Corpo Teatro

15 Settembre 2024

Il teatro come prassi del fare, come corpo teatro, come trans nel senso di diventare passanti, di porsi continuamente in transito, tanto da superare le divisioni di genere, da praticare un’intimità pubblica, una capacità di stare in sé e nella polis

Sono questi alcuni dei temi che emergono da un piccolo libro estremamente denso, di cui Doppiozero aveva pubblicato il prologo all’uscita. La vita impresentabile. Femminismo e corpo teatro. Un dialogo (collana rasoi di Cronopio) è scritto come un dialogo a distanza tra un uomo e una donna, di professione intellettuali appassionati: Antonio Attisani, studioso di teatro, già docente nelle università di Venezia e Torino, viaggiatore nelle scene tibetane e in altri luoghi poco noti, ma molto di più, attore, animatore tra gli anni settanta e ottanta di una rivista innovativa come “Scena”, direttore di alcune edizioni del festival di Santarcangelo in cerca di un teatro non scontato, neppure nei territori della ricerca, di recente ancora attore pensatore con César Brie in Boccascena o le conseguenze dell’amor teatrale; Lea Melandri, uno dei nomi storici del femminismo dagli anni settanta, redattrice delle riviste “L’erba voglio” e “Lapis. Percorsi della riflessione femminile”, ricercatrice sulle problematiche dei sessi e delle pratiche dell’inconscio nei movimenti femministi, ma anche curatrice, negli anni ottanta, di una rubrica in cui rispondeva alle lettere delle adolescenti sulla rivista “Ragazza in” discutendo di amore e sentimenti. Entrambi con molti libri alle spalle.

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Come possono una donna che si è interrogata per tutta la vita sulla differenza tra i sessi e sul patriarcato e le sue colpe e uno studioso di teatro condividere uno sguardo sul teatro, come prassi della presenza, gioco dei corpi, trasformazione? Lancia la sfida Attisani: “intendo il gioco del teatro, il teatro come lavoro, come rapporto […] tra la scena e l’osceno, tra la vita personale e la cittadinanza, la questione del ‘fingere veramente’, l’aspetto performativo della vita e, ultimo ma non meno importante, la questione dell’educazione e del viaggio individuale e collettivo tra generi e forme di vita”.

Per Melandri il problema è sempre stato quello di superare il “dualismo” tra privato e pubblico, di ripensare la “vita intima” sulla base della “storia non scritta” delle donne, staccare il femminile dall’assimilazione a un maschile dominante, capace di falsificare ogni rapporto e di trasformarlo in dipendenza. Il teatro è differenza, scriveva Attisani in un libro del 1978 con quel titolo (Feltrinelli), che Melandri cita più volte. E sulla differenza, sulle differenze, il dialogo incede.

Riprendendo altre affermazioni dello studioso, ispirate ad Artaud ma anche ad Aristotele, Melandri suggerisce: “l’importanza di un processo educativo che abitui fin dall’infanzia a fare del corpo il teatro di una varietà di manifestazioni dell’umano, un allenamento creativo capace di far uso di linguaggi diversi, dalla musica alla danza al canto”. Nel teatro, come nel femminismo, nota, si prova a “spezzare il linguaggio per raggiungere la vita”, per dare corpo alle potenze invisibili che ci abitano. E quel “raggiungere la vita”, osserva, l’ha visto realizzarsi in spettacoli del Teatro delle Albe, per esempio, negli anni novanta, in Rosvita, in cui Ermanna Montana immetteva nel trascendersi della monaca di Gardersheim “le voci di nonne, di madri, gli umori contadini delle sue origini, i suoi ‘ginocchi, le sue reni, i suoi piedi’, la materialità di un corpo”. 

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La parola, quella dell’autocoscienza e quella drammaturgica, spiccano come forme di un dialogo che implica i corpi, il movimento della relazione, dell’ascolto e della reazione con tutti sé stessi, nelle parti chiare del proprio sé e in quelle oscure. Così il teatro, per Attisani, è il ridere e il piangere insieme nel melodramma, quello di cui parla Nietzsche a proposito della Carmen di Bizet, un teatro che fa commuovere come bambini, senza vergogna, lontano dalle costruzioni ideologiche di Wagner. Un teatro di contrasti, grottesco perciò, ossimorico. “Un teatro che fosse ben più che un pensare, un dire, un predicare, un illustrare idee, un convincere, un guidare e persino un piacere; sognavo un teatro non consolatorio e giudiziario, realizzato da attori-autori indipendenti dalle ideologie dominanti, necessario e rivelatore, davvero ‘divertente e attraente per un nuovo e vasto pubblico”. E fa i nomi, nella temperie della ricerca italiana degli anni settanta, di Carmelo Bene, Carlo Cecchi, Leo de Berardinis.

Un teatro vita. Un corpo teatro, presente con tutte le sue pulsioni, in un trascorrere che non arriva a un punto, a una forma definitiva, ci pare di capire, ma si slancia a pro-vocare le ombre e le memorie del passato per disegnare, per scovare, un futuro imprevedibile, con Artaud, con Carmelo Bene, con Grotowski, un teatro che diventa lavoro sulle radici e sul mondo, sul sé più segreto e sulla polis, personale, ancestrale e bisognoso di aria nuova.

