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Casanova Memoires

28 Marzo 2025

È un teatro della memoria e dell’oblio il Casanova di Fabio Condemi e di Fabrizio Sinisi, rispettivamente regista e autore dello spettacolo che ha debuttato qualche settimana fa al Lac di Lugano. Un dialogo incessante con i morti, con i propri fantasmi, e una proiezione verso il nostro mondo di un uomo impregnato della cultura del suo secolo, il Settecento. Per quadri staccati vediamo il vecchio confinato nella biblioteca del conte di Waldstein nel castello di Dux, in Boemia, intento a scrivere le proprie memorie; lo incontriamo bambino figlio di un’attrice, avventuriero, amatore, cultore di scienze occulte, ermetiche, con sfumature di truffatore, bon vivant tra Venezia e Parigi, corrispondente di Voltaire, spettatore perplesso di un nuovo secolo e di una nuova epoca che si annuncia con la Rivoluzione Francese e con la decapitazione dei prìncipi, dei valori e dei simboli fino ad allora saldi.

Ma è ancora qualcosa di più questo Casanova, come lo scrive Sinisi. Testimonia una frattura nella storia dell’umanità, registra un passaggio dall’ottimismo settecentesco, leibniziano, alla coscienza della violenza della natura, nata dopo il terremoto di Lisbona del 1755, creando un cortocircuito tra il Candide di Voltaire e il senso leopardiano della natura ostile, matrigna. Nei dialoghi con la marchesa d’Urfé, alchimista ella stessa, il protagonista di questo spettacolo abbandona la cultura settecentesca per proiettarsi verso la scena culturale del Novecento, evocando, ironicamente, le rivoluzioni della concezione dello spazio e del tempo e perfino il paradosso del gatto di Schrödinger. Alla chiusura della sua vicenda, allo spegnersi delle luci sulle sue memorie, dopo aver ricordato, con orrore, le violenze della Rivoluzione, prefigura, profetizza: “E poi passeremo i secoli futuri: vedremo le guerre e i fuochi e la fine del genere umano. Vedremo la terra diventare un deserto. Ecco: tutto sparisce sotto un sole invecchiato, che continua a crescere e a gonfiarsi, finché diventa gigantesco e rosso come un bubbone infetto” mentre una mongolfiera si leva nel cielo dello spettacolo.

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Lo vediamo, Casanova, ad aprirsi di sipario, vecchio, in una biblioteca costruita anche di reperti delle sue memorie, con pannelli disposti su vari piani che si apriranno ai ricordi, facendo apparire volti, figure del secolo. Gli dà corpo Sandro Lombardi, un attore che ha attraversato varie rivoluzioni del teatro e che ora, passati i settant’anni, è arrivato a una sapienza recitativa assoluta, rifulgente negli sguardi, nei passettini stanchi, nelle accelerazioni improvvisamente energiche, negli smarrimenti, negli slanci, negli impeti, nella ricerca di una memoria fragile come luci tremolanti di candele. Così inizia lo spettacolo: Casanova, anziano (morirà a Dux nel 1798, a 73 anni) dà luce alla biblioteca accedendo candele. E incontra un mesmerista, un medico (il bravo Marco Cavalcoli) cui chiede una cura per ritrovare la memoria, smarrita dopo la scrittura, in francese, delle 3920 pagine delle Memoires, le memorie della sua vita. Il mesmerista viene da Parigi, città che incornicia l’opera, con quella mongolfiera che si è levata in volo annuncio di tempi nuovi: ne parla all’inizio e la vedremo volare; ritornerà alla fine, quando la Rivoluzione avrà chiuso l’arco di meno di due ore dello spettacolo.

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Ogni scena è un viaggio nella vita dell’avventuriero e un affondo in ricordi che si stanno dissolvendo. Vediamo Casanova, interpretato dal piccolo, intento, Edoardo Matteo, vittima di episodi di epistassi, portato dalla madre da una praticona che lo rinchiude in una cassa. Simulazione di morte e rinascita? Intanto Casanova vecchio urla, grida contro quei tedeschi che non capiscono lui, che non è stato solo un amatore, come si crede, ma un filosofo, in dialogo con Voltaire, uno di fronte al quale il tedeschissimo Kant deve correre a nascondersi. Si slancia in una rampogna contro quei tedeschi che parlano una “lingua canina e sgraziata incapace di formulare un’idea complessa – questa lingua bestiale e apocalittica, nella quale non si può esprimere volontà diversa dal mangiare, l’uccidere e l’evacuare”. Con queste parole feroci Sinisi disegna bene la frattura tra due secoli, tra la politesse settecentesca e quello che verrà dopo, nell’Ottocento, quando proprio il tedesco, quella “lingua incapace di formulare un’idea complessa”, diventerà la sintassi della filosofia. (L’ironia della sorte, tra l’altro, volle che la prima edizione dei Memoires fosse pubblicata nel 1822 proprio in tedesco.)

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Assistiamo alle avventure veneziane di Casanova, lo vediamo, giovane, oppresso dai preti, attirato dai suoni e dalla gioia del carnevale, e ascoltiamo l’inserto di alcuni sonetti di Giorgio Baffo, patrizio veneziano che vantava la “mona” e le sue delizie: “I più savj per te deventa pazzi, / e’l coraggioso in ti se perde, e incanta. // Quei che d’esser gran teste se milanta, / per ti deventa tanti visdecazzi, / ti fa i vecchj deventar ragazzi, / e ti far peccai alla zente santa (…)”.

