettera rivolta all’amata da Virginia sotto l’effigie del giovane cavaliere.

Il primo rabbuiarsi del prato è quando i due amanti assistono a una rappresentazione con un moro che accusa una donna bianca, uno shakespeariano Otello. Il nero e il bianco, la notte della gelosia, lo scuro dell’anima e la luce della gioia (e dell’apparenza). Quando l’abbandono è dichiarato, quando la nave di lei si allontana, l’attrice, Orlando, diventa un corpicino dai piedi nudi sotto uno scialle e sotto un persistente battere di pioggia, che scioglie violentemente la terra e l’acqua ghiacciate: il suono di Gup Alcaro segue le passioni dell’opera, sospingendoci nel romanticismo estremo dell’amore con Čajkovskij, nello stridore del disincanto con suoni ruvidi, nel precipitare atmosferico dei sentimenti. E dopo il dolore è un fioccare, come neve, di fogli bianchi dall’alto.

Il personaggio, è dichiarato, si perde nel bosco, nel labirinto della letteratura, della fantasia, di quel diverso modo di rendere presente la distanza che è la scrittura, con il retrogusto amaro comunque dell’assenza. Fogli candidi invadono la bella struttura scenica di Giuseppe Stellato, mentre Orlando, dopo un lungo sonno, cambia sesso, e sperimenta un altro modo di vedere il mondo e i sentimenti, quello della donna, che gioca anche con la seduzione, facendo vorticare intorno a sé gli uomini. Ma soprattutto la nuova Orlando acquista una diversa cognizione del tempo. Esso non è più uno svolgersi ordinato e prolungato: un attimo, come in teatro, come nell’immaginazione, può contenere un lungo processo e una vicenda distesa nei giorni può essere concentrata in un bagliore. La scrittura, la letteratura, e quel loro surrogato o motore che è il desiderio, possono tutto.

Romanzo rappresentativo del Novecento, delle sue rivoluzioni e di sue tensioni che sarebbero maturate in tempi più vicini a noi, questo Orlando per voce sola diventa un saggio appassionato sulla potenza della rappresentazione, quando non sia simulazione, travestimento teso a occultare, ma diventi scavo, ricerca di illuminazione. Chiama in scena l’affettività, la sensualità, la sessualità, le loro fluidità e le immaginazioni che portano con sé; evoca la repressione della vita borghese (il matrimonio di Virginia e il suo bisogno di evasione dalle convenienze seguendo il sentimento); apre all’esplorazione di orizzonti imprevedibili. Tutti questi stati sono chimicamente sublimati nella letteratura, che cambia i connotati alla presenza e alla distanza, fingendo favole che materializzano la felicità dell’incontro e il dolore della privazione. Non a caso la rassegna di Teatro Piemonte Europa in cui è inserito lo spettacolo si intitola Fantasmi: qui il fantasma indagato è quello dell’identità, uno steccato dentro il quale ci rinchiudiamo e che la realtà della vita travolge.

Cosa aggiunge il teatro? Altre musiche. Musica è il trattamento del romanzo che fa Fabrizio Sinisi, che da tempo stimiamo come uno dei nostri migliori drammaturghi e che forse possiamo rimproverare solo di non cimentarsi abbastanza con opere sue originali. Questo Orlando è una sintesi stringente che coglie gli snodi principali, affettivi e anche teorici, della scrittura di Virginia Woolf. In complicità con l’indicazione del regista, ne estrae il sottotesto della lettera d’amore a Vita, del travestimento e della rivelazione, dell’esplorazione per metafore di sentimenti profondi, quegli stessi che porteranno la scrittrice al suicido, evocato nel finale, con queste parole, mentre ancora una campana scandisce il ritmo dell’altro protagonista, il tempo:

Vita, mi manchi più di quanto potessi credere così, in verità, questa lettera è solo un grido di dolore.

1) Monk’s House. Mezzanotte. Il campanile di una chiesa batte l’ora in fondo alla valle.
2) Muore la luce; fisso le tenebre; il vento cade,
3) vedo le onde incresparsi pacifiche al chiaro di luna.
4) M’immergo nell’acqua.
5) È il 28 marzo 1941.
6) Vita: qui si spalanca il baratro.

Non è bello finire così una lettera?

L’attrice si è abbandonata a terra, mentre ancora fogli bianchi le cadono addosso, la ricoprono, in un’altra candida glaciazione – tutta da (ri)scrivere su quelle pagine intonse.

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Musica di sentimenti sono le luci, tra un chiarore primaverile o un freddo glaciale, ma soprattutto tra apparenza illuminata e ombre che dilagano dall’anima e invadono lo spazio. Come musica è la colonna sentimentale di Gup Alcaro. Soprattutto musica è la regia, leggera e intelligente, capace, come le parole, di illuminare i gangli di un testo insidiosissimo, portatore di molte delle istanze di tempi umanamente e letterariamente inquieti.

Musica è l’attrice. Con uno di quei maledetti provvidenziali microfonini, che nelle foto sembrano imbarazzanti foruncoli, riesce a modulare in mille toni la voce. Inizia distante, epica, porgendo fuori di sé il racconto e il personaggio, la sua descrizione fisica e il suo precipitare nell’amore, Orlando e Virginia. È un teso dialogo tra due voci, all’inizio, quella dell’autrice e quella dell’attrice. Diventa una polifonia poi, una combinazione delle parole di Virginia Woolf risonanti dentro Anna Della Rosa con gli interventi del regista, delle luci, del suono, con un forte significato ricoperto anche dai costumi di Ilaria Ariemme.

In questa tessitura l’interprete a poco a poco cambia registro, passo, ed è il corpo, minuto, sottile, squassato dall’amore, poi dal dolore, sempre dal desiderio, a trascinarci dentro quello che la voce sembra distanziare, come materia che troppo può fare male. Fino a inerpicarsi sulle vette della riflessione, continuamente pronta a sprofondare nei crepacci dell’anima.

Altre volte ho sentito Anna Della Rosa sublimemente tecnica, analitica nei confronti del testo, fino a ingenerare un fascino che teneva a rispettosa distanza. Qui – nell’inoltrarsi in un bosco immenso, sintetizzato da quell’unico tronco e dai mille fogli che lentamente cadono, bosco di parole, suoni, immagini, tempi, controtempi, associazioni, prese di distanze; in questo fuggire dalle identità predefinite e ammalarsi di letteratura, che è un ammalarsi profondamente di immaginazione, di vita, e cantare il desiderio nelle sue forme più diverse e imprevedibili – qui l’ho sentita diventare a poco a poco vicina, come un chiaro raggio di luna leggero e insidioso, sfuggente, sottile, malato, dolcemente avviluppante.

Orlando è una produzione di Torino Piemonte Europa, andata in scena al teatro Astra di Torino dal 6 al 15 dicembre. Sarà in tournée nella prossima stagione 2025-2026.


Le fotografie sono di Andrea Macchia.

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