Un teatro – nota Melandri di rimessa – come cultura vivente, che non si accontenti di ricomporre il mito dell’androgino, con le donne sempre in una posizione subordinata, ma che cerchi nuove strade di autonomia e di sperimentazione. Melandri cita Virginia Woolf e Sibilla Aleramo. In certi momenti bacchetta amichevolmente il troppo spazio che Attisani si prende, e poi, anche lei, distende per svariate pagine i suoi ragionamenti, ripercorrendo idee dei movimenti femministi degli anni settanta, osservando le tesi di Attisani e quelle di Corpo teatro di Jean-Luc Nancy. Il dialogo a distanza si ferma su parole come corpo, presente nella pratica teatrale e in quella femminista; si intreccia, si distende, si inerpica nella critica delle “formattazioni”, delle riduzioni all’omologazione voluta dalle ideologie e dalla conservazione sociale, per scoprire la forza dell’educazione, della conoscenza. Diventa filosofico, mentre cita esperienze concrete, di vita, di teatro, come l’Otello Circus del Teatro la Ribalta con attori definiti in qualche protocollo medico portatori di handicap mentale, un lavoro che attraversa Shakespeare e Verdi con umorismo circense, “una scena che conduce su montagne russe di sgomento e gioia, di risate e pianti, un evento scenico accessibile a tutti e provocatore di pensieri vertiginosi”. Una specie di “sogno di Mejerchol’d” lo definisce ancora Attisani, un flusso di relazioni in scena che esplora le differenze degli interpreti creando una mirabile partitura vivente. 

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Il dialogo più volte cita Carla Lonzi, il cui pensiero è stato all’origine di questo incontro.

Il teatro, alla fine, risulta lontano da quello ‘seduto’ cui assistiamo nella maggior parte dei luoghi deputati. Per Attisani e Melandri deve essere piuttosto uno sperimentare continuo, una pratica che sposta in continuazione le energie e i pensieri degli ‘attori’ nel realizzare un’opera comune, che parta da sé, dal sé profondo, per realizzare qualcosa di condivisibile. Si appella al grottesco, come pratica dei contrari, dello scontro tra materiali. Attisani: “mentre i realismi sono autoritari e maschili senza appello, nel grottesco saltano anche le identità di genere e si è fatalmente nel trans. Al limite, il grottesco non si può dire cosa sia, salvo che lì si assiste alla traiettoria delle convenzioni dal nulla al nulla. E certo, il trans grottesco esalta vistosamente i ‘diversamente abili’ (questa volta la definizione politicamente corretta è corretta davvero)”.

Si tratta di fuggire da un mondo pietrificato e congelato, in una ricerca concreta di eudemonia, di pubblica felicità, scrive ancora Attisani citando Roberto Ciccarelli, nel finale, quando le due voci sembrano unificarsi o perlomeno trovare un controcanto nota contro nota stretto, un procedere insieme concertando melodia e armonia, verso la “modificazione di sé e del mondo” per fare della vita intima, del vissuto privato, impulso di partenza “per arrivare al cambiamento radicale di un modello di civiltà che porta da millenni l’impronta di un sesso solo”. 

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Antonio Attisani (a destra), con César Brie in Boccascena, ph. Paolo Porto.

Come raggiungere la pubblica felicità, partendo da sé? Come realizzare un’eudemonia? Attisani cita Brecht: “Tutte le arti contribuiscono all’arte più grande di tutte: quella di vivere”. Melandri a un amico, davanti al mare di Carloforte, che chiedeva come arrivare alla pubblica felicità, rispose: “se la rappresentazione della felicità, come immagine di perfezione e armonia tra elementi opposti, maschile/femminile, mente/corpo, intelligenza/sensibilità, ecc., è più visibile nel rapporto d’amore, tuttavia è presente anche nella vita della comunità sociale quando è pensata, idealmente, utopisticamente, come ricongiungimento di ciò che la storia ha diviso e contrapposto […] risorsa di vita e di innocenza”. Partire da sé, fare l’esperienza delle passioni, immergersi nella poiesis, nel fare in sviluppo dinamico continuo, in relazione, scrittura di esperienza, nel movimento non autoritario della scuola e nel femminismo, come Melandri, nel teatro, come Attisani. 

Poco prima dell’ultima pagina Melandri ricorda ancora il saggio di Attisani del 1978: “tu hai parlato del teatro come luogo della differenza, luogo in cui  una società sogna e festeggia i propri obiettivi, i propri ‘santi’, le proprie capacità, i propri risultati, ‘luoghi dove è possibile la religione di cui ancora abbiamo bisogno, cioè il rapporto con i fallimenti e la residua follia, una religione che non è consolazione metafisica e motivazione sovrastrutturale dell’ingiustizia, ma sistema di critica e solidarietà’. E aggiungevi: ‘ attore è colui che mostra l’inaccettabile della vita vivendola più intensamente, colui che simboleggia uno stare al mondo più realistico, riconoscendo le mille facce dell’alienazione e conducendo una lotta totale contro di essa’”.

“Che fare?”, ricorda Melandri, era una delle domande iniziali del libro, la più importante, forse. Il dialogo stretto tra femminismo, pratiche del corpo, poiesis, teatro, tra Melandri e Attisani ha fornito varie, seppure parziali, risposte, nel superamento della cultura patriarcale, per un’azione che cerca “un’altra lingua”, “capace di ragionare con la memoria del corpo, la nostra infanzia, la vita intima e, contemporaneamente, con i linguaggi e i saperi di fuori, le lingue sociali”. “Per me – suggella Melandri – il ‘che fare’ è il qui e ora di una lotta che, come scrive Miguel Benasayag, ‘conosce un’infinità di luoghi di resistenza’”.

Antonio Attisani, Lea Melandri, La vita impresentabile. Femminismo e corpo teatro. Un dialogo, Cronopio, pp.152.

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