Vediamo Giacomo imprigionato e assistiamo alla fuga dai Piombi, davanti a un mare nero che richiama quello realizzato con sacchi della spazzatura nel film di Fellini. E questa versione dell’avventuriero guarda abbastanza a quella del maestro riminese, con una malinconia profonda, un senso di fine, di vecchiaia devastante, di sconfitta. La fuga dai Piombi richiama subito il terremoto di Lisbona, lo scuotersi della terra, con un’apparizione di Voltaire.

La ricerca del filo smarrito della vita trascorsa non può dimenticare le passioni, i giochi d’amore: l’anziano sembra rinascere alla visione di una ragazza che si spoglia e si immerge nuda in una vasca o ripercorrendo l’incontro amoroso con Henriette, gambe che si agitano su un letto…  Da un ritratto-maschera appare un’anziana figura femminile, imparruccata, e anche Casanova nel rammentare l’incontro con la marchesa d’Urfé si imparrucca, dismette le vesti da camera acquistando dignità salottiera. Ma i contenuti del discorso ermetico tra i due ci porteranno vicino a noi, prefigurando temi scientifici e filosofici del Novecento, con un sorriso sulle profezie ermetiche. Nel palco si aprono finestre che materializzano il teatro della memoria, facendo lampeggiare volti e momenti; sulla destra troviamo una proiezione che richiama la tavola di colori di Paul Klee, che illustrò, ricordiamo, il Candide di Voltaire, un gioco di composizioni e contrapposizioni di tinte pure e di sfumature che raffigurano un mondo screziato, che va scomponendosi, riaggregandosi e scomponendosi di nuovo continuamente nei suoi assi portanti. Così i volti appaiono imparruccati, mascherati, rivelati, esplorati, in una sinfonia di sfumature, di travisamenti ed epifanie, rinforzata dalle belle luci (e ombre) di Giulia Pastore.

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A poco a poco, con dissolvenze segnate da irruzioni di fumo, da smarrimenti di Casanova e da suoi rinvenimenti, l’amarezza trionfa: “Guardate Lisbona, e l’intera civiltà umana vi sembrerà niente più che una scenografia teatrale fatta a pezzi. Eppure i filosofi dicono: ‘Tutto è bene, tutto è Provvidenza’” sentiamo. E poi la viene la Rivoluzione, che travolge un mondo, e infine, sull’ultima soglia di questo teatro della memoria, in un dialogo tra residui del tempo, Casanova e la Marchesa, si squarcia il velo del dolore per l’impotenza del corpo, per gli oltraggi dell’età, che corrispondono alla fine di un’epoca e di una vita, con un senso leopardiano di dissoluzione. Riflette, la Marchesa: “Il cosmo quello sterminato grande niente che tutto inghiotte e ora io sono qui come un relitto una cosa consumata dal passato che per tutta la vita non ha mai pensato a vivere ma solo a non morire e ora si cruccia Casanova sì io mi cruccio di non aver vissuto. Soltanto ieri ero una bambina piena di un amore senza fine, e adesso sono un povero mostro divorato dal terrore di morire e continuo a chiedermi: quanto tempo mi resta?” E Casanova, sfinito, prefigura: “Non disperate, Marchesa: vedete – noi stiamo per renderci immortali. (…) Quando una parte del corpo deperirà fino ad ammalarsi, la sostituiremo con un’altra, completamente nuova. Quando i nostri organi appassiranno come fiori secchi, ne prenderemo altri. E quando anche le ossa seccheranno, ne impianteremo altre, in ferro e titanio: diventerete una creatura divina, mezza donna e mezza macchina, ma con dentro un’anima antica e bellissima. E quando il vostro sangue si sarà invecchiato, prenderemo quello di qualcun altro. I giovani! La terra è piena di ragazzi a cui succhiare sangue fresco. Di giorno dormiremo congelati dentro grandi sarcofagi, e di notte ce ne andremo a caccia”.

Come i vampiri, in un mondo che è il nostro, oggi, avviato verso l’esplosione, verso una terra desolata nel grande fuoco desertico del nulla.

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Fondamentale nello spettacolo è il testo, acuto e sensibilissimo, cui Sandro Lombardi dona ulteriori spessori, coadiuvato da Marco Cavalcoli, da Betti Pedrazzi, una maschera del tempo che travolge, pulsante mentre nell’apparenza volutamente si immobilizza; con gli apporti dei giovani Simona De Leo e Alberto Marcello. Le scene e la drammaturgia della screziata immagine complessiva sono di Fabio Cherstich, i costumi di Gianluca Sbicca, il suono, fatto per lo più di variazioni sul Settecento, di Andrea Giannessi. Fabio Condemi, alle prese con una sonata di fantasmi sulla linea dei suoi Calderon di Pasolini, Nottuari da Thomas Ligotti e di altre sue creazioni, dà coerenza nella molteplicità al disegno, disseminando idee nella scrittura di Sinisi, nelle scene, nella prova degli attori.

Lo spettacolo, prodotto da Lugano Arte e Cultura e coprodotto da ERT/Teatro Nazionale, Teatro Piemonte Europa, Compagnia Lombardi-Tiezzi, dopo Lugano e Torino, si può vedere al teatro Bonci di Cesena fino al 30 e al Rossini di Pesaro dal 3 al 6 aprile.

Le fotografie sono di Luca Del Pia.

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